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MORTO UN PAPA....
 
Le sue porte chiuse
(Filippo Gentiloni da Il Manifesto 3.4.2005)

Giovanni Paolo II è stato uno degli artefici della caduta del comunismo, ma non è riuscito ad affrontare il capitalismo globalizzato. Ha saputo rilanciare una comunicazione religiosa planetaria, parlare alle masse con intensità e diffusione mai conosciute prima, ma ha fallito la scommessa dell'ecumenismo. Ha asserito il dialogo tra le religioni, ma ha riproposto la centralità di Roma attraverso un integralismo sociale che ricorda la Chiesa preconciliare. Il bilancio del suo pontificato è contraddittorio e lascia un'eredità pesante

Giovanni Paolo II ci aveva abituati a ritorni vitali in Vaticano dopo i ricoveri all'ospedale. Questa volta non è stato così: perciò la sua morte ci sembra inaspettata, nonostante gli anni, gli acciacchi, le malattie. Siamo ancora impreparati. D'altronde il suo pontificato è stato così lungo che ci sembrava non dovesse finire. Lungo e centrale in un periodo di storia ricchissimo di eventi e nel quale il papa di Roma ha avuto un ruolo di primo piano. Carico di contraddizioni, sulle quali bisognerà riflettere a lungo e con calma, ma certamente di primo piano.

A cominciare dalla caduta dei muri fra i paesi dell'est - la "sua" Polonia - e il mondo "libero". Un mondo che Wojtyla, con Solidarnosc e milioni di cittadini, si aspettava , probabilmente, ben diverso da quello che poi è stato. Non si aspettava certamente il papa quel trionfo del capitalismo che ha caratterizzato gli anni dopo la caduta. Una prima contraddizione che ha segnato amaramente gli ultimi anni del pontificato. Vane le speranze in quella "dottrina sociale della chiesa" che avrebbe potuto - dovuto - sostituire il comunismo, "dall'Atlantico agli Urali", come Wojtyla amava dire. Un fallimento. Colpa di chi? Wojtyla poteva, forse, agire diversamente? Ci vorrà tempo per dirlo. Oggi, di fronte alla sua salma, noi possiamo soltanto elencare le vittorie e le sconfitte, le gioie e le sofferenze.

Così anche per un altro dei grandi temi che la storia ha posto all'attenzione del pontificato wojtyliano, l'ecumenismo. Fin dai primi giorni, Giovanni Paolo II lo aveva posto in primo piano. Poi, di anno in anno, dialoghi, convegni, gesti anche clamorosi: penso alle preghiere in comune ad Assisi e alla visita in sinagoga. Ma, anche qui, i risultati sono stati, a dir poco, scarsi. Anche con i più vicini e diretti interessati, come le chiese ortodosse che, crollati i muri, invece di avvicinarsi a Roma, hanno avuto paura del suo possibile espansionismo e si sono richiuse. Papa Wojtyla non è riuscito ad andare a Mosca, uno dei viaggi più desiderati.

I viaggi: una sua caratteristica, ma un'altra fonte di contraddizioni. Grandi folle, più o meno dovunque, in tutti i continenti. Folle di tutte le religioni, molti giovani. Un successo, dunque, tipico di quel mondo dei mass media al quale Wojtyla si è abbondantemente concesso e affidato. Ma anche qui il risultato non è quantificabile e nemmeno positivo, almeno apparentemente. Non appena l'aereo pontificio riprendeva il volo per Roma, sul posto tutto sembrava rimasto come prima. Sia la fede religiosa, sia, e soprattutto, quella spaventosa povertà che affligge buona parte del mondo e contro la quale il papa ha protestato invano.

Come invano ha protestato mille volte contro le guerre. Un'altra contraddizione. Nonostante tutte le sue prese di posizione, Wojtyla è apparso a buona parte del mondo - penso soprattutto al mondo musulmano - quasi come un cappellano di quegli Usa nei confronti dei quali, invece, non ha mai manifestato grande simpatia.

Il papa defunto è apparso al mondo più come un sostenitore dei vincenti e dei ricchi che dei poveri. A questa falsa immagine ha certamente contribuito la rigidità nel sostegno a un'etica, soprattutto in materia sessuale, che è quella delle popolazioni più ricche del pianeta: penso alla lotta contro il condom e al suo impatto, soprattutto in Africa, nei confronti dell'Aids. Per non parlare della avversione del papa nei confronti della teologia latinoamericana della liberazione.

Anche qui le contraddizioni. Dai suoi viaggi alle sue canonizzazioni. Molti gli uni e le altre, più che in altri pontificati. Papa Wojtyla ha voluto esaltare sia la povertà francescana di Padre Pio e di Madre Teresa, sia l'organizzazione efficiente e tecnicizzata di Escrivà de Balaguer e dell'Opus Dei. Gli uni e gli altri sotto l'ombrello di Pietro in Vaticano. Un ombrello che, di anno in anno, è diventato più importante e soprattutto centralizzato. Il mondo è stato spinto sempre più a identificare la chiesa cattolica con il papa, anche grazie - si fa per dire - alla tv. Una centralizzazione che a lungo andare non può non avere influito negativamente sull'importanza di tutte le istanze intermedie (diocesi e parrocchie ad esempio), proprio quelle istanze che per secoli hanno costituito il tessuto portante e solido del cattolicesimo.

Oggi, di fronte alla salma di Giovanni Paolo II non possiamo non ricordare quel "Aprite le porte a Cristo" con cui si era presentato alla folla dal balcone di san Pietro il giorno della elezione. Quanto quelle porte si siano aperte e quanto alla discussa apertura abbia influito il papa polacco lo dirà, un giorno, la storia.

 

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In America latina da conquistador
(Maurizio Matteuzzi da Il Manifesto 3.4.2005)

Il primo viaggio di papa Wojtyla fu a Puebla, in Messico, nel gennaio `79. Per affrontare la sua ossessione: la teologia della liberazione. Ma dopo quasi 27 anni di pontificato di guerra e con 4 o 5 cardinali latino-americani "suoi" fra i papabili, quell'obiettivo è fallito

Chissà se nell'ultimo istante della sua vita terrena Karol Wojtyla sarà stato preso da qualche dubbio. Sull'al-di-là e sull'al-di-qua. Di certo nella sua azione pastorale e politica in America latina, nei quasi 27 anni di pontificato, di dubbi ne ha mostrati pochi. Dopo l'est europeo e la lotta al socialismo, l'America latina e la lotta alla teologia della liberazione sono stati il secondo asse del lungo regno del papa polacco.

L'America latina e la teologia della liberazione. Il primo dei suoi 104 viaggi in 129 paesi del mondo, appena tre mesi dopo l'elezione, fu a Puebla, in Messico, per assistere - e cominciare a mettere mano - al terzo Consiglio espiscopale latino-americano, allora impregnato ancora dalla teologia della liberazione, con la sua "opzione preferenziale per i poveri", uscita dal precedente Celam, quello del 1968 a Medellin, in Colombia. Dopo Puebla, Wojtyla sarebbe ritornato molte altre volte in quello che chiamò "il continente della speranza": 26 viaggi in America latina, 5 volte in Messico, 4 in Brasile, 2 in Argentina...

Il "papa viaggiatore", il "papa pellegrino" divenne, come scrisse nel `93 l'Osservatore romano preso da un eccesso di zelo, "il più grande evangelizzatore dell'America latina dall'arrivo di Cristoforo Colombo". Un giudizio non condiviso da molti. Il brasiliano Leonardo Boff, uno degli uomini di punta della teologia della liberazione, processato dal sant'uffizio del cardinale Joseph Ratzinger - il Torquemada di Wojtyla considerato uno dei suoi possibili successori -, condannato al "silenzio ossequioso" prima di essere costretto a lasciare la congregazione dei francescani nel `92, ha detto una volta che "questo papa è stato un falgello per la fede" perché "ha defraudato i poveri che non si sono sentiti appoggiati nelle loro cause e nelle loro lotte". E' un fatto che la chiesa cattolica dell'America latina è stata per oltre vent'annil sotto il tiro implacabile del papa polacco.

Il "continente della speranza" è cambiato molto da quando l'ex-cardinale di Cracovia si presentò come Giovanni Paolo II a Puebla. Lui e il tempo hanno fatto il loro corso. Pensionati d'autorità i brasiliani Evaristo Arns e Helder Camara e il messicano Samuel Ruiz. Via Boff, formalmente dentro la chiesa "il padre della teologia della liberazione", il peruviano Gustavo Gutierrez, costretto però a tacere o a inviare i propri scritti all'arcivescovo di Lima, monsignor José Luis Cipriani, esponente di primo piano dell'Opus Dei tanto cara al papa e compensato con il cappello cardinalizio nel 2001. Muti o fuori anche i preti nicaraguensi che osarono entrare nel primo govermno sandinista, sfidando il vescovo di Managua, Miguel Obando y Bravo, poi promosso anche lui cardinale, e il papa polacco. E' una delle immagini-simbolo del pontificato di Wojtyla, quella della piazza di Managua nell'83, quando, rosso d'ira, il papa puntò minacciosamente il dito contro il prete Ernesto Cardenal, ministro della cultura, inginocchiato ai suoi piedi, e suo fratello Fernando, ministro dell'istruzione, che gli disse una frase che risuonò in realtà come un atto d'accusa: "Santo padre, è possibile che io stia sbagliando, però mi lasci sbagliare a fianco dei poveri dopo che la chiesa si è sbagliata per tanti secoli al fianco dei ricchi".

Ma Wojtyla rimase sordo. Come sordo e muto, o quasi, rimase di fronte agli assassinii di monsignor Arnulfo Romero, il vescovo di San Salvador, e dei sei padri gesuiti dell'Università centro-americana, massacrati dagli squadroni della morte nel 1980 e nel 1989. Un tipo di martiri e di profeti che al papa polacco non sono mai piaciuti.

Più che un evangelizzatore Giovanni Paolo II in America latina appare come un "conquistador". Forte, duro, autoritario, spietato, messianico. Di un messianesimo però tutto conservatore. Che imponeva alla chiesa latino-americana se non di lasciare il campo sociale, di privilegiare il terreno etico e spirituale. Contando in questo modo di allontanarla dalle pericolose contiguità con il socialismo "ateo e materialista" e di contrastare l'esplosiva crescita delle sette evangeliche che solo in Brasile si mangiano un milione di cattolici l'anno e in tutto il continente della speranza sono ormai il 15% dei 480 milioni di abtitanti.

Sono tante le immagini di Wojtyla in America latina. Immagini-flash che identificano, e spiegano, il suo lungo pontificato e la sua strategia. Sempre coerente. In Argentina nell'82, alla vigilia della disperata avventura della guerra per le Malvine con l'Inghilterra della signora Thatcher che avrebbe provocato, l'anno dopo, la caduta dei militari genocidi (ma lui e il suo nunzio Pio Laghi ci avevano messo anni prima di concedere una fuggevole udienza alle madri della Piazza di maggio che reclamavano per i desaparecidos). In Nicaragua nell'83, quando di fatto si ritrovò in una sorta di convergenza parallela con la criminale politica di Ronald Reagan contro la rivoluzione sandinista. In Cile nell'87, quando la chiesa cilena era alla testa della rivolta popolare contro la dittatura e lui apparve alla finestra del palazzo della Moneda al fianco di Pinochet (per cui poi si sarebbe anche mosso dopo il suo arresto a Londra nel `98). A Haiti nell'86, quando incontrò un Baby-Doc Duvalier ormai agli sgoccioli (ma, prigioniero delle sue ossessioni, fu poi quasi il solo, insieme agli Usa, a riconoscere il regime militare golpista che aveva rovesciato nel `91 il presidente Aristide, allora focoso "prete delle bidonvilles"). Neanche la sua famosa visita a Cuba, in quello stesso 98, uscì dal cliché, quando andò a confrontarsi con l'ultimo bastione del comunismo che aveva tanto contribuito a scardinare nell'est europeo. Una qualche forma di convergenza fra Wojtyla e Fidel sull'opposizione al neo-liberismo capitalista duro e puro, calvinista e materialista; la comune opposizione all'osceno embargo americano; una richiesta imperiosa di spazio e di ruolo per la chiesa cubana in vista del dopo-Castro.

E dopo "el conquistador" Wojtyla, in America latina, che? Nell'ultima infornata di 37 cardinali, nel concistoro del 2001, ne ha nominati 8 dell'America latina. Fra i 117 con diritto di voto nel prossimo conclave - quelli con meno di 80 anni -, 22 sono latino-americani, il secondo contingente più numeroso dopo i 58 europei. Fra i 10-12 papabili ci sono il colombiano di curia Dario Castrillon Hoyos, l'opusdeista peruviano Juan Luis Cipriani, l'honduregno Oscar Andres Rodriguez Madariaga, il brasiliano Claudio Hummes, il cubano Jaime Ortega. Tutti conservatori o moderati.

Sarà latino-americano il prossimo papa? Questa sarebbe una vittoria postuma di Karol Wojtyla. O forse no, neanche questa. Perché pur avendo rivoltato, nei suoi 26 anni di pontificato, la chiesa latino-americana, avendo nominato centinaia di vescovi e decine di cardinali ligi e sicuri, in realtà l'obiettivo intrapreso con quel suo primo e lontanissimo viaggio a Puebla del gennaio `79, è fallito. Non si chiamerà più teologia della liberazione. Però in America latina, il continente della speranza ma anche della povertà e dell'esclusione, la chiesa cattolica ha capito che o sta con i poveri, gli oppressi e gli esclusi, o non ha domani.

 

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Muerte del Papa reenciende la esperanza para la teología de la liberación
agencia ADISTAL (www.adista.it)


Con la muerte del Papa Juan Pablo II, en esta noche de sábado, se intensifican las especulaciones sobre su sucesor y, principalmente, cuál será el destino de la Iglesia Católica.
En América Latina, casa de más de la mitad de los católicos del mundo, el debate se exacerba todavía más, porque existe una iglesia con fuerte influencia de la Teología de la Liberación, combatida por el Vaticano de Karol Wojtyla desde 1984.
Son muchos los elogios dedicados al Papa Juan Pablo II, sin embargo, también son muchas las críticas realizadas a sus 26 años de pontificado.
Antes de la disputa en el Colegio de Cardenales para la elección del nuevo Papa, los críticos sostienen que es necesario que la Iglesia Católica realice un análisis profundo de lo que hizo y adónde quiere llegar.Es preciso reevaluar, fundamentalmente, la centralización del poder de la Iglesia en Roma. Hans Küng, sacerdote y renombrado teólogo suizo radicado en Alemania que tuvo su derecho de enseñar impedido por Roma en 1995 por críticas severas realizadas a la política del Vaticano, evalúa que el pontificado de Juan Pablo II fue uno de los más contradictorios de los papas del siglo 20, porque al mismo tiempo que tenía varios talentos, como sus posiciones contra las guerras, la defensa de los derechos humanos y la aproximación entre los pueblos, tenía al mismo tiempo una política interna conservadora, totalitaria, que oprimía a aquellos que no tenían una política alineada con Roma, discriminaba a las mujeres, impedía el diálogo interno y alejaba a los fieles al no conseguir entender los cambios del mundo moderno.
"El principal resultado es que la Iglesia Católica perdió completamente la enorme credibilidad que disfrutaba durante el pontificado de Juan XXIII y con el rumbo dado por el Segundo Concilio del Vaticano", escribió Küng para Der Spiegel, el jueves pasado.
Está fortaleciéndose dentro de la Iglesia un movimiento de retorno al Concilio, inclusive con una amplia articulación que se forma en América Latina en la construcción de un nuevo Concilio Ecuménico.
Los reformistas defienden cambios estructurales en la Iglesia Católica como la descentralización del poder de Roma en favor de las iglesias locales, nuevas formas de ejercicio del poder del pontificado más orientado a promover la unión entre las iglesias hermanas y no a un poder totalitario, reconocer y respetar el pluralismo cultural, aceptar a las mujeres para el ejercicio del ministerio sacerdotal, desarrollar el diálogo interreligioso y la penetración del Evangelio en nuevos mundos.
En este eje de cambio de la Iglesia Católica se ha reforzado la Teología de la Liberación, que llegó a ser considerada muerta después de las investidas fatales a partir de 1984, cuando el Papa Juan Pablo II firmó el documento elaborado por el cardenal Ratzinger, titulado "Instrucción sobre algunos aspectos de la teología de la liberación", donde condena radical y definitivamente esa teología.
A partir de ahí fue una "caza de brujas" a los teólogos que elaboraban y defendían esa teología, lo que muchos atribuyen al pasado anticomunista del polaco Wojtyla, que rechazaba cualquier doctrina que se aproximase al marxismo. El primero en enfrentar la Congregación de la Doctrina de la Fe, el ex-Santo Oficio, que lo condenó a un año de silencio, fue el teólogo brasilero Leonardo Boff, que dejó la orden de los Franciscanos en 1992.
"La teología está viva en aquellas iglesias que eligieron la opción por los pobres y por la justicia social, en las iglesias que tienen comunidades de base, que trabajan con los sin tierra, con los negros, con los indios", de esta manera Boff confía en la resistencia de la teología de la liberación independientemente de quien sea el próximo papa.
"El Papa temía que la Teología de la Liberación introdujese el marxismo en América Latina y, como conoció el movimiento en la versión estalinista, atea y persecutoria, ello no le agradaba", evalúa. Sin embargo, resalta que al final de su vida se dio cuenta que la Teología de la Liberación era la más adecuada para los pobres.
"Ella los convierte en sujetos de su liberación y ya no más en objetos de caridad".
Y la Teología de la Liberación, que defiende una iglesia vinculada a la lucha contra las injusticias sociales a partir de las comunidades eclesiales de base, fue, en las décadas del 70 y 80 en América Latina de mayoría católica, el gran motor político que impulsó conquistas importantes en las luchas contra las dictaduras y en la creación de movimientos políticos de relevancia nacional. En Brasil, por ejemplo, son frutos de las comunidades de base el Movimiento de los Sin Tierra y el Partido de los Trabajadores, del presidente Luiz Inácio Lula da Silva.
Sin embargo, perdió empuje a principio de los años noventa con las investidas del Vaticano que promovió cambios profundos en el episcopado, disminuyendo el poder de obispos libertadores tales como: Pedro Casaldáliga, Paulo Evaristo Arns, Luciano Mendes de Almeida, entre otros- y nombrando obispos de línea conservadora.Como evidencia de su presencia actuante el año 2003 los teólogos de la liberación volvieron a unir fuerzas e intercambiar experiencias a partir de la "Conferencia sobre el Cristianismo en América Latina y el Caribe "Trayectorias, diagnósticos, prospectivas", que tuvo lugar desde el 28 de julio al 1º de agosto en la Pontificia Universidad Católica de San Pablo (PUC-SP), en Brasil, reuniendo a más de 200 teólogos de todo el mundo. Este año, en Porto Alegre, aconteció el Foro Mundial de la Teología de la Liberación en proporciones aún mayores. En la ocasión se discutió la vida de forma teológicamente impensable para la curia del Vaticano, como la Teología Gay y la Teología de la Mujer. Para entender más sobre la Teología de la Liberación El Concilio Vaticano II, encuentro de obispos de la Iglesia Católica entre los años 1962 y 1966, fue convocado por el papa Juan XXIII y culminó con el papa Pablo VI. Fue una tentativa de reformar la Iglesia Católica y reconciliarla con el mundo moderno. En 1968, con la II Conferencia del Episcopado Latinoamericano (CELAM) en la ciudad de Medellín, la Iglesia latinoamericana forjó los ejes de la Teología de la Liberación, que tomó fuerza en América Latina a partir de 1971 con el libro del peruano Gustavo Gutiérrez.
Con las conferencias de Medellín y Puebla la Iglesia de Latinoamérica asume la opción preferencial por los pobres.En 1984, el cardenal Josef Ratziger, jefe de la Congregación de Doctrina de la Fe (ex Santo Oficio), escribió el documento "Instrucción sobre algunos aspectos de la Teología de la Liberación" en contra del movimiento, y este documento fue firmado por el Papa.
A partir de allí comienza la persecución contra los teólogos y religiosos ligados a esta doctrina, a través de castigos, jubilaciones y división de las diócesis para disminuir su inserción en la sociedad.
Aún así, en 2003 se verifica la presencia actuante de la Teología de la Liberación con iniciativas tales como el movimiento en pro del nuevo Concilio y la Conferencia sobre Cristianismo en América Latina y el Caribe, realizada en San Pablo.
¿Un papa latinoamericano?
Las maniobras preelectorales para la elección del nuevo Papa comenzaron mucho antes de la muerte de Juan Pablo II.
El 21 de febrero fueron nombrados 44 nuevos cardenales, lo que elevó el colegio a 185 miembros, sin embargo, solamente 135 podrán votar por tener menos de 80 años.
Los electores están así distribuidos: 65 europeos, 16 estadounidenses y canadienses, 24 latinoamericanos, 13 africanos, 13 asiáticos y 4 de Oceanía.
Si la división fuese por números de católicos sería injusta, pero ya está hecho así.
Cuando la elección de Wojtyla, el 25% del colegio electoral estaba compuesto por italianos, y ahora, después de la maniobra, tienen sólo 24 electores, menos del 18%.
Eso es bueno para los países no europeos que tienen mayoría en el Colegio y pueden dar el trono de Pedro a otro Papa extranjero.
Figuran en la lista nombres latinoamericanos fuertes, como el Arzobispo de Tegucigalpa, Honduras, Oscar Andrés Rodríguez Maradiaga; el Arzobispo de San Pablo, Cláudio Hummes; y los "romanizados" cardenales amigos de Ratzinger y Ângelo Sodano: el presidente del Consejo Pontificio de la Familia, Alfonso López Trujillo; el jefe de la Congregación para el culto divino, Jorge Arturo Medina; y el jefe de la Congregación del Clero, Darío Castrillón Hoyos.
Sin embargo, el miedo impuesto por Juan Pablo II hacia la Teología de la Liberación puede perturbar los planes.

 

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