Prof, innanzitutto
devo sottolineare che non posso non affibbiarle questo titolo, poiché ho sì
l'immenso onore di poterla chiamare amico, ma anche, e sopratutto, lei ha
l'onere di essere stato e di essere un modello per me. Premesse a parte si
senta in dovere di correggere eventuali orrori grammaticali e/o di tagliare in
tutto o in parte i punti più tediosi o, eventualmente, scorretti del testo che
segue: dopotutto sono quasi (più o meno) un dottore in giurisprudenza, il che
mi rende automaticamente noioso e a tratti oscuro.. Relativamente a ciò agisca
come crede, ne sono consapevole!
Comincerei con una riflessione.
Sono Davide Nicolosi
e si potrebbe dire che sono stato fermo al semaforo
(per citare la metafora utilizzata da un mio amico).
Sono rimasto fermo per tre anni. Forse
quattro, adesso non ricordo
Ritengo di essere cresciuto tanto dai
tempi del liceo, molto più di quello che avrei pensato:
a volte mi chiedo se quel ragazzino spensierato e un po' ingenuo ci sia ancora,
da qualche parte, dentro di me. La risposta la trovo nei momenti felici, si
potrebbe dire che regredisco.
All'università e dall'università ho
imparato tante cose che vanno ben oltre la mera esperienza conoscitiva che la
stessa presuppone intrinsecamente: ho capito che bisogna imparare a gestirsi da
soli; ho imparato che, se ti fermi, nessuno sta lì ad aspettarti; ho imparato
che certi errori li paghi cari e li rimpiangi per anni
ma che, se non impari a conviverci, rischiano di abbatterti senza possibilità
di reazione; ho imparato che prima o poi tutti si fermano e tutti cadono; ho
imparato che, se a nessuno frega niente di te, una mano a rialzarti devi
dartela da solo; ho imparato quanto influiscano, in quello che fai, le cose
della vita che, con quello che fai, non c'entrano veramente un cazzo. Ho
imparato che cosa voglia dire che l'università (come
immagino sia la vita) è una corsa soltanto con se stessi, che alla fine
rispondi solo a te di quello che fai, ma, nel frattempo, ci saranno decine di
persone a cui dovrai, per volere o per forza, rendere conto.
Immagino che non tutti si siano trovati
nella mia situazione, io me la sono proprio andata a cercare: sono passato da
miglior studente (o quasi) del mio modesto corso di studi liceale a Bari, ad una Università di prestigio nella capitale economica
dell'Italia. Un luogo dove la gente, al liceo, era stata
preparata con le unghie e con i denti alla peggiore vita universitaria
immaginabile: parlo, per intenderci, di qualcosa tipo un pirata con il coltello
tra i denti che tenta la scalata all'albero maestro.
Io, dall'alto della mia arroganza da
ottimo studente liceale convinto che nella vita basti un modesto impegno per
andare forte, mi sono adagiato sugli allori mentre gli
altri affilavano i coltelli. Come i romani ho
sottostimato la potenza dei miei avversari ed ho sopravvalutato la forza delle
mie alleanze.
Non starò qui a specificare cosa è andato
male e cosa no, in cosa sono stato stronzo e in cosa
lo sono stato meno, sta di fatto che, dopo circa
quattro anni sono crollato. Improvvisamente tutto era nero. Non ero depresso,
ero vinto: vinto dai sentimenti non ricambiati verso una ragazza che chiamerò
per sempre il mio primo, vero, amore; vinto dalla mia incapacità di ribaltare
una situazione persa nella marea di obiettivi sempre
più ostici che mi ero posto; vinto nell'orgoglio. . Semplicemente avevo perso
la grinta, la rabbia per andare avanti. Perso in una sorta di
egoismo a contrario (io sono la causa di tutti i miei mali), constatavo
l'esistenza dei miei problemi senza far nulla per affrontarli. La situazione
era difficile e io volevo solo battere in ritirata in stile Cadorna: salviamo
il salvabile e filiamo prima di finire male. Il risultato, ovviamente, è stato Caporetto, il mio piccolo disastro personale: ho perso un
anno per strada.
“Davide si alza molto tardi e parla molto poco.
Dice che soffre per
amore, per l'università, per la sua negligente stupidità.
Il declino che avvolge come un serpente la
civiltà occidentale, la fine prossima della nostra dominazione sul mondo, si
esauriscono in una nebbia di ansie ed incertezze,
nell'oscurità delle cose ignote, in una sensazione di rassegnata irreparabilità
che assomiglia proprio alla faccia di Davide.
Davide manda in onda, su scala ridotta, la
lenta e graduale dissoluzione del Terzo Romano Impero (cui molto probabilmente
non seguirà un quarto).
Non presidia le sue frontiere, né vigila
al loro interno sul rispetto delle leggi intime del suo cuore e del suo cervello.
Ha le sembianze di una landa desolata.
Dalle alture che vi si affacciano si osserva l'esodo lento ma costante delle
sue energie, del passato, presente e futuro.
Restano le tracce della vita antica, i
segni di coloro che l'hanno attraversata e che ora sono persi nel vortice della
dimenticanza, legati a migliaia di mondi diversi.
Solo resta lui, come il capitano che non
abbandona la nave che affonda, che finge genuinamente la normalità
dell'alternanza tra giorno e notte e vive nelle stanze deserte del suo palazzo
come fossero ancora piene, mentre quelle che gli pare d'intravedere sono solo
le ombre segnate dal tempo.
È tutto finito, pensa.
Ha provato la spallata finale e ha
fallito. Ha distrutto la sua capitale convinto che
l'avrebbe ricostruita più bella di prima, ma non si era accorto
degli incendi isolati che già cominciavano a bruciarla dalle fondamenta.
Pensa che morirà d'amore, ma quello che lo
circonda è un male diverso e individuale. È uno spazio vasto, freddo e bianco
come la solitudine del fallimento.
Così come ripercorrendo all'inverso la
scia di quell'esodo, scivolando controcorrente al
flusso della massa che abbandona il paese si possono vedere in lontananza le
macerie fumanti della città bruciata, Davide ripercorre per l'ultima volta la
sua vita, prima di lasciare per sempre le stanze della giovinezza.
Se prova a pensare
ora a Giulia, Davide si accorge dell'importanza del tempo. Dietro ad una
suggestione senza sostanza, di quella donna perfetta, rincorsa e inseguita
incessantemente, in un corpo bellissimo e sconosciuto, ha costruito un impero
che è caduto a forza di botte alla prima invasione della realtà.
L'enorme menzogna che ha assemblato per
una vita muove gli ultimi passi dell'inerzia.
Tanti anni sono andati perduti nel mare
profondissimo del passato. Forse troppi.
Adesso la parola d'ordine è uscire di scena, in punta di piedi, e farsi dimenticare da chi non
ti ha mai ricordato.”
Questo scriveva un mio amico di me, per
cercare di risvegliarmi dal torpore nero nel quale mi ero inabissato.
Il motivo per cui
ho scritto del dramma interiore che ho vissuto fino all'anno scorso (e che sono
sicuro, caro Prof, le abbia scartavetrato i cd gioielli di famiglia) è per fare
in modo che, quando qualcuno incappi nella mia stessa situazione, capisca due
cose: 1) non sei solo 2) amico mio tira fuori gli attributi e combatti.
Scelga lei se pubblicarlo o no, cosa
eventualmente togliere e cosa enfatizzare; quello che importa, ai fini della
storia è che alla fine ho reagito! Non so come né
perché, semplicemente, un giorno, mi sono incazzato
ed anche di brutto. Ho ripreso in mano le redini ed ho ricominciato a
carburare, per rabbia. Non so quanto tempo mi ci vorrà per riprendere la marcia
a pieno regime, per ammaestrare la rabbia e trasformarla in grinta e non ho la
minima idea di dove sto andando, ma ho una certezza: non sono più fermo al
semaforo, la prima è di
nuovo ingranata ed io, nel bene o nel male, sono di nuovo in
pista.