Chissà se il microcosmo autoreferenziale della politica e dell'informazione
avrà tempo di provare a capire cosa sta avvenendo in Valle Susa.
C'è da dubitarne visto il silenzio e il disinteresse che accompagnano
tante vicende sociali del nostro paese, ad esempio il contratto dei metalmeccanici.
Tuttavia consigliamo caldamente al mondo della poltica e dell'informazione
di buttare uno sguardo verso il Piemonte, visto che la mobilitazione popolare
contro la Tav segna un passaggio fondamentale nella storia dei movimenti
nel nostro paese.
Negli ultimi anni abbiamo avuto grandi mobilitazioni popolari sui problemi
dell'ambiente. Ma hanno toccato in generale zone povere del Mezzogiorno
del nostro paese. Da Scanzano, a Salerno, ad Acerra, ci si è ribellati
perché si voleva scaricare e concentrare là una questione,
quella dei rifiuti, che richiede ben altri e più solidali livelli
di intervento. Mai però il Nord era stato così direttamente
coinvolto nelle contraddizioni dello sviluppo liberista.
La ribellione della Valle Susa segna quindi un passaggio decisivo, perché
coinvolge popolazioni e territori con livelli di sviluppo tra i più
elevati. Il no alla Tav coinvolge i contadini, i residenti, coloro che
sono immediatamente interessati alla salvaguardia dell'ambiente e del
turismo, ma anche i metalmeccanici delle tante piccole e medie industrie
della valle. Anzi, è proprio dai metalmeccanici della Fiom che
è venuta la disponibilità e la richiesta di uno sciopero
generale che coinvolga tutta l'area. Poi le rappresentanze sindacali unitarie
di tutte le aziende si sono autoconvocate e, assieme alle popolazioni,
hanno chiesto a Cgil, Cisl e Uil di organizzare per il 16 novembre lo
sciopero generale. Finora le risposte non sono esaltanti, ma non importa
perché è chiaro che lo sciopero ci sarà.
Ancora una volta la questione del modello di sviluppo e quella della partecipazione
democratica, di chi decide e con quale consenso, sono profondamente intrecciate.
I cittadini e gli operai della Valle Susa non sono disposti ad accettare
che, per i prossimi 12-13 anni, i loro luoghi di vita e di lavoro siano
trasformati in una trincea fangosa. C'è da domandarsi: è
stato fatto il conto del prezzo che pagano queste popolazioni? In una
società sempre più afflitta dal mito della contabilità,
dalla trasformazione in conti e costi di ogni bene e relazione sociale,
qualcuno si è messo a calcolare quanto costa il fatto che per tanti
anni un'intera valle sia inagibile? E naturalmente questo senza fare il
conto dei rischi per la salute, se verrà confermato che lo scavo
di una galleria di ben 52 chilometri, porterà alla luce uranio,
amianto e altri materiali nocivi, magari da scaricare in qualche provincia
del Mezzogiorno d'Italia. Qui c'è tutta la miopia di un modello
di sviluppo che trascura le persone e l'ambiente, salvo poi farci pagare
drammaticamente i costi di questa trascuratezza.
L'8 novembre sciopereranno in tutta Italia i siderurgici per la salute
e la sicurezza nel lavoro. Sono milioni di reddito e di valore prodotto
che vengono a mancare, perché le aziende risparmiano sulla salute.
Alla fine i conti tornano sempre, e chi vuol risparmiare su salute e sicurezza
finisce per procurare costi complessivi ben più pesanti.
Certo, sull'altro piatto della bilancia c'è il progresso, l'aumento
della velocità dei collegamenti con un mezzo più ecologico,
quale il treno. Ma siamo sicuri che guadagnare mezz'ora, quaranta minuti
su alcune tratte, valga la rinuncia ad investire su tutta la rete ferroviaria
normale? Perché è questo che sta avvenendo in realtà.
I soldi per l'alta velocità, per i mega investimenti che percorrono
alcune aree, sono sottratti a quelli per migliorare le tratte dei pendolari,
le carrozze, la frequenza dei trasporti pubblici in tutto il paese. Pochi
treni vanno più veloci, tutti gli altri sono più lenti.
Anche per questo i metalmeccanici lottano assieme a tutti gli abitanti
della Valle Susa. Perché sanno che un altro modello di sviluppo,
con meno Tav e più treni e carrozze per i pendolari, darebbe anche
a loro più lavoro.
Sono dunque tante le ragioni che ci fanno dire che i soldi della Tav potrebbero
essere spesi meglio, sia dal punto di vista ecologico, sia da quello dello
sviluppo industriale ed economico, ma in ogni caso c'è la questione
fondamentale della democrazia.
Come si può pensare di trasformare un'intera valle in una miniera
a cielo aperto senza il consenso delle popolazioni interessate? Certo
il governo di destra risponde con l'arroganza ottusa dei suoi ministri
e con le cariche della polizia. Niente di che stupirsi. Ma gli altri cosa
fanno? Cosa fanno le amministrazioni di sinistra che governano il comune
e la provincia di Torino, la regione Piemonte? Davvero questi amministratori
sono così miopi da pensare che a forza di braccio di ferro la si
spunterà? Che le ruspe, oramai simbolo del moderno riformismo autoritario,
prima o poi ripristineranno la legalità?
Se anche la Tav fosse l'opera più importante per il nostro paese,
magari assieme al ponte di Messina, si dovrebbe discutere con i sindaci
e le popolazioni, sentire le loro ragioni, affrontare i loro problemi.
Invece no, nella migliore delle ipotesi si trattano i cittadini in lotta
come inevitabili vittime sacrificali del progresso. Quando non li si accusa
di essere retrogradi o strumentalizzati dai no global. Insomma, non si
vuole capire. Il palazzo, mai tale parola è stata purtroppo così
vera, va avanti, incurante di tutto.
La politica ha una insostituibile funzione, quella di rappresentare. Se
rinuncia ad essa, è giusto che si riduca ad avanspettacolo da talk-show.
E anche l'informazione, se diventa pura eco salottiera di questa politica
autoreferenziale, rinuncia a se stessa. Ecco, oggi in Valle Susa, come
in realtà in tutto il paese, è in gioco il significato stesso
della politica democratica. Cioè di quella sfera dell'azione umana
che nasce dal concetto stesso di cittadinanza. Se la politica si separa
dalla cittadinanza, allora diventa pura tecnica di potere, utile magari
per il mercato, ma estranea a gran parte di noi.
da Liberazione 4 novembre 2005
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