Riministoria
il Rimino


Rimini ieri. Cronache dalla città [8]
1946. «Erba nei fossi e forche in piazza»
"il Ponte", Rimini, 30.04.1989
I conti con il passato, l'epurazione, l'attesa dell'ora «X»: dalle camicie nere alla bandiera rossa. Gli amarcord confusi di quei giorni.

I conti con il passato, l'epurazione, l'attesa dell'ora «X»: dalle camicie nere alla bandiera rossa. Gli amarcord confusi di quei giorni.

Venti ottobre 1946. Federico Fellini, classe 1920, dà la stura ai suoi primi amarcord dalle colonne del settimanale «Il Travaso delle idee», rievocando il giorno d'inizio della seconda liceo: «Dal fondo della piazza arriva calmo calmo sotto l'acqua, un ragazzo magro, spettinato, ha in testa un fazzoletto sporco. Svolta, entra nel portone del liceo. Si ferma al riparo, fuma una cicca, attendendo... Ma attendendo cosa, se sono già le otto e tre quarti? Signori miei, anche se è il primo giorno di scuola Fellini per onor di firma deve assolutamente arrivare tardi... Fuma, tirando su col naso perché è sempre un po' raffreddato. Alle nove precise, salirà...» Parla di sé in terza persona come Giulio Cesare.
Fellini gode già di una certa fama, nell'ambiente romano. Ha lavorato alla radio. In teatro. Al cinema. Anzi al Cinema. Da tre anni, è sposato con Giulietta Masina. Sta scrivendo con Rossellini il copione di «Paisà», e viaggia in lungo e in largo per l'Italia. Ma la memoria torna con il sentimento alla città che aveva lasciato all'inizio del 1939.

«Dal fondo della piazza...». Sono i fantasmi che ritorneranno nel film che appunto si chiama «Amarcord»: tra compagni di scuola innamorati, podestà ansanti nella corsa, turiste dell'Est al Grand Hotel, e una famiglia borghese, come tante, con quel padre repubblicano che in quel film, ma non nella vita, beve tanto olio di ricino marca duce, a causa delle sue idee politiche "sovversive".
La memoria fa i conti con la Storia, prima nella dimensione domestica, poi in quella più generale, collettiva. Si chiude con il passato. Ma come?
«Ovunque girava una parola nuova: “compagno!”. I vecchi se la scambiavano con un'antica familiarità; i giovani, invece, con un filo di ostentazione forse dovuta all'ebbrezza dell'apprendistato», testimonia Sergio Zavoli in «Romanza» (1987).
Ma c'era anche chi compagno non era stato, e a cui non piaceva d'esserlo nemmeno in quel momento.
Sergio Wolmar Zavoli (il secondo nome di battesimo è quello tedesco della cittadina lettone di Valmiera), come ci ricorda Liliano Faenza in «Fascismo e gioventù» («Storie e storia», n. 5, aprile 1981), aveva debutatto nel 1942 come giornalista da «camerata studente» in «Testa di Ponte», «bollettino del fascio riminese e dei fasci della Valle del Conca», ed era stato poi «assunto a indice del crescente gradimento del bollettino fra gli adolescenti».
Racconta Faenza che Zavoli «in una sua lettera [...] aveva dichiarato innanzitutto di rifarsi a due discorsi del duce e alla scuola semplice degli insegnanti e del padre che gli aveva passato una copia di quei discorso» del 1939. In un secondo intervento, «Zavoli, però, aveva anche confessato [...] un difetto», prosegue Faenza.
Aveva scritto Sergio Wolmar Zavoli: «Abbiamo la brutta abitudine di osservare dall'esterno, senza sufficientemente notare quanto avviene dentro di noi».
Commenta Liliano Faenza nel suo saggio: «Era un richiamo autocritico, un'esortazione all'interiorità. Non più il padre o il duce [...], ma Socrate, e sia pure quello dei manuali».
Sono commoventi altre parole che Sergio Zavoli ha pronunciato il 23 gennaio 1983, a Rimini nella sala Ressi, a proposito di «un uomo d'ordinbe, non di un antifascista»: sio padre, appunto, di cui (diceva) «ho un ricordo dolcissimo». Un uomo «che aveva accettato quel sistema», il fascismo, dopo esser stato volontario nella Grande guerra del 1915-18.

Come vissero questi uomini, onesti ma non 'compagni', anzi ex fascisti, quei giorni di novità?
Come vissero non quelli che s'armarono della "nostalgia" con di un baluardo da cui attaccare tutto e tutti. Ma chi fece il suo dovere, nei tempi nuovi, con l'unica colpa di esser stato iscritto al Fascio, forse solo perché era necessaria la tessera a chi occupava posti pubblici?
Il processo si chiamò epurazione.

Sfogliamo carte ingiallite. È un'autodifesa di quei giorni: nuovi tribunali dell'Inquisizione sembravano innalzarsi nelle piazze. Ad aspettare l'ora «X» non erano soltanto gli operai 'frontisti' del reparto Officina locomotive delle Ferrovie, tra alcuni dei quali serpeggiava un programma da nuovo Terrore: «Se vinciamo impiccheremo tutti», come racconta Liliano Faenza ne «I partiti politici a Rimini [...] 1945-1948».
Fra una citazione da quel manoscritto ingiallito, ci pare quasi violare il segreto di una vicenda, cercare una risposta o forse tentare di porsi delle domande che non riguardano un'epoca soltanto, ma scelte individuali; cercare di illuminare persone che non possono più spiegarci con la loro voce il senso di una testimonianza.

Nomi, circostanze, vicende, opinioni: la curiosità è in grado di farci capire? Oppure si rischia il pettegolezzo storico, mancando di rispetto ad una memoria?
Restano in mente le sicurezze dei 'giustizieri? Chi è stato fascista deve lasciare gli uffici pubblici. «Che cosa darò da mangiare a mio figlio me a mia moglie?» La risposta fu «L'erba nei fossi». [*]
È un piccolo spiraglio che si apre sull'atmosfera di quei giorni. Che nei libri di Storia trovano pronta spiegazione. Ma restano sempre da decifrare all'interno di ogni coscienza pulita. Chi ci autorizza a sfogliare là dentro, nei mucchi delle parole che oggi ai nostri orecchi possono suonare tanto diversamente? Chi garantisce che non sbagliamo ad interpretarne i suoni?
Sembra, ma è un'illusione, facile rovistare da cronisti nel passato. Ogni frase risuona come eco di vicende liete o drammi acuti.
«Bisognava ricominciare a vivere», scrive quasi di sfuggita Zavoli nella sua «Romanza» che è canto di memoria, anzi coro dell'«impareggiabile compagnia di canto, gente arguta e severa, di ribalta e di palco», tra cui lui si ritrova all'indomani della guerra.

Quando il libro esce (come si è detto, nel 1987), la memoria ha depurato i ricordi in quel magico alone che confonde teneramente, e tutto rende distaccato ed affettuoso. Ma allora, la memoria è ancora storia, oppure il racconto si crea e si giustifica da solo?
Ripercorriamo un episodio giornalistico legato a quegli anni.

Partiamo dal 1988, quando a Rimini esce un nuovo periodico pubblicitario «Chiamami città» che nel secondo numero intitola un suo servizio: «Finalmente svelato il 'giallo' del Kursaal».
Si parla della demolizione del celebre edificio (1947). «È una versione dei fatti, inedita, ma anche assurda, quasi al limite della fantapolitica», ammette il periodico, introducendo la sua fonte, il prof. Gino Pagliarani, presidente dell'Azienda di Soggiorno, nel secondo Dopoguerra.
Pagliarani sostiene che a volere la demolizione del Kursaal fu il sindaco Bianchini (suo compagno di partito, pci): si dice convinto che Bianchini sia stato ricattato (non aveva la laurea dichiarata) dai suoi avversari politici, affinché prendesse quella decisione in merito al Kursaal. «Nelle successive elezioni amministrative quest'atto quasi vandalico, sarebbe stato l'argomento principale per minare, alla base, il suo prestigio», dichiara Pagliarani nel 1988.
«Scrissi un articolo contrario alla demolizione sul “Litorale"», continua Pagliarani. Ma in Biblioteca Gambalunga non abbiamo trovato l'articolo in questione. Invece nel «Corriere Romagnolo» del 13 dicembre 1947, c'è un pezzo del direttore Costantino Zangheri in cui si legge: «Che il Kursaal vada alla fine demolito siamo forswe (diciamo forse) d'accordo tutti. Ma che vada demolito subito, no». E propone per il momento di farlo diventare «un fulcro d'attrazione che diversamente ci mancherà», per la vita balneare.

Zangheri ricorda che Pagliarani stesso è favorevole alla «conservazione solo temporanea del Kursaal». Temporanea e non definitiva. Che è tutto un altro paio di maniche.
Nell'ottobre 1948, in «Città Nostra», Sergio Zavoli attacca violentemente Pagliarani, accusandolo di aver organizzato manifestazioni non riuscite, di aver parlato «clamorosamente, demagogicamente». Concludeva Zavoli: «Ora pare che Pagliarani se ne vada», e sembrava tirare un sospiro di sollievo, mentre chiedeva «soprattutto la "non ingerenza" della politica nel turismo».
Ritorniamo allo Zavoli di «Romanza», che definisce l'amico d'infanzia Pagliarani «il più idoneo» a quella carica di presidente dell'Azienda di Soggiorno da cui si dimise nel 1948. Mai fidarsi della memoria. [8]

[*] Sul tema "erba nei fossi", vedere questa pagina, dedicata ad un memoriale pubblico di mio padre Valfredo Montanari, datato 8 gennaio 1945.
E vedere pure questa scheda su "Documenti spariti e storie non narrate".

Su Sergio Zavoli, vedere la puntata n. 5 di "Rimini ieri", "1946. Dal Rubicone all'Ausa" e la relativa Scheda [2011].

Rimini ieri. Cronache dalla città
Indice
Antonio Montanari

47921 Rimini.
Via Emilia 23 (Celle).
Tel. 0541.740173

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1556, 21.12.2011. Modificata, 21.12.2011, 14:41