Il Venerdì Santo di Fragheto
Tedeschi e fascisti, alla caccia di partigiani, fanno strage di vecchi, donne e bambini. L'agonia di Rimini

I giorni dell’ira, 13. "il Ponte", 04.11.1990
60. Settimana di passione.
«A Viserba, c'era un fascista che tutti i giorni si metteva in mezzo alla strada, in divisa nera, pistola al fianco, due pugnali alla cintura, mentre un disco suonava 'Giovinezza'», rammenta Nicola Padovani, classe 1921. (1)
A Viserba, nella corderia, vengono rinchiusi gli italiani rastrellati dai tedeschi e dai repubblichini. Salvatore Berardi, classe 1932, giocando con altri ragazzi suoi coetanei, aveva scoperto per caso che una specie di fogna collegava la corderia con la fossa esterna dove scorreva l'acqua per il mulino: «Essendo dei bambini noi allora potevamo girare senza paura e così ci avvicinammo ai cancelli», per avvisare i prigionieri italiani di quella possibile via di fuga. «Ne sono usciti molti, e a guerra finita, in tanti sono ritornati qui per ringraziarci». (2)
Ma nella corderia si trovano anche i «turkestani prigionieri dei tedeschi». Addestrati dai nazisti, «quando iniziarono ad uscire dalla corderia si dimostrarono sùbito più cattivi degli stessi tedeschi, perché quando vedevano i giovani cercavano di catturarli per portarli come prigionieri alla corderia». (3)
Di quei giorni, la gente ricorda i rastrellamenti operati dai militi di Salò, assieme ai tedeschi. Un episodio accaduto in Valmarecchia, a Ponte di Casteldeci: «I rastrellatori tedeschi... oltre il bestiame razziato avevano nove ragazzi che consegnarono ai repubblichini... Per evitare che durante la notte i prigionieri fuggissero, li avevano messi sul ponte, e all'entrata e all'uscita del ponte s'erano accampati centinaia di militi». (4)
Nonostante questo imponente servizio di sorveglianza, un rastrellato di origine slava riesce a fuggire.
«Al mattino presto i militi prendono gli altri otto prigionieri, ad uno ad uno gli tagliano i capelli con la baionetta, asportando anche diverse parti della pelle della testa, poi li conducono nel fiume e gli chiedono qual era il loro ultimo desiderio...». Uno di quei ragazzi vuole una sigaretta, come nei film. Un altro va a lavarsi il viso nell'acqua del fiume, altri bevono: «Poi li fecero mettere tre per tre, con le braccia incatenate l'uno all'altro, e quando erano a posto un milite dalla strada li ha falciati con un mitra». Era il sabato santo , 8 aprile 1944.
I repubblichini spogliarono di scarpe, portafogli e documenti quei giovani, e stavano per andarsene quando si accorsero che uno di loro era ancora vivo: un grosso busto di gesso che indossava, aveva ridotto l'effetto delle pallottole. Si era alzato dal mucchio dei cadaveri, chiedendo perdono: «Sono figlio di mamma anch'io, lasciatemi vivere». Una seconda raffica lo fulmina. Poi, «il brigatista boia, prende delle bombe a mano e le lancia sui cadaveri, riducendoli in uno stato pietoso». (5)
A Tavullia, le bombe a mano i repubblichini le tirano contro la popolazione inerme che attende un'assegnazione di grano. (6) E' un ricordo di Carlo Toni che dopo l'otto settembre fu costretto dai Carabinieri di Cattolica a presentarsi al Distretto militare di Forlì, dove assistette alla fucilazione di un gruppo di reclute (che rifiutavano di indossare la divisa di Salò), e di altri soldati che avevano tentato un'evasione : «Le fucilazioni furono eseguite alla presenza delle reclute in modo da intimorirle a non tentare altre fughe». (7)
A Gabicce, c'era il Comando dei Bersaglieri di Salò: due militari che avevano tentato di scappare, Rasi e Spinelli, vengono ripresi e giustiziati entro le mura del cimitero di Cattolica. (8)
Una pensionata comunale di Tavullia, Luigia Benelli, così ritrae la situazione nella primavera del '44, nel suo paese: con l'arrivo di molti militi della Legione Tagliamento, comandati dal cap. Antonio Fabbri, quella popolazione, «visse giorni tristi, difficili e tragici». Anche qui, cinque giovani fucilati accanto alle mura del cimitero per non aver risposto alla chiamata alle armi. Tra i fascisti, ricorda la Benelli, «oltre ai fanatici, vi erano anche dei buoni ragazzi, ingannati, costretti a dover prestar servizio militare perché presi in rastrellamenti». Ne ricorda uno, con la testa rapata a zero, per punizione: aveva rifiutato di partecipare al plotone di esecuzione. Un altro era stato incarcerato, e raccontava: «Vede, per non fare del male agli altri, mi hanno messo in prigione». (9)
Nella settimana santa del '44, tedeschi e repubblichini danno la caccia ai partigiani tra i monti della Valmarecchia: siamo a Fragheto, frazione di Casteldeci. Candido Gabrielli, classe 1921, vede arrivare i partigiani che portano con loro un soldato germanico. «Lo scontro tra partigiani e tedeschi... durò tre o quattro ore», e si risolse con la fuga dei partigiani, sopraffatti dalle truppe hitleriane. Il tedesco prigioniero riesce a scappare, raggiunge il suo Comando che decide un'azione di rappresaglia contro la popolazione di Fragheto, rea di aver ospitato i partigiani. I nazisti passano casa per casa, «uccidendo vecchi, donne, bambini». Le case vengono incendiate. E' il venerdì santo. (10)
La domenica di Pasqua, mons. Luigi Donati si unisce a Ponte Messa ad un gruppo di persone che stava andando a Fragheto: «Ci siamo trovati di fronte ad uno spettacolo terribile, raccapricciante. [...] La maggior parte delle case bruciate aveva il tetto di lastre che era crollato seppellendo persone e cose, lì sotto il fuoco ardeva ancora». A chi gli chiedeva notizie, nei giorni successivi, sulla ferocia di tedeschi e repubblichini, abbattutasi a Fragheto, mons. Donati rispondeva: «Mi vergogno di essere uomo». (11)
Scheda. Le vittime civili furono 33, tra cui «un bimbo di 18 anni», come scrisse Guglielmo Marconi nelle sue memorie (p. 139 di Vita e ricordi sull'8ª brigata romagnola, Maggioli, 1984). Nello stesso testo (p. 96, nota 93), è riportato un bollettino militare sullo scontro armato tra partigiani e tedeschi, prima dell'eccidio: «Dopo quasi tre ore di combattimento i tedeschi lasciavano sul terreno più di cento [uomini] tra morti e feriti, mentre i nostri reparti si ritiravano con soli quattro morti e due feriti leggeri». Poi, «i tedeschi fucilarono trentatré persone della popolazione locale, unicamente responsabile dell'esser stata vicino al luogo del combattimento». In altre parti del testo di Marconi, si parla di responsabilità di «brigatisti italiani» (p. 104) e di «sete di sangue dei fascisti» che «si scagliò anche sui pochi civili, vecchi, donne e bimbi del luogo… senza che fossero colpevoli di atti di guerra» (p. 105).


Note
(1) Cfr. l'intervista in Ghigi, La guerra a Rimini…, cit., p. 327.
(2) Ibidem, p. 347.
(3) Ibidem, pp. 346-347.
(4) Cfr. l'intervista a Benedetto Carattoni, ibidem, p. 308.
(5) Ibidem.
(6) Ibidem, p. 338.
(7) Ibidem, p. 336.
(8) Cfr. le testimonianze di Carlo Tonti, ibidem, p. 337 e Cristoforo Galli, ibidem, p. 340.
(9) Ibidem, pp. 318-319.
(10) Ibidem, pp. 306-309.
(11) Cfr. La Repubblica di San Marino, Storia e cultura, Il passaggio della guerra 1943-1944, cit., p. 110.



61. «Basta con la guerra».
Il calvario di Rimini inizia il primo novembre 1943, alle 11.50, con una missione di diciotto aerei inglesi, divisi in tre squadriglie. Continuerà fino all'alba del 21 settembre 1944, giorno della nostra liberazione.
Ci saranno 396 bombardamenti in tutto. Non resterà in piedi che qualche brandello di muro.
La gente scappa, senza una mèta precisa, racconta nel suo diario Flavio Lombardini: «Sul volto di ciascuno si notava la disperazione». (1)
Il 4 novembre, venticinquesimo anniversario della Vittoria, vengono sepolte le vittime del bombardamento di tre giorni prima. E nei «sobborghi... vengono stampati e diffusi migliaia di volantini con la scritta "basta con la guerra: vogliamo la pace e il ritorno alla libertà"». (2)
Chi li ha pubblicati? Annota Lombardini che i responsabili sono «da ricercarsi fra i 'sovversivi' d'ispirazione anarchica». E' un'immagine che restituisce, fedelmente e con grande efficacia, i tormenti e i contrasti di quei giorni terribili, con le incertezze di giudizio e le cariche di pregiudizi che impedivano di comprendere come il desiderio di pace non fosse soltanto aspirazione dei seguaci di Bakunin.
Prosegue Lombardini: «I borghi Marina, San Giuliano e Sant'Andrea, maggiormente indiziati, vengono minuziosamente setacciati. Segni iniziali di resistenza. Se qualcuno di muove, i tedeschi distruggono tutto. Si registrano alcuni arresti fra gli elementi più sospetti». (3)
Il 27 novembre, il Commissario prefettizio avv. Eugenio Bianchini lascia il suo incarico. Lo sostituisce Ugo Ughi, il cui nome è stato imposto al prefetto di Forlì da Paolo Tacchi che, assieme a Frontali e Buratti, è a capo del fascio repubblicano.
Ughi, nato a Rimini nel 1908, è un funzionario dell'ente ospedaliero cittadino. Capitano combattente sul fronte albanese e su quello greco, l'8 settembre si trovava a casa in licenza. (4)
Ughi accetta controvoglia, ma prima tenta di rifiutare l'incarico. Cerca di utilizzare ambiguamente la cartolina precetto che gli era appena arrivata. Dice all'Esercito che doveva fare il Commissario in Comune a Rimini, e comunica alla Prefettura che doveva partire per le armi. Tenta cioè di servirsi della cartolina come «arma per evitare» sia il ritorno in divisa sia la nomina politica. Da Forlì lo costringono a scegliere: «Non c'erano scappatoie e scelsi l'incarico civile». (5)


Note
(1) Cfr. F. Lombardini, Fra due fuochi…, cit., p. 19.
(2) Ibidem, p. 21.
(3) Ibidem.
(4) Cfr. la presentazione, a cura di Piero Meldini, delle Memorie dal settembre 1943 all'aprile 1945 di Ugo Ughi, in «Storie e storia», n. 4, p. 75.
(5) Cfr. U. Ughi, Memorie, cit., p. 82.



Al capitolo precedente.

Antonio Montanari



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