I VIAGGI DI GULLIVER di Jonathan Swift.


INDICE.

L'editore al lettore:
PARTE PRIMA - VIAGGIO A LILLIPUT.
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8

PARTE SECONDA - VIAGGIO A BROBDINGNAG.
Capitolo 1.
Capitolo 2.
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
PARTE TERZA - VIAGGIO A LAPUTA, BALNIBARBI, LAGNAGG, GLUBBDUBDRIB E GIAPPONE.
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11

PARTE QUARTA - VIAGGIO NEL PAESE DEGLI HOUYHNHNM.
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9.
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12

L'EDITORE AL LETTORE.

Il signor Lemuel Gulliver, autore di questi viaggi, è un mio caro,
vecchio amico e parente alla lontana da parte di madre. Tre anni fa il
signor Gulliver, ormai stanco delle continue visite di curiosi alla
sua casa di Redriff, comprò un piccolo appezzamento di terra con una
comoda dimora nei pressi di Newark, nel Nottinghamshire, sua terra
natale, dove si è ritirato a vita privata, fra la considerazione dei
vicini.
Sebbene il signor Gulliver sia nato nel Nottinghamshire, dove viveva
suo padre, l'ho più volte sentito ripetere che la sua famiglia era
originaria della contea di Oxford, tanto è vero che ci sono diverse
tombe ed epitaffi nel cimitero di Banbury, in quella contea, che
portano inciso il nome dei Gulliver.
Prima di lasciare Redriff, mi ha affidato questi fogli, dandomi
libertà di disporne come meglio credessi. Li ho letti con attenzione
tre volte e devo dire che rivelano uno stile chiaro e scorrevole; se
l'autore ha un difetto, è quello di perdersi un po' troppo nei
particolari, come succede ai viaggiatori. Eppure la verità soffia su
ogni pagina ed infatti l'autore stesso era talmente noto come persona
veritiera, che era diventato proverbiale fra i suoi vicini di Redriff,
i quali, per suffragare una loro affermazione, erano soliti aggiungere
che era vera come se l'avesse detta Gulliver.
Su consiglio di stimate persone, alle quali ho sottoposto il
manoscritto con il permesso dell'autore, mi appresto a farlo circolare
fra la gente nella speranza che possa costituire, almeno per un certo
periodo, un'attrattiva per i nostri giovani nobiluomini, più proficua
che non i soliti libelli politici e di partito.
Il libro avrebbe dovuto essere due volte più voluminoso di quello che
è. Infatti ho avuto il coraggio di togliere parecchi brani riguardanti
i venti e le maree, le varie rotte e le deviazioni, il governo della
nave in balìa della tempesta (scritto in gergo marinaresco), nonché le
annotazioni sulle latitudini e sulle longitudini. Forse il signor
Gulliver me ne vorrà un po', ma ho voluto rendere il libro adatto ai
gusti di ogni lettore. Se, in ogni caso, la mia suprema ignoranza
nell'arte nautica mi ha fatto commettere degli errori, me ne assumo
tutta la colpa. Se poi qualche viaggiatore, spinto da curiosità, vorrà
consultare il manoscritto originale, così come mi fu consegnato
dall'autore, sarò felice di metterglielo a disposizione.
Per quanto riguarda i particolari della vita dell'autore, il lettore
avrà modo di conoscerli nella prima parte del libro.
Richard Sympsor.


PARTE PRIMA.
VIAGGIO A LILLIPUT.


1 - L'AUTORE FORNISCE ALCUNE NOTIZIE Dl SE' E DELLA SUA FAMIGLIA.
PRIME NECESSITA' CHE LO SPINGONO A VIAGGIARE. FA NAUFRAGIO E NUOTA PER
SALVARSI. APPRODA SANO E SALVO NEL PAESE Dl LILLIPUT, VIENE CATTURATO
E PORTATO ALL'INTERNO.

Mio padre aveva una piccola tenuta nel Nottinghamshire ed io ero il
terzo di cinque figli. All'età di quattordici anni mi mandò allo
Emanuel College di Cambridge dove passai tre anni dedicandomi agli
studi senza distrazione, ma poiché il peso del mio mantenimento,
malgrado l'esiguità dei soldi che mi mandava, si faceva troppo oneroso
per i suoi scarsi mezzi, mi mise come apprendista da James Bates,
rinomato chirurgo di Londra, col quale restai quattro anni. Le piccole
somme che mio padre mi mandava di tanto in tanto le impiegai per
imparare l'arte della navigazione ed altri rami della matematica,
utili per coloro che intendono navigare, poiché ritenevo che proprio
questo sarebbe stato, prima o poi, il mi destino. Lasciato il signor
Bates, tornai da mio padre e qui, col suo aiuto, quello dello zio
Giovanni e di altri parenti, raggranellai quaranta sterline e
l'impegno di altre trenta all'anno per mantenermi a Leida. Per due
anni e sette mesi vi studiai medicina, conoscendone l'utilità nei
lunghi viaggi.
Subito dopo essere tornato da Leida, il mio buon maestro Bates mi fece
ottenere il posto di chirurgo sulla "Rondine", comandata dal capitano
Abramo Pannell, con il quale rimasi tre anni e mezzo facendo uno o due
viaggi nel levante e in altri paesi. Al mio ritorno, incoraggiato
anche dal maestro Bates, decisi di stabilirmi a Londra e lui stesso mi
mandò diversi pazienti. Alloggiai in una casetta nell'Old Jury; poi,
dal momento che mi consigliarono di cambiare tenore di vita, presi in
moglie Maria Burton, seconda figlia di Edmondo Burton, calzettaio in
via Newgate, che portò con sé quattrocento sterline di dote.
Ma gli affari cominciarono a andare male con la morte del buon maestro
Bates, avvenuta due anni dopo; inoltre avevo pochi amici e non mi
reggeva il cuore di seguire l'esempio dei metodi disonesti di troppi
fra i miei colleghi. Per cui, consigliatomi con mia moglie ed alcuni
amici, decisi di riprendere la via del mare. Fui chirurgo, l'una dopo
l'altra, in due navi e per sei anni feci parecchi viaggi nelle Indie
Orientali e Occidentali, grazie ai quali incrementai un po' le mie
sostanze. Impiegavo il tempo libero leggendo i classici, antichi e
moderni, dei quali mi portavo sempre dietro un buon numero di opere;
quando ero a terra osservavo i costumi e la natura della gente e ne
studiavo le lingue, nelle quali ero particolarmente versato, grazie ad
una memoria di ferro.
Dopo l'ultimo di questi viaggi, che si era rivelato poco redditizio,
mi venne la nausea del mare; e poi cresceva in me il desiderio di
starmene a casa con mia moglie e la mia famigliola. Traslocai dunque
dall'Old Jury a Fetter Lane e di qui a Wapping, nella speranza di
trovare lavoro fra i marinai, senza per altro ottenerne alcun
guadagno. Dopo avere atteso per tre anni che le cose volgessero al
meglio, accettai la vantaggiosa offerta del capitano Guglielmo
Prichard, comandante dell'"Antilope", in procinto di partire per i
mari del sud. Salpammo da Bristol il 4 maggio 1699 e il viaggio
all'iniio si svolse favorevolmente.
Vi sono buone ragioni per non stare a seccare il lettore con i
particolari delle nostre avventure in quei mari; basterà informarlo
che, al momento di andare da quei posti alle Indie Orientali, una
violenta tempesta ci trasportò a nord-ovest della terra di Van Diemen.
Secondo le misurazioni ci trovavamo a 30 gradi e 2 primi di latitudine
sud. Dodici membri della ciurma se n'erano andati al creatore per le
fatiche sovrumane e il rancio avariato, il resto versava in pessime
condizioni. Il 5 novembre, che da quelle parti coincide con l'inizio
dell'estate, in una giornata di foschia, i marinai scorsero uno
scoglio a non più di mezza gomena dalla nave verso il quale ci
sospingeva inesorabilmente il vento: ci spaccammo in due tronconi. In
sei della ciurma calammo in mare una scialuppa e ci mettemmo a vogare
per allontanarci dalla nave e dallo scoglio. Secondo i calcoli remammo
per circa tre leghe fino ad esaurire quelle poche forze che ci erano
rimaste, dopo il massacrante governo della nave. Ci affidammo alla
mercé delle onde, ma in capo a mezzora un'improvvisa raffica di
settentrione rovesciò la scialuppa. Non so cosa capitò ai miei
compagni della barca, né a quelli che avevano cercato scampo sullo
scoglio, né infine agli altri che erano rimasti sulla nave. L'unica
deduzione che posso trarre è che siano tutti morti.
Quanto a me, nuotai affidandomi alla fortuna, mentre il vento e la
corrente mi spingevano avanti. Di tanto in tanto lasciavo scendere
verso il fondo le gambe, senza riuscire a toccare. Quando ero ormai
sfinito e incapace di lottare sentii che toccavo, mentre la burrasca
si era un po' placata. Il pendio del fondale era così dolce, che mi ci
volle un miglio di cammino prima di raggiungere la riva e calcolai che
a quell'ora dovevano essere le otto di sera. Mi addentrai per circa
mezzo miglio senza riuscire a scoprire il minimo segno di case e di
abitanti o almeno ero così stremato, da non riuscire a scorgerli. Ero
terribilmente stanco, inoltre il caldo e quasi mezza pinta di
acquavite tracannata prima di lasciare la nave, mi avevano messo
addosso un gran sonno. Mi distesi sull'erba bassa e tenera dove dormii
così profondamente, come mai mi era capitato, per nove ore filate,
perché quando mi svegliai era giorno pieno.
Cercai di alzarmi, ma non riuscii a muovermi poiché, addormentatomi
supino, mi sentii le braccia e le gambe legate da entrambe le parti
alla terra e così i capelli che avevo lunghi e folti. Sentivo che
molti legacci sottili mi attraversavano il corpo dalle ascelle alle
cosce. Riuscivo solo a guardare in alto, mentre il sole cresceva
abbagliandomi gli occhi. Sentivo un rumore confuso ai fianchi, ma
nella posizione in cui ero disteso non vedevo altro che il cielo. Di
lì a poco sentii che qualcosa di vivo si muoveva sulla mia gamba,
saliva pian piano sul petto fino ad arrivarmi al mento. Guardando in
basso come meglio potevo, mi accorsi che si trattava di una creatura
umana, alta non più di quindici centimetri, con arco, frecce e la
faretra sulla schiena. Intanto sentivo che almeno una quarantina della
stessa specie venivano dietro alla prima. Stupefatto al massimo,
gridai tanto forte che quelli se la squagliarono in preda al terrore
ed alcuni, come poi mi fu detto, rimasero feriti saltando a terra dal
mio corpo. Non tardarono a farsi sotto di nuovo e uno di loro, che si
era arrischiato a venirmi tanto vicino da potere scorgere tutto il mio
volto, alzando gli occhi e le braccia al cielo in segno di
ammirazione, gridò con voce stridula ma distinta: "Hekinah Degul!"
Gli altri ripeterono quelle parole parecchie volte, ma allora non
sapevo che cosa volessero dire. Per tutto quel tempo rimasi in una
posizione assai scomoda, come il lettore può immaginare. Alla fine,
divincolandomi per liberarmi, riuscii a rompere i legacci e a svellere
i pioli che mi tenevano il braccio sinistro legato a terra. Infatti,
sollevandolo all'altezza del viso, scoprii il modo con cui mi avevano
legato e così, con un violento strattone che mi fece un gran male,
allentai le cordicelle che mi tenevano la testa piegata sulla
sinistra. Ora potevo girare un tantino la testa. Ma quegli esseri
fuggirono di nuovo prima che potessi afferrarli; al che ci fu un gran
vociare in tono acutissimo e, appena cessato, sentii uno di loro
gridare forte: "Tolgo Phonac!". Un momento dopo sentii un centinaio di
frecce che mi piovevano sulla mano sinistra, pungenti come aghi,
mentre quelli ne lanciavano in aria un altro nugolo, come noi facciamo
in Europa con i mortai; per cui penso che molte mi ricadessero sul
corpo, sebbene non le avvertissi, ed altre sulla faccia che mi
affrettai a coprire con la sinistra. Esaurito questo scroscio di
frecce, emisi un gemito di dolore e poiché tentavo ancora di
liberarmi, ne scaricarono un'altra bordata più nutrita della
precedente, mentre alcuni di loro cercavano di infilzarmi nei fianchi.
Avevo addosso, per fortuna, un giubbetto di cuoio che loro non
potevano forare.
Pensai che fosse più prudente starmene fermo almeno fino a notte
fonda, quando con la mano sinistra già sciolta avrei potuto liberarmi
completamente. In quanto agli indigeni, avevo ragione di credere che
avrei potuto sostenere i più grandi eserciti che mi avrebbero mandato
contro, se erano tutti delle dimensioni di quello che avevo visto. Ma
le cose si sarebbero svolte in modo diverso. Quando quella gente vide
che me ne stavo fermo, smisero di lanciare frecce. Dal crescente
rumore capivo che la folla aumentava; inoltre a circa tre metri dal
mio orecchio sentii battere per oltre un'ora, come se stessero facendo
qualche lavoro; girando la testa da quella parte, per quel poco che mi
era concesso da corde e pioli, vidi che avevano innalzato un palco
alto un mezzo metro da terra, capace di ospitare quattro di quelle
persone, con due o tre scale per salirci sopra. Da lì uno di costoro,
che sembrava un personaggio importante, mi rivolse un lungo discorso
del quale non capii un'acca. Ma avrei dovuto ricordare che, prima di
cominciare il suo discorso, quel dignitario aveva gridato per tre
volte: "Langro dehul san" (parole, queste, che insieme alle precedenti
mi furono poi ripetute e spiegate). Al che si erano fatte avanti una
cinquantina di persone per tagliare le cordicelle che mi tenevano
legata la testa dal lato sinistro. Potei allora girarmi a destra per
osservare l'aspetto e i gesti dell'oratore. Sembrava di mezza età e
più alto dei tre accompagnatori dei quali uno era un paggio che gli
reggeva lo strascico, alto non più del mio dito medio, mentre gli
altri gli stavano ai fianchi per sostenerlo. Conosceva bene l'arte
dell'oratoria, infatti non mi sfuggirono retorici appelli di minacce,
uniti ad altri di promesse, pietà e benevolenza.
Risposi con brevi parole e in tono di sottomissione, alzando gli occhi
e la mano sinistra al cielo, come per invocarlo a mio testimonio; poi,
affamato come ero per non avere mandato giù un boccone da quando avevo
abbandonato la nave, spinto dai morsi sempre più laceranti della fame,
persi la pazienza e (contro ogni regola di buona creanza) mi portai
più volte la mano alla bocca per dimostrare che avevo bisogno di cibo.
Lo "hurgo" (così chiamano un gran personaggio, come poi venni a
sapere) mi capì a volo, scese dal palco e comandò che mi appoggiassero
le scale ai lati del corpo. Più di un centinaio di persone salirono su
trascinando fino alla mia bocca panieri colmi di cibo, raccolto e là
inviato appena il re aveva avuto notizia della mia esistenza. C'erano
carni di diversi tipi di animali, che tuttavia non riuscii a
riconoscere dal gusto. C'erano spallette, cosci e lombi simili a
quelli di montone, ben cucinati ma più piccoli delle ali di allodola.
Ne mangiai due o tre alla volta con altrettante pagnotte, grandi come
pallini da sparo. Mi avvicinavano il cibo più svelti che potevano,
mostrando in mille modi la loro meraviglia e lo stupore dinanzi alla
mia mole smisurata e all'appetito che dimostravo. Allora feci loro
intendere che avevo sete. Si rendevano conto che, da quanto avevo
mangiato, non mi sarebbe stata sufficiente una piccola quantità; per
cui, da quel popolo ingegnoso che erano, imbracarono con grande
abilità una delle botti più grosse che avevano, la fecero rotolare
verso la mia mano e ne tolsero il coperchio. La vuotai con una sorsata
perché conteneva una mezza pinta scarsa di un vinello sul tipo del
Borgogna, ma anche più delizioso. Me ne portarono una seconda che
trangugiai come la prima, poi feci segno che ne volevo ancora, ma loro
avevano finito le scorte.
Compiuti che ebbi questi prodigi, loro si misero a gridare di gioia e
a ballarmi sul petto, ripetendo più volte, come avevano fatto prima:
"Hekinah Degul!". Mi fecero capire a segni che potevo buttare giù le
botti, ma prima avvertirono la gente di fare largo gridando a gran
voce: "Borach Mivola!". E quando le videro volare in aria, scoppiarono
in un generale "Hekinah Degul!". Confesso che più di una volta mi
venne la tentazione di afferrarne una quarantina o una cinquantina,
quando, nel loro andirivieni sul mio corpo, mi venivano a portata di
mano, e di scaraventarli giù a terra. Ma il ricordo di quanto avevo
provato, che con ogni probabilità non era il peggio di quanto potevano
farmi, nonché la parola d'onore in cui mi ero impegnato,
sottomettendomi loro palesemente, cacciarono quelle fantasie. Né
potevo dimenticare che ora mi trovavo legato a quel popolo dalle
consuetudini dell'ospitalità, trattato com'ero stato con tanta
larghezza e dovizia di mezzi. Comunque non finivo mai di
meravigliarmi, in cuor mio, del coraggio di quei minuscoli mortali che
avevano osato salire sul mio corpo e camminarci sopra, pur essendo a
portata della mano che avevo libera, senza dar segno del minimo
spavento alla vista di un essere mostruoso quale dovevo apparire loro.
Dopo qualche tempo, visto che non richiedevo altro cibo, mi venne
davanti un personaggio di alto rango inviato da Sua Maestà Imperiale.
Salitomi sullo stinco destro, Sua Eccellenza camminò fino al mio volto
con un seguito di dodici persone poi, presentatemi le credenziali con
sigillo reale, che mi ficcò sotto gli occhi, parlò per una decina di
minuti senza il minimo accento d'ira, ma con fermezza, accennando
spesso in una direzione, che poi capii essere quella della capitale.
Essa distava un mezzo miglio e dovevo esservi portato per decisione
unanime del re e del suo Consiglio. Risposi poche parole senza
risultato e feci un segno con la mano libera, portandomela sull'altra
legata ma passando sopra Sua Eccellenza e il suo seguito per non
travolgerli, e quindi indicando sia la testa che il corpo, cercando di
far capire che volevo essere liberato. Lui sembrò capirmi al volo
perché scosse la testa in segno di diniego e allungò le mani in modo
tale da farmi capire che dovevo essere trasportato come un
prigioniero. Volle però farmi capire con altri segni che avrei avuto
altro cibo e altre bevande e un ottimo trattamento. Al che pensai di
rompere di nuovo i legacci, ma quando mi toccò riassaggiare il
bruciore delle loro frecce sul volto e sulle mani che si erano coperti
di vesciche, con ancora molti dardi che di lì penzolavano, avendo
notato che nel frattempo il numero dei nemici era cresciuto, feci loro
capire, a furia di gesti, che avrebbero potuto fare di me quello che
volevano.
Allora lo "hurgo" e il suo seguito si allontanarono con grande dignità
ed aria soddisfatta. Poco dopo sentii un grido generale e le parole
"Peplom Selan" che venivano ripetute in continuazione mentre avvertivo
che un gran numero di persone stava allentando le corde dal lato
sinistro del mio corpo. Mi fu così possibile rigirarmi sul fianco
destro per fare acqua in grande quantità fra lo stupore della folla la
quale, intuito dai miei movimenti quel che stavo per fare, si aprì in
due facendo un bel largo per evitare il torrente che cadeva con tanto
fragore e irruenza. Poco prima mi avevano spalmato il volto e le mani
di unguento odoroso che, in un batter d'occhio, mi aveva fatto sparire
il bruciore causato dalle freccie. Se si aggiunge a questo calmante il
ristoro che avevo avuto dal cibo e dalle bevande, entrambi
nutrientissimi, si capirà come mi sentissi predisposto al sonno.
Dormii, come poi mi dissero, otto ore filate e non c'è da
meravigliarsene, perché i medici del re avevano allungato il vino
delle botti con una buona dose di sonnifero.
Sembrava che, fin dal momento in cui mi avevano visto dormire per
terra dopo l'approdo, il re fosse stato avvertito da un veloce
corriere e che avesse stabilito in consiglio di farmi legare nel modo
che ho già descritto (ordine che venne eseguito durante la notte,
mentre ero sprofondato nel sonno), di inviare una gran quantità di
vettovaglie e di preparare una macchina da traino per trasportarmi
nella capitale.
Questa decisione potrà forse sembrare temeraria e non priva di rischi
e spero che nessun principe europeo vorrà, presentandoglisi una simile
occasione, seguirne l'esempio; tuttavia la ritenni molto saggia e
generosa. Se infatti questa gente, profittando del mio sonno, avesse
tentato di farmi fuori con i loro dardi e i loro giavellotti, mi sarei
svegliato alla prima sensazione di bruciore. Allora avrei spezzato le
corde che mi legavano, spinto da una rabbia e una forza incontenibili
e loro, non essendo in grado di oppormi una valida resistenza, non
avrebbero potuto aspettarsi alcuna pietà.
Questo popolo eccelle nella matematica e ha raggiunto la massima
perfezione nelle arti meccaniche, con il favore e l'incoraggiamento
dell'imperatore, noto mecenate della cultura. Questo principe possiede
molte macchine montate su ruote per il trasporto di alberi e di altra
roba molto pesante. Spesso fa costruire le navi da guerra, che possono
raggiungere la lunghezza di quasi due metri, in mezzo ai boschi dove
crescono gli alberi più grossi, e le fa quindi trasportare con queste
macchine per tre o quattrocento metri fino al mare. Furono dunque
ingaggiati cinquecento fra carpentieri ed ingegneri per allestire il
più grande traino che avessero mai costruito: un'armatura di legno
alta dal suolo otto centimetri, lunga due metri e larga uno e venti,
che scorreva su ventidue ruote. Il grido che avevo sentito salutava
l'arrivo di questa macchina, che sembra fosse stata costruita nelle
quattro ore che seguirono al mio approdo. Me la sistemarono di fianco
per tutta la mia lunghezza, ma la difficoltà maggiore consisteva nel
sollevarmi e depormi sopra il veicolo. Allora gli operai innalzarono
ottanta pertiche di trenta centimetri, quindi si dettero ad imbracarmi
il collo, le mani, il corpo e le gambe con delle fasce che venivano
sollevate da corde, grosse come spaghi, che avevano altrettanti
arpioni ad ogni capo. Novecento fra gli uomini più robusti, scelti per
quello scopo, tiravano le corde con l'aiuto di carrucole legate alla
sommità delle pertiche. Fu così che in meno di tre ore fui sollevato e
sospeso su quella macchina alla quale mi legarono saldamente. Tutto
questo mi fu raccontato perché, mentre veniva eseguita l'intera
manovra, dormivo saporitamente sotto l'effetto di quella pozione che
avevano mescolato al vino. Ci vollero millecinquecento cavalli, alti
dieci centimetri o quasi, per trasportarmi alla capitale che, come ho
già detto, era lontana un mezzo miglio.
Eravamo in cammino da quattro ore, quando mi svegliai per un incidente
veramente ridicolo. Il veicolo si era fermato per non so quale
intoppo, quando due o tre giovinastri, presi dalla curiosità di
osservarmi durante il sonno, saltarono sul mio corpo avanzando pian
pianino fino al viso. Qui uno di loro, un ufficiale delle guardie,
ficcatami la punta aguzza della sua alabarda dentro la narice sinistra
mi fece il solletico come se fosse una pagliuzza, costringendomi a
starnutire fragorosamente. Loro se la svignarono senza essere visti,
ed io seppi solo tre settimane dopo quale era stata la causa che mi
aveva svegliato di soprassalto. Per il resto del giorno continuammo la
marcia, mentre ci fermammo di notte. Avevo ai lati cinquecento
soldati, alcuni con torce e altri con archi e frecce, pronti a tirarmi
addosso se avessi tentato di muovermi.
All'alba del giorno dopo riprendemmo il cammino e verso mezzogiorno
arrivammo a meno di duecento metri dalle porte della città.
L'imperatore e la corte ci vennero incontro, tuttavia i dignitari non
permisero che Sua Maestà mettesse a repentaglio la vita salendomi sul
corpo.
Nel luogo in cui ci fermammo c'era un antico tempio considerato il più
grande di tutto il reame. Profanato anni prima da un delitto orribile,
la gente lo considerava, nel suo zelo religioso, sconsacrato e aveva
finito per destinarlo ad uso comune, dopo avere portato via gli arredi
e gli oggetti dl culto. Fu deciso che avrei alloggiato in questo
edificio. L'immenso portale che dava a nord, alto un metro e venti e
largo più di mezzo, mi permetteva di infilarmi dentro facilmente. Ai
lati del portale c'erano due finestrine, a non più di quindici
centimetri da terra, e dentro quella di sinistra i fabbri del re
gettarono novantun catene, simili a quelle che pendono dagli orologi
delle signore in Europa e altrettanto grosse; esse vennero fissate
alla mia gamba sinistra con trentasei chiavistelli. Davanti al tempio,
a circa sei metri dall'altro lato della strada, c'era una torre alta
un metro e mezzo. Mi dissero che lì era salito il re con i principali
dignitari di corte per vedermi, ma io non riuscivo a scorgerli. Si
calcola che non meno di centomila persone fossero uscite dalla città
con lo stesso scopo e che, a dispetto delle guardie, non meno di
diecimila alla volta mi salissero sopra con l'aiuto di scale. Ma fu
emesso un proclama che lo proibiva, pena la morte. Quando gli operai
furono sicuri che non avrei spezzato le catene, tagliarono le corde
che mi legavano ed io mi alzai in piedi con un animo così depresso
come non avevo mai avuto in vita mia. Non si può esprimere il clamore
e lo stupore della gente quando mi vide in piedi e poi camminare. Le
catene che mi trattenevano la gamba sinistra erano lunghe un due metri
e mi consentivano non solo di camminare avanti e indietro e in
semicerchio, ma, fissate come erano a un dieci centimetri dalla porta,
mi permettevano di sgusciare dentro al tempio e distendermi per tutta
la mia lunghezza.




















2 - L'IMPERATORE DI LILLIPUT CON IL SEGUITO VA A VISITARE L'AUTORE NEL
SUO CONFINO. DESCRIZIONE DELL'IMPERATORE E DEL SUO VESTITO. SI
DESIGNANO DEI SAGGI PERCHE' INSEGNINO ALL'AUTORE LA LINGUA. QUESTI SI
GUADAGNA LA SIMPATIA CON IL SUO MITE TEMPERAMENTO. GLI VENGONO FRUGATE
LE TASCHE E SEQUESTRATE LA SPADA E LE PISTOLE.

Quando fui in piedi mi guardai intorno e devo dire di non avere mai
visto un panorama tanto ameno. Tutto in giro la campagna sembrava un
giardino senza limiti in cui i campi recintati, dell'ampiezza di una
dozzina di metri, parevano essere altrettante aiuole di fiori. Ai
campi si alternavano boschi alti una mezza pertica i cui alberi più
maestosi, a mio giudizio, non superavano i due metri. Ed ecco apparire
a sinistra la città che sembrava una di quelle scene dipinte sui
sipari teatrali.
Da diverse ore sentivo sempre più impellente la necessità di liberarmi
e non c'era da meravigliarsene perché non lo facevo da due giorni. Mi
trovavo dunque alle strette fra il bisogno e la vergogna. La miglior
cosa da fare fu quella di scivolare dentro casa e, dopo essermi chiusa
la porta alle spalle, di inoltrarmi per tutta la lunghezza della
catena e sgomberare il ventre di quel peso molesto. Questa fu l'unica
volta in cui mi macchiai di un'azione tanto poco pulita e voglio
sperare che il lettore imparziale mi considererà con indulgenza, dopo
avere soppesato con giudizio non avventato ed equanime, la situazione
e le angustie in cui mi trovavo. In seguito fu mia costante abitudine
di sbrigare tali faccende appena sveglio e all'aria aperta, lontano
quanto me lo permetteva la catena. Inoltre tutte le mattine, prima
dell'arrivo della gente, avevo preso la precauzione di fare portare
via quella materia spiacevole da due servi adibiti a tale servizio e
muniti di carriole. Non mi sarei tanto a lungo soffermato su un
dettaglio che, a prima vista, può apparire trascurabile, se non avessi
ritenuto necessario giustificarmi con la gente in fatto di pulizia
personale, argomento sul quale, come mi è stato riferito, qualche
maligno ha avuto da ridire sia in questa che in altre occasioni.
Conclusa questa tormentata faccenda, uscii di casa perché avevo
bisogno d'aria pura. L'imperatore era già disceso dalla torre e mi
veniva incontro sul suo cavallo, azione che avrebbe potuto costargli
cara perché la bestia, per quanto bene addestrata, ma non abituata
alla vista di una montagna che le si muoveva davanti, si impennò
imbizzarrita. Il principe tuttavia, che era un ottimo cavallerizzo, si
tenne in sella dando modo ai palafrenieri di accorrere subito e di
prendere le briglie e quindi smontò. Quando fu a terra mi guardò con
grande ammirazione, tenendosi sempre oltre la lunghezza della catena.
Poi ordinò a cuochi e maggiordomi, che erano già pronti, di portarmi
da bere e da mangiare e loro spinsero verso di me, piano piano, le
varie cibarie su certi carretti fino a che potei afferrarli. Presi
quei carretti in mano e li vuotai di un colpo: venti erano pieni di
carne e dieci di vino. I primi si esaurirono in un paio di bocconi,
mentre bevvi in un unico sorso il vino di dieci giare di creta
contenute su un carro e così feci con il resto.
L'imperatrice e i principi di sangue di entrambi i sessi sedevano a
distanza nelle loro portantine, accompagnati da diverse dame del
seguito; tuttavia quando avvenne l'incidente del cavallo del re,
scesero e gli andarono tutti intorno. Descriverò ora la persona del
sovrano. La sua statura supera quella di qualsiasi altro a corte, di
quasi un'unghia, e basta questo a incutere riverenza in chiunque sia
al suo cospetto. Ha tratti decisi e mascolini, labbro austriaco, naso
aquilino, pelle olivastra, portamento eretto, corpo e membra
proporzionati, maniere aggraziate e andamento maestoso. Aveva ormai
superato la giovinezza con i suoi ventotto anni suonati e durante gli
ultimi sette aveva regnato riportando vittorie militari, nella
generale prosperità del paese. Per vederlo meglio, mi distesi su un
fianco in modo che il mio volto fosse all'altezza del suo, mentre
stava in piedi a soli tre metri di distanza. D'altra parte mi capitò
da allora in poi di prenderlo in mano tante volte, che non mi sbaglio
nel farne la descrizione. Aveva un abito semplice e disadorno, fra
l'asiatico e l'europeo, ma in testa portava un elmo leggero, d'oro,
ornato di gemme e con una piuma sulla cima. Teneva in mano, pronto a
difendersi in caso avessi rotto le catene, la spada sguainata lunga
otto centimetri, con l'impugnatura e il fodero tempestati di diamanti.
Aveva la voce acuta ma chiara in ogni articolazione, tanto che lo
sentivo bene anche quando stavo in piedi. Le signore e i cortigiani
erano vestiti in modo sfarzoso, e il posto che essi occupavano
sembrava, nel suo insieme, una gonna distesa al suolo, ricamata con
figure d'oro e d'argento.
Sua Maestà Imperiale mi rivolse più volte la parola e io gli risposi,
anche se nessuno dei due riuscì a capire una sillaba. Come potei
dedurre dai loro vestiti, c'erano anche parecchi preti e avvocati ai
quali fu ordinato di parlarmi e io stesso mi rivolsi a loro in tutte
quelle lingue in cui riesco a spiccicare almeno due parole in fila,
quali il tedesco e il fiammingo, il latino, il francese, lo spagnolo,
l'italiano e la lingua franca. Fu tutto inutile. Dopo due ore la corte
si ritirò e mi lasciarono in compagnia di un nutrito corpo di guardia
con l'ordine di fronteggiare l'impertinenza e il malanimo della
plebaglia, che non vedeva l'ora di affollarmisi intorno il più vicino
possibile. Qualcuno della folla ebbe perfino l'impudenza di scagliarmi
addosso qualche freccia, mentre me ne stavo seduto per terra accanto
alla porta di casa, una delle quali mi sfiorò un occhio. Allora il
colonnello fece acciuffare sei dei caporioni e la migliore punizione
gli sembrò quella di consegnarmeli legati. L'operazione fu eseguita
dai soldati che me li spinsero davanti con il calcio delle picche. Li
presi tutti insieme con la destra poi ne infilai cinque nella tasca
della giacca; il sesto lo guardai come se avessi voluto mangiarlo
vivo. Il poveraccio urlava terribilmente mentre il colonnello e le
guardie stavano sulle spine, specialmente quando mi videro estrarre il
temperino. Ma li tranquillizzai subito guardando con dolcezza quel
disgraziato e tagliando le corde con cui era legato. Poi lo misi per
terra e lui se la dette a gambe. Agli altri riservai lo stesso
trattamento, tirandoli fuori uno ad uno di tasca; potei osservare che
con quell'atto di clemenza mi ero guadagnato la riconoscenza dei
soldati e della gente, il che ebbe il suo peso quando fu riferito a
corte.
Sul fare della notte entrai con qualche difficoltà in casa e mi
distesi per terra; continuai così per una quindicina di giorni,
durante i quali l'imperatore ordinò che mi fosse preparato un letto.
Portarono seicento letti di comune grandezza per mezzo di carri e
furono montati nella mia abitazione. Centocinquanta cuciti insieme
vennero a costituire un'unica piazza di lunghezza e larghezza
appropriate, e anche se i rimanenti furono ammassati in quattro
strati, non trovai una grande differenza con il pavimento di pietra
dura. Con gli stessi criteri mi fornirono anche di lenzuoli, coltroni
e coperte, vere delizie per chi, come me, si era da tempo abituato ad
ogni privazione.
Col diffondersi della notizia del mio arrivo per tutto il reame, venne
a vedermi un numero incredibile di ricchi, di fannulloni e di curiosi,
tanto che i villaggi erano diventati quasi deserti e ne avrebbero
risentito la coltivazione dei campi e le faccende domestiche, se Sua
Maestà Imperiale non vi avesse messo un freno con proclami e decreti.
Prescrisse infatti che quanti mi avevano visto se ne tornassero a
casa, e che non dovevano permettersi di avvicinarsi a meno di
cinquanta metri dalla mia abitazione, senza il permesso della Corte;
il che portò ai segretari di stato mance cospicue.
Nel frattempo l'imperatore teneva frequenti riunioni di governo per
discutere quale decisione prendere nei miei confronti e un amico mio,
persona di rango e molto addentro nelle segrete cose, mi assicurò che
la Corte si trovava in notevoli difficoltà per causa mia. Temevano che
riuscissi a liberarmi, e che mantenermi fosse un costo spropositato e
tale da causare una carestia. A volte prendevano la decisione di farmi
morire di fame o almeno di tirarmi frecce avvelenate sulle mani e sul
volto, che mi avrebbero spacciato in quattro e quattr'otto; ma
dovevano poi considerare che il puzzo di una così immensa carcassa
avrebbe potuto diffondere la peste nella capitale e probabilmente in
tutto il paese. Nel bel mezzo di questi dibattiti, diversi ufficiali
dell'esercito si presentarono alla porta del salone del consiglio. I
due che furono ammessi fecero un resoconto della mia condotta nei
confronti dei sopra citati criminali. Questo suscitò un'impressione
così favorevole in Sua Maestà e nell'intero consiglio, che venne
nominata una commissione imperiale col compito di far consegnare
quotidianamente, da parte di tutti i villaggi entro un raggio di
novecento metri, sei buoi, quaranta pecore ed altre derrate per il mio
sostentamento, insieme ad una quantità proporzionale di pane, vino ed
altre bevande. Per il pagamento dovuto, Sua Maestà emise assegni
garantiti dal tesoro della corona, dal momento che questo sovrano vive
soprattutto delle sue rendite e raramente, e solo in occasioni
eccezionali, impone tasse ai suoi sudditi, i quali sono comunque
tenuti a seguirlo in guerra a loro spese.
Venne istituito inoltre un corpo di seicento persone con la funzione
di farmi da domestici, ai quali furono concessi salari appropriati al
loro mantenimento e dei padiglioni costruiti appositamente ai lati
della mia porta. Fu poi ordinato a trecento sarti di farmi un abito
secondo la moda di quel paese; che sei studiosi, fra i più famosi di
quelli di Sua Maestà, si dedicassero ad insegnarmi la loro lingua, ed
infine che i cavalli dell'imperatore, quelli della nobiltà e del corpo
di guardia si addestrassero al mio cospetto per abituarsi alla mia
mole. Eseguiti come di dovere tutti questi decreti, feci grandi
progressi nella loro lingua in circa tre settimane, durante le quali
Sua Maestà mi onorò di parecchie visite, compiacendosi di collaborare
alla mia istruzione con i maestri. Cominciavamo già a conversare in
qualche modo e le prime parole che imparai furono per esprimergli il
mio desiderio di riavere, mercé sua, la libertà, e glielo ripetei
quotidianamente in ginocchio. Lui mi rispose, come potei capire, che
sarebbe stata una questione di tempo ed in ogni caso impensabile senza
il consenso del Consiglio della corona, infine che per prima cosa
dovevo: "Lumos Kelmin pesso desmar lon Emposo", cioè giurare un
accordo con lui e il suo regno; che comunque sarei stato trattato con
ogni cortesia e mi consigliava di guadagnarmi la stima sua e dei suoi
sudditi con la pazienza e la riservatezza. Desiderava inoltre che non
me la prendessi a male se avesse dato l'ordine ai suoi ufficiali di
perquisirmi, poteva darsi che avessi addosso diverse armi, pericolose
specie se proporzionate alla grandezza della mia persona. Risposi che
il desiderio di Sua Maestà poteva ritenersi esaudito, poiché ero
pronto a spogliarmi e a rovesciare le tasche in sua presenza. Glielo
feci capire parte a parole, parte a segni. Lui replicò che, secondo le
leggi del regno, dovevo essere perquisito da due ufficiali e, dal
momento che si rendeva perfettamente conto che tutto ciò non poteva
essere eseguito senza il mio consenso ed il mio aiuto, aveva una così
alta stima della mia generosità e del mio senso di giustizia, da
affidare alle mie mani i suoi ispettori. Qualunque cosa mi avessero
sequestrato, mi sarebbe stata restituita al momento di lasciare la
loro terra, o comunque ripagata al prezzo che avrei ritenuto di dover
fissare.
Presi in mano i due ufficiali e li misi prima nelle tasche della
giacca e quindi in tutte le altre tasche che avevo, ad eccezione di
due taschini ed una tasca segreta che non desideravo farmi
ispezionare, contenenti cosucce di mia necessità e di nessun interesse
per loro. In uno dei taschini avevo un orologio d'argento e nell'altro
un borsello con poche monete d'oro. Questi gentiluomini, forniti di
carta, penne e calamai, stesero un preciso inventario di tutto ciò che
avevano visto, poi, dopo aver terminato, mi chiesero di deporli
nuovamente a terra per consegnarlo all'imperatore. In seguito tradussi
nella nostra lingua quell'inventario che suona, parola per parola,
così:
"In primis, nella tasca destra della giacca del Grande Uomo Montagna
(così ho interpretato le parole 'Quinbus Flestrin') abbiamo rinvenuto,
dopo scrupolosa ispezione, null'altro che un pezzo smisurato di stoffa
grossolana, largo a sufficienza per far da tappeto nel salone del
trono di Sua Maestà. Nella tasca sinistra abbiamo visto una
mastodontica cassa d'argento, con coperchio dello stesso metallo, che
noi ispettori non riuscimmo a sollevare. Dopo avergli chiesto di
aprirlo, uno di noi balzò dentro e si trovò fino a metà gamba in una
specie di polvere che, sollevandosi fino al nostro viso, ci fece
entrambi ripetutamente starnutire. Nella tasca destra del panciotto
abbiamo trovato un fascio enorme di fogli di una materia bianca e
sottile, ripiegati l'uno sull'altro, della grandezza di tre uomini
almeno e tenuti insieme da un grossissimo canapo; sopra avevano delle
figure nere che riteniamo essere la scrittura, ciascuna lettera della
quale è grande quanto il palmo della nostra mano. In quella sinistra
c'era una specie di strumento costituito da una ventina di lunghi pali
che scaturivano da un'unica trave, molto simili alla palizzata che si
trova davanti alla corte di Sua Maestà. Con questo strumento pensiamo
che l'Uomo Montagna si pettini i capelli, anche se è solo un'ipotesi,
perché non lo abbiamo mai infastidito con domande, dal momento che ci
facevamo intendere con difficoltà. Nel tascone destro del suo
coprimezzo (traduco così la parola 'ranfu-lo' con cui chiamavano i
calzoni) abbiamo visto una colonna di ferro vuota, lunga quanto un
uomo, legata ad un pezzo di legno duro e più massiccio della colonna,
dalla quale sporgevano di lato un paio di congegni di ferro dalla
forma strana, di cui non conosciamo la funzione. Nella tasca sinistra
c'era una macchina identica a questa. Nella tasca più piccola della
parte destra c'erano diverse baiaffe piatte e rotonde di metallo
bianco e rosso, di vario peso; alcune di quelle bianche, che
sembravano d'argento, erano così larghe e pesanti che il mio compagno
ed io facevamo fatica a sollevarle. Nella tasca sinistra c'erano due
colonne nere di forma irregolare; riuscimmo ad arrivarci in cima solo
con gran difficoltà, poiché eravamo in fondo alla tasca. Una di queste
era coperta e sembrava fatta di un solo pezzo, mentre all'estremità
dell'altra spuntava qualcosa di bianco e rotondo, grosso due volte la
nostra testa. Dentro ognuna di queste stava rinchiusa un'enorme lama
di acciaio che, su nostra ingiunzione, lui ci mostrò. Temevamo infatti
che fossero macchine pericolose. Lui le tirò fuori dagli astucci e ci
disse che al suo paese con una ci si radeva la barba e con l'altra ci
si tagliava la carne. C'erano poi due taschini nei quali non fummo
capaci di insinuarci, perché erano come due fenditure taglienti alla
sommità del coprimezzo, tenute aderenti dalla pressione della pancia.
Dal taschino destro pendeva una pesante catena d'argento con appesa
una macchina straordinaria. Gli facemmo cenno di estrarre quel che
stava attaccato al capo della catena: si trattava di un globo per metà
d'argento e per metà di un metallo trasparente attraverso il quale si
potevano vedere strane figure disposte in cerchio. Pensavamo di
poterle toccare, ma le nostre dita non andarono oltre quella materia
traslucida. Ci mise agli orecchi quella macchina che faceva un rumore
incessante, come quello di un mulino. Pensiamo che si tratti di
qualche bestia sconosciuta o del dio che lui adora, siamo anzi
favorevoli a questa seconda ipotesi, perché ci assicurò (se abbiamo
capito bene quel che ci disse, dal momento che si esprimeva in maniera
assai scorretta) che raramente intraprendeva qualche azione senza
prima averlo consultato. L'ha definito il suo oracolo, dicendo che gli
indicava il momento giusto per ogni azione. Dal taschino sinistro tirò
fuori una rete grande quasi quanto quella di un pescatore, studiata in
modo da potersi aprire e chiudere come un borsello ed infatti gli
serviva a questo scopo; ci trovammo diversi pezzi di un metallo giallo
e massiccio i quali, se fossero veramente d'oro, ammonterebbero ad una
somma favolosa.
"Ispezionate in questo modo tutte le tasche, in ottemperanza al volere
di Sua Maestà, osservammo che portava intorno alla vita una cintura
fatta con la pelle di qualche animale che doveva essere stato immenso
e dalla quale, a sinistra, pendeva una spada della lunghezza di cinque
uomini e, a destra, una borsa o sacchetto a due scomparti, ognuno dei
quali era capace di contenere tre sudditi di Sua Maestà. In uno di
questi scomparti c'erano delle palle o globi di un metallo
pesantissimo, della dimensione della nostra testa, che solo una mano
robusta riusciva a sollevare; nell'altro un mucchio di certi granelli
neri, non di gran mole né troppo pesanti, poiché ne potevamo tenere
una cinquantina sul palmo della mano.
"Questo è l'esatto inventario di quanto abbiamo rinvenuto addosso
all'Uomo Montagna, il quale ha avuto con noi maniere di grande
cortesia e il rispetto dovuto ad una commissione di Sua Maestà.
Firmato e apposto il sigillo il quarto giorno della ottantanovesima
luna del fausto regno di Sua Maestà.
Clefren Frelock, Marsi Frelock."

Letto l'inventario al cospetto dell'imperatore, questi mi ordinò di
consegnare i diversi oggetti. Per prima cosa mi chiese la sciabola,
che staccai, fodero e tutto. Nel frattempo ordinò ad un suo esercito
di tremila uomini scelti di circondarmi a distanza, con archi e frecce
pronte a scoccare; ma non ci feci attenzione perché tenevo gli occhi
fissi sull'imperatore. Lui volle allora che sguainassi la sciabola
che, per quanto si fosse un po' arrugginita in mare era in molti
tratti ancora sfavillante: le truppe emisero un boato fra il terrore e
la sorpresa, perché ai raggi del sole i riflessi della sciabola, che
facevo ondeggiare qua e là, abbagliavano i loro occhi. Sua Maestà, che
è un principe magnanimo, rimase meno sbigottito di quanto credessi e
mi ordinò di rinfoderarla e di metterla per terra pian pianino, a
circa sei piedi dall'estremità della mia catena. Poi volle una delle
colonne di ferro cavo, cioè le mie pistole da tasca. Le tirai fuori e
quindi, per esaudire il suo desiderio, gliene spiegai l'uso meglio che
potevo, poi, caricatane una a salve (per fortuna il sacchetto ben
chiuso aveva impedito alla polvere di bagnarsi, secondo un
accorgimento che i prudenti marinai sanno di dover prendere) misi in
guardia l'imperatore di non spaventarsi e la scaricai in aria. Questa
volta vi fu uno sbalordimento assai più grande di quello espresso alla
vista della sciabola. Caddero a terra a centinaia, come fossero stati
colpiti a morte, e perfino l'imperatore, per quanto avesse solo
barcollato, per un certo tempo non riuscì a riaversi. Così come avevo
fatto con la sciabola, consegnai entrambe le pistole e quindi il
sacchetto della polvere e delle palle, non senza averlo prima messo in
guardia che questo doveva stare lontano dal fuoco, capace com'era di
incendiarsi alla minima scintilla e di fare saltare in aria il palazzo
imperiale. Gli consegnai anche l'orologio, che l'imperatore era
curiosissimo di vedere. Lui allora ordinò a due fra i più alti soldati
delle guardie, di infilarlo in una pertica e portarlo a spalla, come
fanno in Inghilterra i garzoni con le botti di birra. Era stupito nel
sentire il continuo rumore e nel vedere la lancetta dei minuti che si
muoveva; lui infatti riusciva a scorgerne il moto distintamente,
perché quel popolo ha una vista molto più acuta della nostra. Chiese
il parere dei saggi che lo circondavano che risposero in maniera
evasiva e lontana dal vero, come il lettore può ben comprendere senza
che debba ripetermi, tanto più che non riuscii a capirli del tutto. Fu
poi la volta delle monete d'argento e di rame, del borsello con nove
grosse monete d'oro ed altre più piccole, del pettine, della
tabacchiera d'argento, del fazzoletto e del giornale di bordo.
Sciabola, pistole e sacchetto di munizioni furono trasportati con
carri all'arsenale di Sua Maestà, mentre le altre cose mi furono
restituite.
Come ho già detto sopra, avevo una tasca segreta che era loro sfuggita
nella quale tenevo un paio di occhiali (che metto a volte, perché ho
la vista debole), un cannocchiale tascabile e diverse altre cosucce
che, sapendo che non avrebbero avuto nessuna importanza per
l'imperatore, non mi sentii in dovere di mostrare, pur rispettando la
parola data; e poi temevo che le avrei perdute o che si sarebbero
danneggiate una volta non più in mano mia.










3 - L'AUTORE FA DIVERTIRE L'IMPERATORE E I NOBILI DI ENTRAMBI I SESSI
IN MODO STRAORDINARIO. DESCRIZIONE DEI DIVERTIMENTI ALLA CORTE DI
LILLIPUT. L'AUTORE OTTIENE LA LIBERTA' A DETERMINATE CONDIZIONI.

Il garbo e la mitezza del mio comportamento avevano così ben
impressionato l'imperatore e la corte e non meno l'esercito e la gente
in generale, che cominciai a nutrire qualche speranza di riacquistare
in breve la libertà. Non trascurai niente per favorire questo
atteggiamento di benevolenza. I nativi avevano poco a poco sempre meno
paura che facessi loro del male. Talvolta mi mettevo per terra e
facevo danzare cinque o sei di loro sulla mia mano, e alla fine
ragazzi e ragazze non ebbero paura di mettersi a giocare a nascondino
fra i miei capelli. Avevo ormai fatto notevoli progressi nell'uso
della loro lingua. Un giorno l'imperatore volle intrattenermi con
parecchi dei loro giochi nazionali, nei quali eccellono su tutti i
paesi che ho conosciuto, sia nella abilità che nel fasto. Nessuno mi
divertì quanto quello dei funamboli che ballavano su di un sottile
filo bianco, lungo un mezzo metro e alto da terra un trenta
centimetri. Su questo gioco chiedo al paziente lettore di potermi
dilungare un po'.
A praticare questo esercizio sono solo quelle persone candidate a
ricoprire cariche elevate o alte onorificenze della corte. Fin da
giovani vengono addestrate a questa arte e non tutte sono di sangue
nobile o di cultura liberale. Quando una carica di primo piano è
vacante, perché il titolare è morto o è caduto in disgrazia, cinque o
sei candidati alla successione presentano all'imperatore la richiesta
di potere intrattenere Sua Maestà e la corte esibendosi sulla corda.
Colui che fa più salti senza cadere, ha diritto a subentrare in quella
carica. Molto spesso gli stessi ministri sono obbligati a dare prova
della loro bravura, per convincere l'imperatore che sono sempre in
possesso della loro abilità. Il tesoriere Flimnap, lo riconoscono
tutti, fa capriole sulla corda tesa un centimetro più in alto degli
altri nobili dell'impero. L'ho visto fare il salto mortale parecchie
volte di seguito, sopra una tavoletta fissata alla cordicella non più
spessa di un nostro spago. Dopo di lui viene, se non pecco di
parzialità, il mio amico Reldresal, primo segretario agli interni,
mentre tutti gli altri funzionari più o meno si equivalgono.
Durante i giochi capitano assai spesso incidenti mortali, di cui le
cronache sono piene. Ho visto coi miei occhi due o tre candidati
rompersi le ossa, anche se il pericolo più grande lo corrono gli
stessi ministri che devono comprovare la loro abilità. Perché, presi
come sono dall'ambizione di superare se stessi e i loro colleghi, si
sforzano a tal punto, che nessuno si salva da qualche capitombolo, che
poi sono due o tre per alcuni di loro. Mi venne detto che un anno o
due prima del mio arrivo, il tesoriere Flimnap si sarebbe senza dubbio
rotto l'osso del collo, se la violenza della caduta non fosse stata
attutita da uno dei cuscini del re che per caso si trovava per terra.
C'è poi un'altra gara che, in particolari occasioni, si svolge alla
sola presenza dell'imperatore, dell'imperatrice e del primo ministro.
L'imperatore mette sul tavolo tre sottili fili di seta lunghi dieci
centimetri, uno azzurro, uno rosso e uno verde. Questi fili
costituiscono i premi per coloro che l'imperatore intende distinguere
con un segno caratteristico della sua benevolenza. La cerimonia si
svolge nel gran salone di governo, dove i candidati devono sottoporsi
ad una prova di abilità assai diversa dalla precedente e di cui non ho
visto niente di simile nei paesi del vecchio e del nuovo mondo.
L'imperatore tiene in mano un bastone, le cui estremità sono parallele
all'orizzonte, mentre i candidati, avanzando l'uno dietro l'altro, a
volte saltano sopra il bastone, a volte vi sgusciano sotto, avanti e
indietro per parecchie volte, a seconda che il bastone venga alzato o
abbassato. Capita che l'imperatore tenga un capo del bastone e il
primo ministro l'altro, oppure che sia quest'ultimo tenerlo da
entrambe le parti. Colui che svolge il suo esercizio con maggiore
scioltezza nel saltare e nello strisciare è ricompensato col filo
azzurro, mentre al secondo tocca quello rosso e al terzo quello verde.
Essi se li portano avvolti in due giri attorno alla vita e, fra i
notabili del regno, sono pochi quelli che non sono in grado di
fregiarsi di queste cinture. I cavalli dell'esercito e delle scuderie
imperiali, che erano stati addestrati al mio cospetto, non
recalcitravano più e mi venivano ai piedi senza dar segno di
imbizzarrirsi. Allora stendevo una mano per terra e i cavalieri la
saltavano con i loro cavalli; anzi ci fu un cacciatore reale che, in
sella a un maestoso destriero, mi saltò il piede, scarpa e tutto, con
un balzo straordinario. Un giorno ebbi la ventura di divertire
l'imperatore in maniera veramente singolare. Lo pregai di ordinare che
mi portassero parecchi bastoni grossi come canne da passeggio e lunghi
una sessantina di centimetri. Sua Maestà passò l'ordine al
sovrintendente delle foreste, il quale diede a sua volta istruzioni in
proposito e il giorno seguente arrivarono sei boscaioli con
altrettanti carri trainati ognuno da otto cavalli. Presi nove di
questi pali e li infilai saldamente in terra, formando un quadrato
della superficie di un novanta centimetri, fissai altri quattro
bastoni ad ogni angolo all'altezza di novanta centimetri dal suolo e
ad esso paralleli; poi legai il fazzoletto ai nove pali messi per
dritto tirandolo da tutti i quattro lati, finché si tese come la pelle
di un tamburo, a questo punto i quattro bastoni paralleli, che
sovrastavano il fazzoletto di poco, servirono da ringhiera. Finito il
lavoro, chiesi all'imperatore che facesse salire su questa piattaforma
un gruppo dei suoi migliori cavalleggeri, in tutto ventiquattro, per
esercitarsi. Sua Maestà accettò la mia proposta ed io li presi uno ad
uno con la mano, cavallo e tutto, con i rispettivi ufficiali di
addestramento. Formati i ranghi, si divisero in due squadre dando
luogo a finte scaramucce, scagliando frecce spuntate, sguainando le
spade, fuggendo e inseguendo, attaccando e battendo in ritirata; in
breve, dettero un saggio della più perfetta disciplina militare che
avessi mai visto. I bastoni trasversali impedivano che cavalli e
cavalieri cadessero sopra al palcoscenico e l'imperatore si divertì a
tal punto da ordinare che questi giochi fossero ripetuti per diversi
giorni. Una volta si fece sollevare lui stesso per impartire i comandi
e, non senza poche difficoltà, persuase la stessa imperatrice a farsi
sollevare da me entro la sua portantina, per potere godere la scena a
un due metri dalla piattaforma. Per fortuna durante questi spettacoli
non avvennero disgrazie; solo una volta un cavallo focoso, che
apparteneva ad uno dei capitani, scalpitando, lacerò con lo zoccolo il
fazzoletto facendoci un buco e, mancandogli il piede, ruzzolò insieme
al cavaliere, ma venni subito loro in aiuto. Con una mano infatti
tappai il foro, mentre con l'altra misi a terra le squadre allo stesso
modo in cui le avevo fatte salire. Il cavallo che era caduto si slogò
la spalla sinistra, ma il cavaliere se la cavò senza un graffio e a me
non rimase che rammendare alla meglio il fazzoletto, deciso d'ora in
poi a non fidarmi più della sua resistenza in imprese tanto
pericolose.
Due o tre giorni prima della mia liberazione, mentre intrattenevo la
corte con questa specie di spettacoli, arrivò un corriere per
informare Sua Maestà che alcuni dei suoi sudditi, mentre cavalcavano
nelle vicinanze del luogo dove ero stato catturato, avevano scorto una
gran roba nera distesa al suolo, dalla forma strana, alta come una
persona nel mezzo e larga come la camera da letto imperiale. Non si
trattava di una cosa viva, come avevano supposto in un primo momento,
perché giaceva immobile sull'erba, sebbene alcuni di loro vi avessero
girato attorno varie volte. Salendo uno in groppa all'altro avevano
raggiunto la cima che era apparsa piatta e liscia mentre, camminandoci
sopra, si era dimostrata cava. Ritenevano che si trattasse di un
qualchecosa appartenente all'Uomo Montagna e, col beneplacito di Sua
Maestà, prendevano l'impegno di trasportarla a corte con cinque
cavalli. Capii subito cosa avevano trovato, e in cuor mio, mi
rallegrai della notizia.
Quando dopo il naufragio avevo guadagnato la riva, ero talmente
frastornato che, prima di raggiungere il luogo dove mi ero
addormentato, dovevo aver perso il cappello che pure mi ero legato al
capo con un sottogola quando ero sulla barca e che non si era
slacciato per tutto il tempo che avevo nuotato. Per qualche accidente
casuale, il laccio si era rotto e ero convinto di averlo perso in
mare. Pregai Sua Maestà di disporre che mi fosse riportato il prima
possibile, dopo avergli descritto la natura e l'uso di
quell'indumento. Il giorno dopoo, infatti, eccomelo trascinato dai
carrettieri, sebbene non si potesse dire che fosse in buono stato.
Nella falda, a un paio di centimetri dall'orlo, avevano fatto due
buchi nei quali avevano infilato due uncini e questi, a loro volta,
erano legati con una lunga corda ai finimenti dei cavalli. E così il
mio cappello era stato trascinato per più di mezzo miglio inglese.
Comunque devo dire che rimase danneggiato molto meno del previsto,
grazie all'uniformità e levigatezza di quella terra.
Due giorni dopo questo avvenimento, venne ordinato all'esercito
acquartierato dentro e tutto intorno alla capitale lo stato di
all'erta, perché all'imperatore era venuto il ticchio di divertirsi in
modo assai strano. Volle che mi piazzassi ritto e a gambe il più
possibile divaricate, come il Colosso di Rodi. Quindi ordinò al suo
generale, vecchio condottiero pieno di esperienza, e mio gran
protettore, di schierare le truppe a ranghi serrati e di farle sfilare
sotto di me al rullo dei tamburi: la fanteria in file di ventiquattro
e la cavalleria di sedici, con le bandiere al vento e lance in resta.
In tutto erano tremila fanti e un migliaio di cavalieri. Sua Maestà
ordinò, pena la morte, che ogni soldato si attenesse al più stretto
senso di decenza nei miei confronti, anche se alcuni degli ufficiali
più giovani alzarono lo stesso gli occhi mentre mi passavano sotto. E
devo dire che i miei calzoni erano allora così mal ridotti, che non
mancarono occasioni di riso e di meraviglia.
Avevo inviato tanti memoriali e petizioni per ottenere la libertà, che
alla fine l'imperatore ne parlò prima nel gabinetto privato e poi
nella seduta plenaria del consiglio, dove nessuno si oppose ad
eccezione di Skyresh Bolgolam che si compiaceva, senza che lo avessi
mai provocato, di essere mio nemico mortale. Ma tutto il consiglio gli
votò contro e l'imperatore sanzionò la decisione. Questo ministro era
"galbet", o ammiraglio del regno, godeva la cieca fiducia del sovrano
ed era molto capace nei suoi compiti sebbene fosse una persona dal
carattere acido e rude. Alla fine lo convinsero ad acconsentire, ma
lui ottenne in cambio di stilare gli articoli e le condizioni che
regolavano la mia libertà e sui quali ero tenuto a giurare. Fu lo
stesso Skyresh Bolgolam, seguito da due sottosegretari e da diverse
persone di rango, a portarmi il documento con gli articoli in oggetto.
Dopo che mi furono letti, mi chiesero di giurare fedeltà ai patti,
prima secondo il costume della mia patria, quindi nel loro, il quale
consisteva nel tenermi il piede destro con la mano sinistra, mettendo
il dito medio della destra sul cucuzzolo e il pollice sulla punta
dell'orecchio sinistro. E poiché il lettore può essere curioso di
conoscere approssimativamente lo stile e le maniere espressive di quel
popolo, nonché gli articoli alle cui condizioni ottenni la libertà, ho
tradotto l'intero documento, parola per parola, e ora lo presento al
pubblico:

"GOLBASTO MOMAREN EVLAME GURDILO SHEFIN MULLY ULLY GUE, potentissimo
imperatore di Lilliput, delizia e terrore dell'universo, i cui
possedimenti si estendono per cinquemila "blustrug" (una circonferenza
di circa dodici miglia) ai confini del globo; monarca di tutti i
monarchi, più alto di tutti i figli dell'uomo, i cui piedi calpestano
il centro dell'universo e la cui testa batte contro il sole, al cui
cenno i principi della terra si sentono tremare le ginocchia; dolce
come la primavera, propizio come l'estate, ferace come l'autunno,
terribile come l'inverno; Sua Maestà Altissima propone all'Uomo
Montagna, giunto recentemente nei nostri celesti domini, i seguenti
articoli che egli si impegna a rispettare con giuramento solenne.
1. L'Uomo Montagna non partirà dai nostri domini senza nostra
autorizzazione, munita del gran sigillo.
2. Non potrà permettersi di entrare nella capitale senza nostro
specifico ordine, nel qual caso verrà dato un preavviso di due ore
agli abitanti per ripararsi in casa.
3. Il suddetto Uomo Montagna limiterà le proprie passeggiate alle
strade principali e più spaziose ed eviterà di camminare o sdraiarsi
sui prati o sui campi di grano.
4. Mentre percorre le strade sopraddette avrà la massima cura di non
calpestare i nostri amati sudditi, cavalli e carri; né potrà prendere
in mano alcuno, senza suo permesso.
5. Se si dà il caso di dover trasmettere una notizia urgente, l'Uomo
Montagna dovrà portare nella sua tasca ambasciatore e cavallo, per un
viaggio di sei giorni ogni luna, e, se richiesto, riportare al
cospetto di Sua Maestà detto ambasciatore sano e salvo.
6. Sarà nostro alleato contro il nemico dell'isola di Blefuscu e farà
quanto sarà in suo potere per distruggerne la flotta che è in procinto
di invaderci.
7. Nei momenti di ozio, detto Uomo Montagna darà assistenza ai nostri
operai, aiutandoli a sollevare le pietre più grosse per terminare il
muro del parco principale ed altri nostri edifici reali. Detto Uomo
Montagna dovrà fornirci, nel tempo di due lune, l'esatta misura dei
nostri territori contando i passi tutt'intorno alla costa.
Per ultimo, dietro solenne giuramento di rispettare i sopracitati
articoli, detto Uomo Montagna riceverà giornalmente una provvigione di
cibo e di bevande sufficiente al mantenimento di 1728 dei nostri
sudditi; avrà libero accesso alla nostra Augusta Persona e riceverà
altri segni della nostra benevolenza. Dato nel nostro Palazzo di
Belfoborac il dodicesimo giorno della novantesima luna del nostro
regno."

Fu con somma gioia che giurai e sottoscrissi queste clausole, per
quanto alcune di esse non fossero tanto onorevoli quanto avrei
desiderato, frutto esclusivamente della malevolenza dell'alto
ammiraglio Skyresh Bolgolam. Mi furono dunque tolte le catene e fui
completamente libero, l'imperatore in persona mi fece l'onore di
presiedere all'intera cerimonia. Gli dimostrai tutta la mia
riconoscenza prostrandomi ai suoi piedi, ma lui mi ordinò di alzarmi;
poi, dopo molte parole piene di benevolenza, che taccio per non
apparire vanitoso, aggiunse di sperare che sarei stato un utile
servitore e che avrei ben meritato quei segni di favore che mi aveva
già manifestato o che avrei potuto ancora ricevere in futuro.
Non sarà sfuggito al lettore che nell'ultima clausola concernente la
mia liberazione, l'imperatore si impegnava a fornirmi tanto vitto
quanto bastava al mantenimento di 1728 lillipuziani. Qualche tempo
dopo, quando chiesi a un amico cortigiano in che modo avevano
stabilito quel numero, mi rispose che i ragionieri di Sua Maestà,
misurata l'altezza del mio corpo per mezzo di un quadrante, rilevando
che essa stava alla loro nella proporzione di dodici a uno, tratta la
conclusione che, vista la somiglianza dei corpi, il mio doveva
contenerne almeno 1728 dei loro, avevano stabilito che questo aveva
bisogno di tanto cibo quanto ce ne voleva per mantenere quel numero di
lillipuziani. Dal che il lettore può farsi un'idea dell'ingegnosità di
quel popolo, come dell'economia saggia ed accorta di quel grande
monarca.

















4 - DESCRIZIONE DI MILDENDO, CAPITALE Dl LILLIPUT, E DEL PALAZZO
DELL'IMPERATORE. L'AUTORE SI INTRATTIENE CON IL PRIMO SEGRETARIO
PARLANDO DEL GOVERNO DELLO STATO. L'AUTORE OFFRE AIUTO ALL'IMPERATORE
IN CASO DI GUERRA.

Ottenuta la libertà, la prima richiesta che feci fu quella di poter
vedere la capitale di Mildendo. L'imperatore me lo accordò subito,
chiedendomi espressamente di non danneggiare né abitanti né case. Fu
emesso un proclama col quale si avvertiva il popolo della mia
intenzione di visitare la città. Questa è circondata da una muraglia
alta circa ottanta centimetri e larga una trentina, così che ci si può
scarrozzare sopra benissimo con cocchio e cavalli, ed è fiancheggiata
da potenti torrioni ogni tre metri.
Scavalcai la grande porta occidentale e cominciai a camminare di
sghembo e con accortezza per le strade principali, con il solo
giubbetto addosso, per paura di danneggiare i tetti e le grondaie
delle case con le falde della giacca. Camminai con estrema
circospezione, attento a non calpestare chi si fosse trovato per
strada, malgrado la perentorietà dell'ordinanza, che imponeva a
chiunque di non uscire, se non a proprio rischio e pericolo. Le
finestre più alte e i tetti erano talmente affollati di spettatori,
che non credo di aver mai visto un luogo altrettanto gremito. La città
è un quadrato perfetto con il lato di centocinquanta metri ed oltre.
Le due strade maestre, che incrociandosi formano i quattro quartieri,
sono larghe un metro e mezzo, mentre i vicoli e le strade minori che
vidi passando, senza poterci entrare, sono larghi dai trenta ai
quaranta centimetri. La città può contenere cinquecentomila anime. Le
case sono da tre a cinque piani, ben forniti negozi e mercati.
Il palazzo imperiale è al centro della città, all'incrocio delle vie
maestre. E' circondato da un muro alto sessanta centimetri che si
sviluppa a un sei metri di distanza. Da Sua Maestà ebbi il permesso di
scavalcare il muro di cinta e poiché c'era spazio abbastanza, mi fu
possibile osservarlo da ogni lato. Il cortile esterno è un quadrato di
dodici metri ed incorpora altri due cortili; in quello più interno ci
sono gli appartamenti reali, che desideravo proprio vedere, sebbene
fosse assai difficile, perché i portali che immettevano da una piazza
all'altra erano alti quaranta centimetri e larghi una ventina. Inoltre
gli edifici della corte esterna erano alti almeno un metro e mezzo e
non li potevo scavalcare senza recare danni ingenti al complesso,
sebbene le mura fossero di solide pietre squadrate e dello spessore di
dodici centimetri. Eppure l'imperatore voleva ardentemente che potessi
ammirare il suo magnifico palazzo, ma questo non mi fu possibile se
non in capo a tre giorni, durante i quali tagliai alla base, col mio
coltello, alcuni degli alberi più maestosi del parco reale che si
trovava a un cento metri dalla città. Con questi alberi costruii due
sgabelli dell'altezza di un metro e abbastanza solidi da reggere il
mio peso. Avvertita una seconda volta la popolazione, percorsi di
nuovo la città fino al palazzo con in mano gli sgabelli. Quando fui di
fianco alla corte esterna, salii su uno dei banchetti e tenendo
l'altro in mano, lo passai sopra il tetto deponendolo quindi, con la
massima attenzione, nello spazio fra il primo e il secondo cortile,
che ha una superficie di meno di mezzo metro. Scavalcati agevolmente
gli edifici e tirato sù il banchetto per mezzo di una fune con un
uncino, mi trovai nella corte interna, e allora, distesomi di fianco,
avvicinai il viso alle finestre dei piani intermedi, lasciate aperte
appositamente, e potei scorgere gli appartamenti più stupendi che si
possano immaginare. L'imperatrice e i principini erano nelle loro
stanze, attorniati dalle personalità del seguito. Sua Maestà
l'imperatrice si compiacque di sorridermi graziosamente, tendendomi
fuori della finestra la mano da baciare.
Ma non voglio anticipare al lettore descrizioni di questo genere che
ho riservato per un'opera più grande, quasi pronta ormai per la
stampa, contenente una descrizione generale di questo impero, fino
dalla sua fondazione, attraverso una lunga stirpe di principi e con
particolare riferimento alle sue guerre, alle istituzioni, alle leggi,
alla cultura, alla religione, alle piante e agli animali, ai costumi e
a tutti i modi di vivere che caratterizzano questa terra, senza per
questo tralasciare anche altre notizie curiose ed istruttive. Per ora
è mia intenzione riferire fatti e avvenimenti accaduti a quel popolo o
a me stesso durante la permanenza di circa nove mesi in quell'impero.
Un mattino, quindici giorni dopo la mia liberazione, il primo
segretario agli affari privati (come è chiamato) Reldresal venne a
trovarmi accompagnato da un solo servitore. Lasciata la carrozza ad
una certa distanza, mi chiese di riservargli un'udienza di un'ora.
Acconsentii subito, sia per riguardo alla sua posizione e ai suoi
meriti personali, sia ricordando i buoni servigi che mi aveva reso
quando avevo rivolto le mie suppliche alla corte. Dissi che mi sarei
disteso al suolo per ascoltarlo meglio, ma lui preferì che lo tenessi
in mano. Poi cominciò col complimentarsi per la mia liberazione, nella
quale disse che qualche merito spettava pure a lui, ma che dovevo
ringraziare come stavano andando le cose a palazzo, altrimenti non
l'avrei ottenuta tanto alla svelta. "Perché," aggiunse, "dietro le
condizioni di prosperità come possono apparire ad occhi estranei, il
nostro paese è tormentato da due grossi malanni: all'interno la
violenza delle fazioni e all'esterno il pericolo d'invasione di un
potente nemico. Per quanto riguarda il primo, devi sapere che per più
di settanta lune questo impero è stato diviso da due partiti in lotta
fra di loro, denominati "Tramecksan" e "Slamecksan", dai tacchi alti e
dai tacchi bassi che portano come loro segno di distinzione.
"Sebbene si sostenga che i tacchi alti siano più conformi allo spirito
della nostra antica costituzione, sia come sia, Sua Maestà ha imposto
a tutti i funzionari dell'amministrazione governativa e degli uffici
dipendenti dalla corona l'uso dei tacchi bassi, come puoi vedere coi
tuoi stessi occhi. Quelli di Sua Maestà sono addirittura più bassi di
un "drurr" rispetto a quelli degli altri cortigiani (il "drurr"
corrisponde alla quattordicesima parte di un centimetro). Il rancore
fra questi due partiti si è inasprito così tanto, che i suoi
componenti si rifiutano di bere e di pranzare insieme e addirittura di
rivolgersi la parola. Riteniamo che i "Tramecksan" o "Tacchialti"
siano maggiori di numero, ma senza dubbio il potere è tutto in mano
nostra.
"Temiamo tuttavia che Sua Maestà Imperiale, l'erede al trono, dimostri
qualche simpatia per i tacchi alti; è comunque certo che porta uno dei
due tacchi più alto dell'altro, il che gli conferisce la tipica
andatura dello zoppo. Ora, nel colmo di queste lotte intestine, siamo
minacciati da un'invasione da parte degli abitanti dell'isola di
Blefuscu, l'altro grande impero dell'universo, vasto e potente quanto
quello di Sua Maestà. Per quanto riguarda, infatti, la tua
affermazione, che ci sarebbero altri regni ed altri stati nel mondo,
abitati da esseri della tua grandezza, i nostri filosofi sono alquanto
scettici e sono inclini a pensare che tu sia piovuto dalla Luna o da
una stella. E' comunque certo che un centinaio di esseri del tuo peso
basterebbero a distruggere in un batter d'occhio i prodotti agricoli e
il bestiame dei territori di Sua Maestà. Inoltre non c'è il minimo
accenno ad altri paesi, che non siano i grandi imperi di Blefuscu e di
Lilliput, nelle storie delle seimila lune. Ma questi due potenti stati
si sono impegnati in una reciproca ostinatissima guerra per trentasei
lune. Ora ascolta quale ne fu l'occasione. E' da tutti ammesso che il
modo consueto di bere un uovo è di romperlo dalla punta larga; ma il
nonno di Sua Maestà, apprestandosi un giorno, quando era bambino, a
bere un uovo e avendolo rotto secondo l'uso degli antichi, si graffiò
un dito. In conseguenza di ciò, l'imperatore suo padre, emanò un
editto col quale si imponeva ai sudditi, con la minaccia di pene assai
rigorose, di rompere le uova dalla parte della punta stretta. Il
popolo reagì violentemente a questa legge, tanto che, come ci narrano
le storie, ci furono sei rivoluzioni durante le quali un imperatore
perse la vita e un altro la corona. A fomentare queste guerre civili
furono sempre gli imperatori di Blefuscu, presso i quali trovavano
rifugio gli esiliati, non appena veniva soffocata una rivoluzione. Si
calcola che non meno di undicimila persone abbiano preferito la morte,
piuttosto che accettare di rompere le uova dalla punta stretta. Su
questa controversia sono usciti centinaia di grossi volumi, anche se i
libri dei Puntalarga sono stati proibiti da lungo tempo e gli
appartenenti a quel partito siano stati interdetti a termini di legge
da ogni impiego. Durante queste discordie gli imperatori di Blefuscu
ci presentarono, per mano dei loro ambasciatori, numerose proteste,
accusandoci di avere aperto un vero scisma religioso, poiché avremmo
offeso uno dei dogmi della dottrina del nostro profeta Lustrog,
espressa nel capitolo cinquantaquattresimo del Brundrecal (che è il
loro Corano). Si ritiene tuttavia che questo sia stato un voler
forzare il testo, le cui parole dicono esattamente che tutti i
credenti dovranno rompere le uova dalla parte giusta. Ora, è mia umile
opinione che decidere della parte giusta spetti alla coscienza
individuale o in ultima istanza al supremo magistrato. Ma i Puntalarga
esiliati hanno ottenuto un così gran credito alla corte di Blefuscu e
tanti aiuti materiali e morali dal loro partito in patria, che per
trentasei lune si è combattuta una guerra sanguinosa tra i due paesi
con alterne vittorie e durante le quali abbiamo perso quaranta galeoni
da guerra e un numero assai più grande di vascelli minori, con i loro
equipaggi di marinai esperti e di soldati, per un totale di trentamila
persone. I danni arrecati al nemico si pensa che siano maggiori dei
nostri. Esso tuttavia ha equipaggiato una flotta numerosa con la quale
si prepara ad invaderci, e per questo Sua Maestà, confidando nella tua
forza e nel tuo valore, mi ha ordinato di esporti questo stato di
cose."
Pregai il segretario di farsi latore a Sua Maestà dei miei devoti
omaggi e di informarlo che non intendevo, come straniero, immischiarmi
nelle loro faccende private, ma che ero pronto a dare la mia vita per
difendere la sua vita e il suo regno contro l'invasore.

















5 - CON UNO STRATAGEMMA STRAORDINARIO L'AUTORE PREVIENE L'INVASIONE.
GLI VIENE CONFERITA UN'ALTA ONORIFICENZA. GLI AMBASCIATORI DI BLEFUSCU
SOLLECITANO LA PACE. PER UNA SVISTA SCOPPIA UN INCENDIO NEGLI
APPARTAMENTI DELL'IMPERATRICE. MEZZI USATI DALL'AUTORE PER SALVARE IL
PALAZZO.

L'impero di Blefuscu è un'isola posta a nord-nord-est di Lilliput, da
cui è separata da un canale largo ottocento metri. Non l'avevo mai
visto per cui, quando seppi di questo tentativo d'invasione, evitai di
andare sulla costa, per timore che qualche vascello nemico mi vedesse,
tanto più che non sapevano niente della mia esistenza. Ogni contatto
fra i due imperi era stato severamente proibito, pena la morte,
durante la guerra, inoltre il nostro imperatore aveva posto l'embargo
su tutte le navi. Feci sapere a Sua Maestà di un mio piano, tramite il
quale mi sarei impadronito dell'intera flotta nemica che si trovava
alla fonda del porto, pronta a salpare col primo vento favorevole.
Mi informai presso i più esperti marinai per conoscere la profondità
del canale che avevano spesso scandagliato e seppi che nel mezzo, dove
l'acqua è più alta, ha una profondità di settanta "glumgluff",
corrispondente a circa un paio di metri e che il resto non supera mai
la cinquantina di glumgluff. Mi diressi quindi verso la costa
nordorientale, proprio di fronte all'isola di Blefuscu e qui,
accovacciatomi dietro una collina, presi il cannocchiale tascabile e
potei inquadrare la flotta nemica in rada, composta di circa cinquanta
navi da guerra e un gran numero di mercantili. Tornai a casa e mi feci
preparare, forte di una precisa autorizzazione reale, quante più corde
e barre di ferro fosse possibile trovare, fra le più lunghe e le più
robuste. Le corde erano grosse come spaghi e le barre lunghe come
ferri da calza: così intrecciai tre corde per farne una più resistente
e lo stesso feci con i ferri che attorcigliai tre alla volta, piegando
la cima ad uncino. Legati cinquanta uncini ad altrettante corde,
tornai alla costa dove, toltami la giubba, le calze e le scarpe,
camminai in acqua per mezz'ora, col solo giubbetto di pelle, prima di
trovarmi in alto mare. Guadai più in fretta che potevo e quando fui
nel mezzo nuotai per una trentina di metri, finché toccai di nuovo. In
meno di mezz'ora ero arrivato alla flotta.
I nemici furono così spaventati nel vedermi, che si gettarono tutti
quanti fuori delle navi nuotando verso la riva, dove si era radunata
una folla di non meno di trentamila anime. Allora tirai fuori i miei
arnesi e, infilato un uncino al buco di prua di ogni vascello, legai
le corde tutte insieme all'estremità. Mentre ero impegnato in questa
faccenda, il nemico mi scagliò addosso qualche migliaio di frecce,
molte delle quali mi colpirono il volto e le mani, dandomi un fastidio
dannato con il loro bruciore intollerabile e rallentando l'operazione.
Ma ero preoccupato soprattutto per i miei occhi di cui rischiavo la
perdita, se non mi fosse venuta improvvisamente un'idea. Tra le altre
cosucce di necessità quotidiana, portavo in una tasca segreta,
sfuggita agli ispettori imperiali, come ho già detto sopra, un paio di
occhiali. Li tirai fuori; poi, inforcatili il più saldamente
possibile, potei continuare arditamente il mio lavoro a dispetto delle
frecce nemiche, molte delle quali colpivano le lenti senza altro danno
che farle saltellare sul naso. Avevo ormai finito di agganciare gli
uncini, per cui, afferrato in mano il groppo di corde, cominciai a
tirare. Non una nave si muoveva, perché erano tutte saldamente
ancorate, e così la parte più temeraria dell'impresa era tutta da
fare. Fui costretto a lasciare la corda con gli ami innescati alle
prue delle navi e mi misi a tagliare con risolutezza le corde delle
ancore per mezzo di un temperino, buscandomi più di duecento frecce
sul volto e sulle mani. Riafferrai la parte annodata con tutte le
corde e mi tirai dietro agevolmente una cinquantina delle più grandi
navi da guerra nemiche.
Quelli di Blefuscu, che non avevano la più pallida idea di quello che
avrei fatto, per un po' rimasero sbalorditi. Mi avevano visto tagliare
gli ormeggi pensando che volessi soltanto mandare le navi alla deriva,
o farle sbattere una contro l'altra, ma quando videro l'intera loro
flotta sfilare in perfetto ordine dietro di me, emisero un ululato di
disperazione impossibile da descrivere o da concepire. Quando fui
fuori tiro, mi fermai un po' per estrarre le frecce che mi pendevano
ancora dal volto e dalle mani e per strofinarmi con quell'unguento che
mi avevano dato il giorno del mio arrivo, come già sapete. Poi mi
tolsi gli occhiali e, aspettato per un'ora circa l'arrivo della bassa
marea, guadai il canale col mio traino, arrivando sano e salvo al
porto reale di Lilliput.
L'imperatore, in compagnia della corte, aspettava in piedi sulla
spiaggia la soluzione di questa grande impresa. Vide venire avanti le
navi in ampio schieramento come una mezzaluna, ma non me, che ero
immerso nell'acqua fino al petto. Quando fui in mezzo al canale
l'angoscia della corte si fece ancora più cupa, perché l'acqua mi
arrivava al collo e all'imperatore non rimaneva che credermi in fondo
al mare e vedere nella sovrastante flotta intenzioni ostili. Ma presto
si ripresero tutti quanti dalla paura, perché il fondale gradualmente
saliva e in breve tempo fui a portata di voce. Allora, alzando in alto
il groppo di corde a cui erano legate le navi che mi portavo a
rimorchio, gridai a gran voce: "Evviva il potente imperatore di
Lilliput!". Questo grande monarca mi accolse sulla riva con tutti gli
elogi possibili e immaginabili e mi nominò "nardac" all'istante, che è
la maggior onorificenza che si conferisce in quel paese.
Sua Maestà avrebbe voluto che trovassi il modo di trasportare nel suo
porto tutto quanto restava della flotta nemica. E' così smisurata
l'ambizione dei regnanti, che lui pensava addirittura di ridurre
l'intero impero di Blefuscu a provincia e di affidarne il governo ad
un viceré, di sterminare gli esuli Puntalarga e di costringere quel
popolo a rompere le uova dalla punta stretta: allora sarebbe diventato
l'unico monarca del mondo intero. Feci ogni sforzo per dissuaderlo da
questo disegno, portando ragioni squisitamente politiche e di
giustizia, dichiarando infine energicamente che non mi sarei mai
prestato a ridurre in schiavitù un popolo libero e coraggioso; tanto è
vero che, quando la faccenda venne discussa in consiglio, i ministri
più saggi si schierarono dalla mia parte.
Questa mia esplicita, coraggiosa dichiarazione era talmente
contrastante con i disegni politici di Sua Maestà che non me l'avrebbe
mai perdonata; ne parlò infatti, in maniera assai subdola, in
consiglio, durante il quale mi hanno riferito che alcuni dei più saggi
si dimostrarono, con il loro silenzio, solidali con la mia
affermazione; mentre altri, che mi erano rimasti sempre ostili, non si
astennero certo dal pronunciare giudizi che, in maniera indiretta,
alludevano a me. Da quel momento nacque un'intesa segreta fra Sua
Maestà e un gruppo di ministri contro di me, intesa che si rivelò di
lì a due mesi e fu sul punto di causare la mia rovina. Tanto
insignificanti sono ritenuti i servigi resi ai regnanti, quando
vengono contrapposti al rifiuto di compiacere alle loro passioni!
Tre settimane dopo la mia impresa clamorosa, arrivò da Blefuscu una
solenne missione diplomatica col compito di presentare umili offerte
di pace; questa infatti venne ratificata in breve tempo a condizioni
vantaggiosissime per il nostro imperatore. Non starò certo a
importunare il lettore con il resoconto di questa ambasceria; basterà
dire che era composta di sei ambasciatori con un seguito di circa
cinquecento persone e che fecero un ingresso maestoso, degno della
grandezza del loro monarca e dell'importanza della missione. Quando si
furono concluse le trattative di pace, per le quali mi ero adoperato
favorevolmente con tutto il peso che avevo, o che pensavo ancora di
avere a corte, i plenipotenziari di Blefuscu, ai quali era stato
riferito in segreto quanto li avevo aiutati, chiesero formalmente di
farmi visita. Cominciarono con il complimentarsi per il mio lavoro e
per la mia generosità, poi mi invitarono nel loro paese in nome del
loro imperatore e infine mi chiesero di dare loro qualche saggio della
mia forza sovrumana, di cui avevano sentito dire cose incredibili. Li
accontentai subito, ma non voglio annoiare il lettore entrando nei
particolari.
Dopo avere intrattenuto per qualche tempo i plenipotenziari, con loro
infinito piacere e con non minore meraviglia, li pregai di voler
presentare i miei più umili rispetti all'imperatore, la fama delle cui
virtù aveva destato tanta ammirazione in tutto il mondo e alla cui
augusta persona avrei reso omaggio prima di ritornare in patria. Fu
così che, la prima volta che mi capitò di recarmi dal nostro Sovrano,
gli chiesi il permesso di fare visita al monarca di Blefuscu. Lui me
lo concesse, anche se, come potei constastare senza ombra di dubbio,
con gelida cortesia. Non riuscii a capire la ragione di tale
atteggiamento, finché una certa persona mi sussurrò all'orecchio che
Flimnap e Bolgolam avevano presentato quell'incontro fra gli
ambasciatori e me come un segno di infedeltà. Eppure mai nel mio cuore
c'era stato posto per un simile sentimento e fu questa la prima volta
che cominciai a farmi un'opinione dubbia di corti e di ministri.
Va sottolineato il fatto che questi ambasciatori mi parlarono per
mezzo di un interprete, poiché le lingue di questi due stati
differiscono l'una dall'altra non meno di due lingue europee, senza
contare poi che ognuno dei due paesi va fiero delle sue origini
antiche, della bellezza e della espressività della propria lingua, con
ostentato disprezzo per quella del vicino. Il nostro imperatore,
comunque, avvalendosi della supremazia acquisita con la cattura delle
navi, li costrinse a presentare le credenziali adottando il
lillipuziano come lingua diplomatica ufficiale. Devo inoltre osservare
che, sia il continuo traffico commerciale fra i due regni, sia il
flusso ininterrotto e reciproco di esiliati dall'uno o dall'altro
paese, sia l'abitudine di entrambe le nazioni di mandare i rampolli di
buona famiglia nel paese accanto per vedere il mondo e imparare usi e
costumi degli uomini, facevano sì che quasi tutte le persone di un
certo grado, oltre alla totalità dei mercanti e dei marinai, sapessero
sostenere una conversazione in entrambe le lingue. Ebbi l'opportunità
di accorgermene quando, alcune settimane dopo, mi recai a fare visita
all'imperatore di Blefuscu, un atto che, al colmo delle sciagure,
provocate dalla malvagità dei miei nemici, fu per me una gran fortuna,
come riferirò a suo tempo.
Il lettore si ricorda forse che quando firmai quei famosi articoli
grazie ai quali potei ottenere la libertà, ce n'erano alcuni che mi
dispiacquero parecchio perché li ritenevo troppo umilianti, ma davanti
ai quali mi ero dovuto sottomettere a causa della situazione
intollerabile. Diventato ormai un "nardac", che è la più alta carica
in quell'impero, quelle limitazioni sembravano degradanti per la mia
dignità; tanto è vero che lo stesso imperatore, per amore di verità,
non ne aveva fatto più menzione. Eppure fu di lì a poco che mi capitò
l'occasione di rendere a Sua Maestà quello che, almeno allora, ritenni
un servigio straordinario. A mezzanotte fui svegliato di soprassalto
dalle urla di centinaia di persone che si accalcavano alla porta;
frastornato e preso da un vago senso di terrore, li sentivo ripetere
di continuo la parola "burglum", finché alcuni funzionari di corte,
apertosi un varco fra la folla, mi scongiurarono di recarmi a palazzo,
dove gli appartamenti della regina erano in preda alle fiamme, causate
dalla sbadataggine di una damigella addormentatasi mentre leggeva un
romanzo.
Mi alzai in un baleno; poi, essendo già stato impartito l'ordine di
sgomberare la strada, per altro illuminata dal chiarore di una notte
di luna, riuscii a correre a Palazzo senza calpestare nessuno. Avevano
già appoggiato le scale ai muri ed erano tutti muniti di secchi,
grossi come ditali, coi quali quei poveretti si ingegnavano come
potevano a rifornirmi di acqua che, oltretutto, si trovava ad una
certa distanza: ma le fiamme erano così impetuose che i loro sforzi
servivano a ben poco. Avrei potuto soffocarle con la mia giacca, ma
nella fretta l'avevo lasciata a casa ed ero uscito con il semplice
panciotto di cuoio. Sembrava un caso disperato e senza dubbio il
palazzo sarebbe stato divorato dalle fiamme fino alle fondamenta, se
la presenza di spirito, che è raramente il mio forte, non mi avesse
suggerito un'idea luminosa. La sera prima avevo bevuto una certa
quantità di quel vino deliziosissimo chiamato "Glimigrim", dotato di
proprietà diuretiche (e che i blefuscudiani chiamano "Flunec", sebbene
il nostro sia migliore). Fortunatamente non mi ero liberato nemmeno di
una goccia e poi, sia per il calore delle fiamme, sia per il gran
daffare nel domarle, avevo addosso un tale stimolo di urinare, che lo
feci con tanta abbondanza e con getti così precisi, da estinguere il
fuoco in tre minuti. Il resto di quel nobile palazzo, la cui erezione
era costata tanti anni di lavoro, rimase così indenne.
Era ormai l'alba e me ne tornai a casa, senza attendere per
congratularmi con l'imperatore, perché, sebbene avessi compiuto un
servigio importantissimo, non ero sicuro di come Sua Maestà se la
sarebbe presa per il modo in cui l'avevo eseguito. Fra le leggi
statutarie del regno si fa infatti assoluto divieto ad ogni persona,
di qualsiasi ceto, di far acqua entro i recinti del palazzo. Mi dette
un certo sollievo un messaggio di Sua Maestà nel quale mi assicurava
che avrebbe ordinato all'alta corte di giustizia di concedermi un
condono formale; ma in realtà non riuscii mai ad ottenerlo; anzi mi fu
detto in segreto che l'imperatrice, inorridita per il mio gesto, si
era ritirata dall'altro lato della corte, decisa a lasciar andare in
rovina quei quartieri, e che in presenza dei suoi intimi non
nascondeva propositi di vendetta.






6 - CULTURA, LEGGI E COSTUMI DEGLI ABITANTI Dl LILLIPUT. L'EDUCAZIONE
DEI FIGLI. LE ABITUDINI DELL'AUTORE IN QUELLA TERRA. COME RIABILITO'
UNA GRANDE DAMA.

Sebbene voglia stendere un trattato a parte per descrivere questo
impero, tuttavia mi fa piacere nel frattempo darne un'idea generale al
lettore. Tutti gli animali, le piante e gli alberi di questa terra
sono in proporzione con l'altezza degli uomini che è, come abbiamo
visto, meno di quindici centimetri; così per esempio i cavalli e i
buoi più alti vanno da dieci a quindici centimetri, le pecore sono
alte quattro centimetri, o giù di lì, le oche son come passeri e via
di seguito nella scala discendente, fino ad arrivare agli esseri più
piccoli che erano quasi invisibili ai miei occhi. La natura aveva del
pari dotato la vista dei lillipuziani in conformità del loro mondo;
questa era infatti acutissima ma incapace di vedere lontano. Tanto per
dare un'idea della loro vista a distanza ravvicinata, ricorderò di
essermi beato a vedere un cuoco farcire un'allodola più piccola di una
mosca e una ragazzina cucire con un ago invisibile e un altrettanto
invisibile filo. Gli alberi più alti, che si trovano nel grande parco
reale, raggiungono i due metri e riuscivo a malapena a toccarne la
cima. Vengono poi, in proporzione, tutte le altre piante, che lascio
all'immaginazione del lettore.
Non ho granché da dire per il momento della loro cultura, che aveva
conosciuto per anni una grande fioritura in tutti i settori. Ma la
loro scrittura è certamente singolare poiché non corre da sinistra a
destra come per gli europei, né da destra a sinistra come per gli
arabi, né dall'alto al basso come per i cinesi, né dal basso verso
l'alto come per i cascagi, bensì di traverso, da un angolo all'altro
del foglio, come fanno le signore inglesi.
Seppelliscono i loro morti a testa all'ingiù perché credono che dopo
dodicimila lune risorgeranno e durante quel periodo la terra, che loro
ritengono piatta, si sarà rovesciata completamente, così che quelli,
al momento della resurrezione dei corpi, saranno belli e pronti su due
piedi. I saggi ammettono l'assurdità di questa dottrina, eppure si
continua a praticarla per compiacere alle credenze del volgo. Certe
leggi e certi costumi di questo impero sono davvero singolari, tanto
che sarei tentato di giustificarle, se non facessero a pugni con
quelle del mio paese. C'è solo da sperare che vengano rispettate con
la stessa solerzia. La prima, alla quale mi riferisco, riguarda le
spie: ogni delitto contro lo stato viene punito con estrema severità;
tuttavia, se l'accusato dimostra durante il processo la sua innocenza,
l'accusatore viene immediatamente condannato ad una morte infamante,
mentre le sue terre e i suoi beni costituiranno una ricompensa quattro
volte maggiore per la perdita di tempo, per il pericolo corso, per il
rigore della prigione, per le spese di difesa sostenute dall'accusato.
Se i beni del delatore sono insufficienti, supplirà la Corona.
L'imperatore in persona gli conferirà in pubblico un segno della sua
stima e la sua innocenza verrà proclamata dai banditori nei rioni
della città.
Considerano la frode un delitto più grave del furto e succede
raramente che non venga punita con la morte; infatti loro ritengono
che, se la cura e la vigilanza esercitate da un comune cervello
possono preservare i beni personali dalle unghie dei ladri, non ci
sono chiavistelli con i quali l'uomo comune riuscirà a difendersi da
un'astuzia diabolica. Inoltre, poiché è necessario un rapporto
continuo di compravendita a credito, là dove si permettesse o si
indulgesse all'esercizio della frode, o non ci fossero leggi per
punirla, l'onesto ci rimetterebbe sempre le penne a tutto vantaggio
del manigoldo. Mi ricordo che, quando tentai di intercedere presso il
re in favore di uno sciagurato che si era appropriato di una somma di
denaro destinata al suo padrone, involandosi con essa, avendogli fatto
osservare, allo scopo di attenuare la colpa, che in fondo si trattava
solo di abuso di fiducia, sembrò orrendo a Sua Maestà che portassi a
difesa di quell'uomo la peggiore delle aggravanti; a me rimase ben
poco da replicare, oltre il luogo comune che dice "paese che vai,
usanze che trovi", rosso di vergogna come ero.
Ricompense e punizioni costituiscono l'asse intorno al quale gira la
ruota dello stato, eppure non mi è capitato mai di vedere questa
massima messa in pratica come a Lilliput. Chiunque è in grado di
esibire prove sufficienti di settantatre lune filate di rispetto alle
leggi statali, ha diritto a privilegi, variabili a seconda della
condizione sociale, insieme ad una certa somma di denaro da prelevare
da un fondo destinato a questo fine; contemporaneamente gli viene
conferito il titolo di "Snilpall" o "Legale" da aggiungere al suo
nome, senza che tuttavia possa essere trasmesso ai figli. Sembrò loro
un limite gravissimo della nostra legislazione, il fatto che da noi le
leggi infliggono soltanto pene. Per questo l'immagine della giustizia
che viene raffigurata nei loro tribunali ha sei occhi, due davanti,
due di dietro ed uno per lato, a significare la sua estrema
circospezione, ed inoltre una borsa di monete d'oro, aperta, nella
mano destra e una spada nel fodero nella sinistra, per dimostrare che
essa è più incline alla ricompensa che alla punizione.
Quando scelgono il personale per ogni tipo di impiego, considerano la
moralità dell'individuo molto di più della sua abilità; e poiché il
governo è necessario all'umanità, sono convinti che un comune cervello
sia idoneo ad un compito come ad un altro, e che la Provvidenza non si
è sognata mai di fare del governo un'attività misteriosa,
comprensibile ad un ristretto numero di intelligenze superiori, di cui
non ne nascono più di due o tre in un secolo. Essi invece pensano che
tutti sono dotati di sincerità, giustizia, temperanza e simili; virtù,
queste, la cui osservanza, unita all'esperienza e alle buone
intenzioni, saranno sufficienti a rendere idoneo un individuo al
servizio del suo paese, eccetto quei casi nei quali sia richiesto uno
specifico corso di studi. Ma non c'è dote intellettuale straordinaria
che possa rimpiazzare la mancanza di virtù etiche, e gli impieghi non
possono essere affidati alle mani di simili individui. In ogni caso
gli errori commessi per ignoranza, in assenza di cattiva intenzione,
non saranno mai tanto funesti per il bene pubblico come quelli
commessi da uno, disposto per natura alla corruzione, che in più
sappia manovrare abilmente per difendere e moltiplicare i suoi
raggiri.
In modo simile si negano cariche pubbliche a quanti non credono alla
Divina Provvidenza; ed infatti, visto che i sovrani si ritengono
inviati della Provvidenza, non c'è cosa più assurda per i lillipuziani
di un principe che affida incarichi a persone che disconoscono
quell'autorità in nome della quale egli agisce.
Nel dare un sunto di queste e di altre leggi che seguiranno, sappia
bene il lettore che mi riferisco alle istituzioni primitive di quel
popolo e non allo scandalosissimo stato in cui si è ridotto, per la
natura degenerata dell'uomo. Per quanto concerne le vergognose
abitudini di acquistare cariche danzando sulla corda, o posti di
prestigio saltando sopra i bastoni o strisciandovi sotto, faccio
osservare al lettore che furono introdotte per la prima volta dal
nonno dell'attuale sovrano e che si sono sviluppate fino all'attuale
rigoglio grazie al progressivo aumento delle lotte faziose.
L'ingratitudine è per loro un delitto capitale, così come si legge che
sia stato anche in altri paesi. Loro infatti ragionano in questo modo:
se uno rende il male a chi gli ha fatto del bene, come potrà il resto
del genere umano, che non ha fatto nulla, considerarlo un fratello?
Per questo un simile uomo non è degno di vivere.
Le loro idee riguardi ai doveri dei genitori e dei figli sono
l'opposto delle nostre. Dato che l'unione dei sessi si fonda sulla
grande legge della natura per propagare e continuare la specie, i
lillipuziani uomini e donne vanno insieme né più né meno che come gli
altri animali, seguendo l'istinto della concupiscenza; l'affetto per i
figli deriva quindi dallo stesso principio naturale. Per questo non
sfiora loro il cervello che un figlio debba sentirsi in obbligo verso
il padre per averlo generato o verso la madre per averlo messo al
mondo; la qual cosa, considerate le miserie della vita, non è, in sé,
né un beneficio né un atto di volontà dei genitori, in tutt'altre
faccende affaccendati durante i loro incontri amorosi. Per questi e
simili ragionamenti, è loro opinione che i genitori siano gli ultimi
fra tutti a meritare la fiducia di una buona educazione dei figli. In
ogni città hanno nidi d'infanzia pubblici, dove tutti i genitori, ad
eccezione dei contadini, devono inviare i figli di entrambi i sessi
all'età di venti lune, quando si pensa che abbiano acquisito una
qualche propensione all'obbedienza, per essere allevati ed educati. Ci
sono scuole di vario genere, adatte alle diverse condizioni dei due
sessi, con insegnanti che addestrano i ragazzi a quel tipo di vita che
si confà ai loro genitori, sviluppando nel contempo le loro capacità e
inclinazioni. Darò prima qualche notizia degli asili per maschi e
quindi di quelli per femmine.
Quelli per maschi di famiglie nobili o elevate sono dotati di maestri
saggi e severi affiancati da uno stuolo di assistenti. Cibo e
vestiario sono semplici e privi di ricercatezza. Gli allievi vengono
allevati nel rispetto dei principi dell'onore, della giustizia, del
coraggio, della modestia, della clemenza, della religione e dell'amore
per la propria terra; inoltre si affida loro qualche cosa da fare in
ogni ora del giorno, ad eccezione di quando mangiano e dormono. Questi
sono d'altra parte intervalli assai brevi, ai quali andranno aggiunte
due ore di svago, impiegate nel compiere esercizi fisici. Fino all'età
di quattro anni ci sono degli uomini a vestirli, dopo di che, malgrado
la loro elevata condizione sociale, devono farlo da soli; le donne che
svolgono il loro servizio nelle scuole, tutte sui cinquanta anni,
compiono soltanto i servizi più umili. Ai bambini non è concesso di
conversare con la servitù e si divertono in gruppi più o meno
numerosi, sempre sotto gli occhi di un maestro o del suo assistente.
In questo modo si impedisce che ricevano le deleterie influenze del
vizio e della follia, alle quali sono sottoposti i nostri bambini. I
genitori possono far visita ai figli solo due volte all'anno e per non
più di un'ora; è loro concesso di baciarli solo all'arrivo e alla
partenza, mentre il maestro, presente a questi incontri, impedirà loro
di parlare sottovoce al bambino, di usare vezzeggiativi nei suoi
confronti, di portargli regali, giocattoli, dolciumi e roba simile.
La retta per il mantenimento e l'educazione dei figli è a carico dei
genitori e, se non viene pagata, se ne delega la riscossione agli
esattori imperiali.
Gli asili per i figli della classe media, di mercanti, commercianti e
artigiani sono organizzati, in proporzione, secondo lo stesso schema;
i ragazzi avviati a qualche mestiere, vanno a fare gli apprendisti
all'età di sette anni, mentre i figli dei notabili continuano a
studiare fino a quindici anni, età che corrisponde a ventuno da noi,
ma la vita di collegio si fa meno rigida durante gli ultimi tre anni.
Negli asili femminili le bambine di nobile famiglia vengono educate
come i maschi, con la sola differenza che vengono vestite da
inservienti del loro sesso, sempre al cospetto del maestro e del suo
assistente, finché non siano in grado di farlo da sole all'età di
cinque anni. Se qualcuna di queste inservienti cede alla tentazione di
raccontare alle bambine storie paurose o fiabesche, oppure certi
pettegolezzi che le cameriere comunemente divulgano, vengono frustate
in pubblico per tre volte, imprigionate per un anno e confinate vita
natural durante nelle più squallide contrade del paese. In questo modo
si insegna alle fanciulle, come ai maschi, a disprezzare la codardia e
la frivolezza e a non curarsi degli ornamenti della persona che non
rientrino nella normale decenza e pulizia. Non ho notato nessuna
differenza nella educazione dei due sessi, ad esclusione degli
esercizi fisici che, per le ragazze, sono meno pesanti e di alcune
nozioni di economia domestica impartite loro; riducendo sensibilmente
la cultura generale, la loro massima è infatti che, fra gente di
rango, una moglie deve essere sempre una saggia e piacevole compagna,
dal momento che la sua giovinezza non dura in eterno. Quando
raggiungono i dodici anni, che è l'età del matrimonio per loro,
tornano a casa, mentre ai vivissimi ringraziamenti dei genitori e dei
tutori, nei confronti degli insegnanti, si unisce il pianto dirotto
delle ragazze che danno l'addio alle compagne.
Negli asili per bambine di più umile rango si avviano le convittrici
ai lavori che appropriati al loro sesso e alla loro condizione. Quelle
che fanno le apprendiste, escono a sette anni, le altre restano fino a
undici.
Le famiglie modeste che tengono i figli in questi istituti, oltre alla
retta annuale che per loro è assai bassa, devono fornire al
dispensiere una piccola parte dei loro guadagni mensili come
sovvenzione al mantenimento della loro prole; per questo le spese dei
genitori sono limitate dalla legge. Infatti i lillipuziani ritengono
che non ci sia niente di più egoistico degli atti di quella gente che,
per soddisfare il proprio piacere, mette al mondo dei figli, lasciando
agli altri l'onere di mantenerli. Le persone di condizione elevata si
impegnano a destinare una certa somma ad ogni figlio, a seconda del
rango, e queste somme vengono sempre amministrate con grande senso di
economia e giudizio.
I contadini si tengono i figli a casa e siccome il loro compito è di
coltivare la terra, la loro educazione ha poca importanza per il bene
pubblico; i vecchi e i malati sono mantenuti in ospizio, ed infatti
l'accattonaggio è un'attività sconosciuta in questo paese.
A questo punto non dispiacerà forse, al curioso lettore, avere qualche
notizia riguardo le faccende domestiche e le abitudini da me seguite
durante il mio soggiorno di nove mesi e tredici giorni in questa
contrada. Spinto dalla necessità e dal bernoccolo per la meccanica, mi
costruii un tavolo ed una sedia abbastanza comodi con gli alberi più
grandi del parco reale. Duecento sarte vennero chiamate per
confezionarmi camicie, lenzuola e tovaglie, tutte del tipo di stoffa
più robusto e ruvido che fu possibile trovare. Malgrado ciò, furono
costrette a sovrapporne più strati, perché il tipo più pesante è molto
più sottile della nostra tela batista. La loro tela è alta sette o
otto centimetri e una pezza ha la lunghezza di un metro. Le sarte mi
presero le misure mentre stavo sdraiato per terra, l'una montandomi
sul collo e l'altra a mezza gamba, tirando i capi di una grossa fune,
mentre una terza ne misurava la lunghezza con un regolo di due
centimetri e mezzo. Poi fu loro sufficiente misurarmi la circonferenza
del pollice destro perché, in base ai loro calcoli matematici, il
doppio di questa corrisponde a quella del polso, e via di seguito per
quelle del collo e del torace. Poi, seguendo il modello della mia
vecchia camicia che distesi per terra, spianandola da ogni lato, mi
servirono a pennello. Furono impiegati anche trecento sarti per farmi
gli abiti, ma essi avevano un altro modo di prendere le misure. Mi
fecero mettere in ginocchio ed uno di loro, salito su di una scala che
mi arrivava al collo, lasciò cadere un filo a piombo dall'altezza del
colletto fino al suolo, calcolando in questo modo l'esatta lunghezza
della giacca; petto e braccia li misurai da solo. Quando furono
pronti, i miei abiti, la cui confezione venne eseguita in casa mia,
perché anche la più spaziosa delle loro dimore sarebbe stata
insufficiente a contenerli, sembravano uno di quei lavori di rattoppo
che fanno le nostre donne in Inghilterra, con l'unica differenza che
nel mio caso, le toppe erano tutte dello stesso colore.
Per prepararmi il pranzo c'erano trecento cuochi, alloggiati in comode
casette erette tutto intorno alla mia dimora, dove vivevano con le
loro famiglie, con il compito di prepararmi ognuno due piatti.
Prendevo in mano venti servitori e li posavo sulla tavola, mentre
altri cento aspettavano al suolo, alcuni con vassoi di carne, altri
con barilotti di vino e di liquori sulle spalle. I venti di sopra, ad
un mio cenno, issavano quella roba con un sistema di carrucole assai
ingegnoso, come noi solleviamo le brocche d'acqua dai pozzi. Un piatto
di carne costituiva per me un boccone e un barilotto di vino una buona
sorsata. Il loro montone non è buono il nostro, ma la carne di bue è
eccellente. Una volta mi diedero una lombata così grande, che dovetti
farla in tre pezzi, ma è un caso molto raro. I camerieri rimanevano a
bocca aperta vedendomi mangiare tutta quella roba, ossa comprese, come
da noi si fa con le allodole. In un boccone facevo fuori un'oca o un
tacchino e vi assicuro che i loro sono molto migliori dei nostri. Dei
volatili più piccoli ne infilavo venti o trenta sulla punta del mio
coltello.
Un giorno Sua Maestà, informato delle mie abitudini, volle avere il
piacere, come ebbe la compiacenza di chiamarlo, di pranzare con me,
insieme alla regale consorte e i principi reali d'ambo i sessi. Quando
vennero, li sistemai con i loro seggi regali sul tavolo, proprio di
fronte a me con le guardie al loro fianco. Era presente anche il gran
tesoriere Flimnap con la bacchetta bianca, ed ebbi modo di notare che
mi guardava con un che di astioso; ma lì per lì non gli diedi gran
peso, tutto preso a divorare il doppio di quello che ero solito fare,
per rendere onore alla mia amata patria e per riempire d'ammirazione
la corte. Ho ragione di credere che questa visita privata di Sua
Maestà desse a Flimnap l'occasione di mettermi in cattiva luce agli
occhi del suo signore. Quel ministro, in segreto, mi era stato sempre
ostile, sebbene apparentemente ostentasse nei miei confronti maniere
assai più cordiali di quanto il suo carattere scontroso gli
permettesse abitualmente di fare. Egli illustrò dunque a Sua Maestà le
condizioni grame in cui versavano le finanze e gli disse che si
trovava costretto ad emettere prestiti ad interesse altissimo, che le
cedole dello Stato non circolavano al di sotto del nove per cento, che
ero costato a Sua Maestà più di un milione e mezzo di "sprugs" (che
sono le loro monete auree più grosse, simili a pagliuzze) e che
insomma sarebbe stato consigliabile che Sua Maestà mi congedasse alla
prima occasione.
Sento il dovere a questo punto di salvare l'onore di una nobile dama
che, senza colpa alcuna, soffrì per causa mia. Il ministro del tesoro
si era messo in testa che sua moglie lo tradiva, istigato da qualche
mala lingua, secondo la quale lei si sarebbe pazzamente innamorata di
me. Anzi, per un certo tempo corse voce a corte che lei sarebbe venuta
in segreto a trovarmi. Ora tengo a dichiarare apertamente che questa è
un'infamia vergognosa, priva di ogni fondamento, tanto più che Sua
Grazia si degnò sempre di trattarmi con i segni innocenti della
liberalità e dell'amicizia. Ella venne certo a casa mia, ma sempre
pubblicamente e in compagnia di non meno di tre persone, fra le quali
sua sorella, la figlia e qualche amica, come del resto facevano altre
dame di corte. I miei stessi servitori possono inoltre testimoniare se
hanno mai visto una carrozza alla mia porta senza sapere chi ci fosse
dentro. In questi casi, dopo essere stato avvertito da un servitore,
era mia abitudine andare immediatamente alla porta; quindi, presentati
i miei omaggi, prendevo in mano la carrozza con due cavalli (se si
trattava un tiro a sei era cura del postiglione staccarne quattro) e
la sistemavo con attenzione sulla tavola, attorno alla quale avevo
sistemato una barriera mobile, alta quindici centimetri per prevenire
incidenti. Mi è capitato spesso di avere sulla tavola quattro carrozze
contemporaneamente, tutte piene di gente, verso le quali mi chinavo
dopo essermi seduto sulla mia sedia. Mentre mi intrattenevo con gli
occupanti di una carrozza, i cocchieri facevano girare le altre
intorno al tavolo. Ho passato così molti pomeriggi in piacevoli
conversazioni. Ma sfido il gran tesoriere e le sue due spie (di cui
dirò i nomi, accada quel che accada), Clustril e Drunlo, a dimostrare
che qualcuno sia venuto da me in incognito, eccezion fatta per il
segretario Reldresal il quale, come ho detto sopra, veniva in nome del
re. Non mi sarei tanto a lungo soffermato su questi particolari, se
non vi fosse coinvolta la reputazione di una nobile signora, per non
dire nulla della mia, sebbene allora mi fregiassi del titolo di
"nardac", che il tesoriere non aveva.
Tutti sanno infatti che lui è un "glumglum", un titolo più basso
dell'altro, come in Inghilterra un marchese sta ad un duca, quantunque
debba riconoscere che lui aveva la precedenza su di me in virtù della
sua carica. Queste calunnie, di cui ebbi notizia qualche tempo dopo,
per un caso banale sul quale non occorre soffermarsi, fecero sì che il
tesoriere si comportasse assai male con la moglie e ancora peggio con
me. Quando alla fine si accorse dell'errore, si riconciliò con la
consorte, ma con me i ponti erano ormai rotti e dovetti constatare
quanto la stessa simpatia dell'imperatore nei miei confronti
diminuisse rapidamente, tanto era influenzato da quel suo favorito.





7 - INFORMATO CHE SI TESSE UNA TRAMA PER ACCUSARLO DI ALTO TRADIMENTO,
L'AUTORE FUGGE A BLEFUSCU. SUE ACCOGLIENZE IN QUELLO STATO.

Prima di raccontare il modo in cui abbandonai questo regno, sarà
necessario informare il lettore di un intrigo che per due mesi fu
ordito contro di me.
Fino ad allora non avevo avuto nessuna consuetudine con le corti, alle
quali mi era stato impossibile accedere a causa delle mie modeste
condizioni. Avevo tuttavia letto e sentito parlare abbastanza
dell'indole dei prìncipi e dei ministri, ma non mi sarei mai aspettato
di scoprirne gli effetti più deleteri in un paese così lontano e per
di più governato, come credevo, secondo princìpi opposti a quelli
usati in Europa.
Mi stavo preparando ad andare a Blefuscu per rendere visita
all'imperatore, quando un dignitario di corte, al quale avevo reso
buoni servigi (al momento in cui era caduto in disgrazia presso Sua
Maestà), venne a trovarmi di notte in una lettiga chiusa, chiedendomi
udienza senza tuttavia mandare a dire il suo nome. Congedati i lacchè,
infilai la portantina con dentro il dignitario nel taschino del
panciotto; poi, dopo avere detto ad un servo fidato che ero indisposto
e che mi sarei coricato, sbarrai la porta di casa e, come sempre,
posai la portantina sul tavolo, sedendomi accanto. Dopo i convenevoli,
accortomi che sua signoria era molto turbato gliene chiesi la ragione;
lui mi pregò di ascoltarlo pazientemente, perché c'era di mezzo la mia
reputazione e la mia vita.
Queste che seguono sono le parole che annotai diligentemente subito
dopo la sua partenza: "Devi sapere che il Consiglio della Corona è
stato convocato più volte a causa tua e sempre in segreto, e che due
giorni or sono Sua Maestà ha preso una ferma decisione. Ti sarai
accorto che Skyris Bolgolam ("galbet" o alto ammiraglio) è stato, fino
dal tuo arrivo, tuo mortale nemico. Non conosco l'origine di questo
odio, ma è certo che esso, dopo la strepitosa vittoria su Blefuscu,
che ha oscurato la sua fama di ammiraglio, è aumentato enormemente.
Sua eminenza l'ammiraglio, in combutta con il tesoriere Flimnap, la
cui avversione nei tuoi confronti è nota per la faccenda della moglie,
con il generale Limtoc, il ciambellano Lalcon e il giudice supremo
Balmuff hanno preparato i capi di accusa contro la tua persona, per
tradimento ed altri delitti che comportano la pena capitale."
Questo preambolo mi mise in tale stato di agitazione, cosciente come
ero dei miei meriti e della mia innocenza, che fui più volte sul punto
di interromperlo, ma lui mi ingiunse di fare silenzio, proseguendo con
queste parole: "A rischio della vita e ricordando i favori che mi hai
reso, mi sono procurato informazioni sul processo che si vuole
istruire a tuo carico, insieme a questa copia dove sono riportati i
capi di accusa nei tuoi confronti:

CAPI D'ACCUSA CONTRO QUINBUS FLESTRIN (l'Uomo Montagna).
Articolo 1.
Premesso che, a norma dello statuto di Sua Maestà Imperiale, Calin
Deffar Plune, chiunque sia sorpreso a fare acqua entro i recinti del
palazzo reale è passibile dell'imputazione di alto tradimento, ciò
malgrado il citato Quinbus Flestrin, in flagrante violazione della
legge, col pretesto di spegnere le fiamme nell'appartamento della
amatissima consorte imperiale di Sua Maestà, ha malevolmente,
proditoriamente, diabolicamente soffocato detto incendio scoppiato nel
sopracitato appartamento, sito all'interno dei recinti del menzionato
Palazzo Reale, per mezzo di getti di urina, violando le norme
statutarie previste nel caso, eccetera, eccetera, in violazione del
decreto, eccetera, eccetera.
Articolo 2.
Il sopradetto Quinbus Flestrin, dopo che ebbe portato nel porto reale
la flotta imperiale di Blefuscu, avendo ricevuto l'ordine da Sua
Maestà di catturare tutte le altre navi rimanenti a Blefuscu e di
degradare quell'impero al rango di Provincia, per essere governato da
un nostro Viceré, nonché di distruggere e mettere a morte non solo i
Puntalarga esiliati ma quanti in quell'impero si rifiutassero di
abiurare immediatamente alla eresia puntalarghista, egli, il
sopracitato Flestrin, comportandosi da infame traditore nei confronti
della benefica e serena Maestà Imperiale, presentò istanza di essere
esonerato da tale servigio, adducendo il pretesto che gli ripugnava
forzare le coscienze o distruggere la libertà e la vita di un popolo
innocente.
Articolo 3.
Nel quale si ricorda che, mentre erano arrivati gli ambasciatori della
corte di Blefuscu per implorare da Sua Maestà la pace, egli, il
sopradetto Flestrin, da vero traditore ribelle, aiutò, appoggiò, offrì
ospitalità e ricreazioni ai sopra citati ambasciatori, sebbene fosse a
piena conoscenza che costoro erano gli emissari di un principe che,
fino a poco tempo prima, era stato nemico dichiarato di Sua Maestà
Imperiale e in guerra con Lui.
Articolo 4.
Nel quale si rileva che il detto Quinbus Flestrin, contravvenendo ai
doveri di un suddito fedele, è in procinto di recarsi alla Corte
dell'Imperatore di Blefuscu, quantunque provvisto unicamente di un
assenso verbale da parte della nostra Maestà Imperiale; e in nome di
detto permesso, intende intraprendere tale viaggio con animo falso e
proditorio, al fine di recare aiuto, sostegno e incitamenti
all'imperatore di Blefuscu, fino a poco tempo fa nemico e in guerra
aperta con la menzionata Maestà Imperiale.

"Devo dire che ci sono anche altri articoli, ma questi, di cui ti
ho letto un estratto, sono i più importanti. Certo, si deve
riconoscere che durante i numerosi dibattiti per metterti in stato di
accusa, Sua Maestà ha più volte dimostrato la sua volontà di clemenza,
ricordando i servigi che gli hai prestato e cercando di attenuare la
gravità delle imputazioni. Ma l'ammiraglio e il tesoriere hanno
insistito che tu sia condannato ad una morte atroce e infamante,
proponendo di appiccare il fuoco alla tua dimora durante la notte,
sotto la vigilanza del generale e di ventimila fanti armati di frecce
avvelenate e pronti a scagliartele sul volto e sulle mani. Si voleva
ordinare in tutta segretezza ai tuoi inservienti di cospargere il
letto e la biancheria di succhi velenosi, capaci di decomporre la
carne e di farti morire fra atroci sofferenze. Il generale stesso
aderì a questa proposta e per un certo tempo si costituì una salda
maggioranza a te sfavorevole. Ma Sua Maestà era deciso, nei limiti del
possibile, a risparmiarti la vita e riuscì ad avere dalla sua parte il
ciambellano di corte. Fu a questo punto che l'imperatore volle sentire
l'opinione di Reldresal, primo segretario agli interni, che si è
sempre dimostrato tuo amico. Le sue parole confermarono l'idea che ti
sei fatta di questa persona. Lui riconobbe la gravità delle accuse, ma
ricordò nello stesso tempo che si doveva ricorrere pur sempre alla
clemenza, la miglior virtù di un principe e della quale Sua Maestà
poteva di diritto andare fiero. Disse che era a tutti nota l'amicizia
che lo legava a te da tanto tempo e che di conseguenza le sue opinioni
potevano sembrare partigiane a quel consesso, tuttavia, in ossequio a
quanto gli era stato richiesto, avrebbe espresso in piena libertà le
sue idee. Disse allora che Sua Maestà, in riconoscenza dei buoni
servigi resi e in ottemperanza alla sua natura misericordiosa, avrebbe
dovuto risparmiarti la vita, limitandosi a accecarti entrambi gli
occhi. Con questa risoluzione egli umilmente credeva che si potesse in
qualche modo fare giustizia, mentre tutto il popolo avrebbe applaudito
quell'atto di clemenza imperiale, e con esso la generosità e la
giustizia di coloro che hanno l'onore di essere suoi consiglieri.
Aggiunse che la perdita della vista non avrebbe in alcun modo ridotta
la tua forza, grazie alla quale sei tanto utile a Sua Maestà poiché
anzi la cecità aumenta il coraggio, in quanto ci impedisce di vedere i
pericoli, se è vero che proprio il timore per i tuoi occhi era stato
il maggiore ostacolo nel portar via la flotta nemica e che, infine,
sarebbe stato per te sufficiente vedere attraverso gli occhi dei
ministri, così come fanno anche i monarchi più potenti.
"Questa proposta incontrò la più intransigente disapprovazione del
consiglio. L'ammiraglio Bolgolam non poté trattenere la sua ira e,
saltando in piedi su tutte le furie, disse che non si capacitava come
un segretario agli interni osasse proporre di salvare la vita di un
traditore; che i servigi che tu avevi reso erano, proprio per la
ragion di stato, la peggiore aggravante ai tuoi delitti; che la tua
capacità di spegnere incendi orinandovi sopra, come avevi fatto con
l'appartamento della regina (azione che, ricordò con orrore, avrebbe
potuto, in un'altra occasione, provocare l'inondazione del Palazzo;
che così come, grazie alla tua forza, avevi potuto trascinare fin qui
la flotta nemica, altrettanto bene avresti potuto riportarla al nemico
al primo dissapore che tu avessi avuto con noi; che infine aveva le
sue buone ragioni di crederti, in fondo al cuore, un Puntalarga e
poiché il tradimento cova nel cuore prima di manifestarsi, in
conseguenza di ciò ti accusava di tradimento, insistendo che tu fossi
messo a morte.
"Della stessa opinione si disse il gran tesoriere. Mise in luce in
quali misere condizioni si fosse ridotto l'erario, incapace ormai di
fare fronte al tuo mantenimento, sostenendo inoltre che la proposta,
avanzata dal segretario agli interni, di cavarti gli occhi, non solo
non costituiva un rimedio contro il danno, ma avrebbe contribuito ad
accrescerlo. Ti sarebbe infatti successo come a certi tipi di uccelli
che, una volta accecati, mangiano il doppio ingrassando rapidamente.
Concluse dicendo che Sua Maestà e il Consiglio, tuoi giudici naturali,
erano fermamente convinti della tua colpevolezza, di per sé ragione
sufficiente per condannarti alla pena capitale, anche senza le prove
formali richieste dalla lettera della legge.
"Ma Sua Maestà Imperiale, nettamente contrario alla pena di morte, si
compiacque graziosamente di osservare che, se il Consiglio riteneva la
perdita della vista una punizione troppo lieve, si sarebbe potuta
aggiungere ad essa qualche altra mutilazione. A questo punto il tuo
amico, segretario agli interni, dopo aver chiesto di essere ascoltato,
per replicare a quanto aveva sostenuto il tesoriere circa le
difficoltà incontrate dall'erario per mantenerti, disse che Sua
Eccellenza, che era il solo a disporre delle rendite imperiali,
avrebbe potuto ovviare facilmente a questo inconveniente tagliandoti
gradualmente i viveri; grazie a questo espediente ti saresti
infiacchito rapidamente, avresti perso l'appetito, consumandoti in
pochi mesi dopo di che il puzzo della tua carcassa non avrebbe certo
costituito un pericolo, ridotta come sarebbe stata della metà. E poi,
subito dopo la tua morte, cinque o seimila sudditi avrebbero dovuto
spolparti le ossa in fretta e furia e seppellire la carne nelle
contrade più remote del regno per prevenire epidemie, mentre il tuo
scheletro sarebbe rimasto come un monumento per l'ammirazione dei
posteri.
"Fu così che si giunse ad un compromesso per l'amicizia del
segretario. Si stabilì dunque di tenere segreto il progetto di farti
morire d'inedia, mentre venne verbalizzata la decisione di infliggerti
l'accecamento. A questo nessuno si oppose ad eccezione dell'ammiraglio
Bolgolam il quale, istigato dalla regina, di cui era un favorito,
continuò ad insistere sulla pena di morte. La regina, infatti, non
aveva mai smesso di odiarti dopo che tu spegnesti l'incendio
nell'infamante ed illegale maniera che sai.
"Entro tre giorni il tuo amico segretario verrà a leggerti i capi
d'accusa e a dimostrarti la grande clemenza e la simpatia di Sua
Maestà, grazie alla quale ti si condanna solamente alla perdita degli
occhi; pena, questa, alla quale Sua Maestà è sicuro che ti sottoporrai
con animo grato, mentre venti chirurghi reali avranno cura che
l'operazione, la quale consiste nello scagliarti acuminatissime frecce
nei globi oculari, mentre te ne starai disteso sul pavimento, venga
eseguita secondo le regole.
"Lascio a te prendere le misure più opportune, mentre io, per non
destare sospetti, devo svignarmela in gran segreto, come sono venuto."
Uscita sua Signoria, rimasi solo con mille dubbi e incertezze sul da
farsi. Secondo un'abitudine introdotta dall'attuale regnante e dal suo
ministero (che non trovava riscontro, come mi fu detto, nelle
procedure seguite nei tempi antichi), dopo che la Corte aveva
decretato un'esecuzione crudele, vuoi per appagare l'ira regale, o la
malvagità di qualche favorito, l'imperatore in persona teneva un
discorso al consiglio riunito in seduta plenaria, nel quale esprimeva
la sua grande clemenza e la sua generosità, come doti conosciute e
risapute in tutto il mondo. Questo discorso venne promulgato e diffuso
in tutto il reame e nulla diffuse il terrore nella popolazione quanto
i riferimenti encomiastici alla clemenza reale; perché si sapeva ormai
molto bene che, quanto più si insisteva e si propagandavano tali
encomi, tanto più disumana sarebbe stata la pena, e tanto più
innocente l'accusato destinato a subirla. Quanto a me, devo confessare
che, non essendo mai stato destinato alla vita di corte, né per
nascita, né per educazione, ed essendo quindi un pessimo giudice in
materia, non riuscivo a capire dove fosse tutta quella clemenza e
quella simpatia alla quale la sentenza faceva riferimento; anzi, e
forse mi sbaglio, mi sembrava più rigorosa che mite. Più di una volta
fui sul punto di accettare il processo, sperando di poter attenuare i
fatti menzionati nei vari capi d'accusa, visto che non li potevo
negare; ma troppe volte in vita mia ho assistito a processi di stato
che immancabilmente finivano secondo le direttive dei giudici, per
affidarmi, nella condizione in cui mi trovavo e con tali nemici, ad un
verdetto tanto pericoloso. Per un momento pensai di opporre resistenza
perché, finché fossi rimasto libero, difficilmente tutte le forze
riunite dell'impero avrebbero potuto soggiogarmi, mentre avrei potuto
con estrema facilità ridurre in macerie la capitale a furia di
sassate. Eppure respinsi con orrore questa idea, ricordandomi del
giuramento che avevo fatto a Sua Maestà, dei favori che avevo ricevuto
da lui, e del titolo di "nardac" che si era degnato di conferirmi. Né
ero entrato a tal punto nel ruolo di cortigiano, da persuadermi che la
severità oggi dimostratami dall'imperatore avrebbe potuto cancellare
tutti gli obblighi contratti nel passato.
Alla fine presi una decisione che potrà suscitare qualche perplessità
e non a sproposito; infatti ammetto che devo i miei occhi, e di
conseguenza la libertà, all'avventatezza e alla mancanza d'esperienza,
perché, se avessi conosciuto allora la vera natura di prìncipi e
ministri, quale poi mi è capitato di osservare in molte altre corti, e
i loro modi di trattare prigionieri sotto accusa meno colpevoli di me,
mi sarei sottoposto subito e di buon grado ad una condanna tanto
lieve. Ma con l'impulsività propria dei giovani, avendo il permesso
imperiale di far visita all'imperatore di Blefuscu, presi al volo
l'occasione prima dello scadere dei tre giorni, comunicando per
lettera al mio amico segretario che sarei partito il giorno stesso per
Blefuscu; senza attendere una risposta, mi diressi verso la costa
dell'isola dove si trovava all'ancora la nostra flotta. Afferrai una
grossa nave e, salpate le ancore, legai una corda alla prua poi, dopo
essermi spogliato, ci misi gli abiti e la coperta, che tenevo sotto il
braccio, e cominciai a trascinarmela dietro, un poi' guadando e un po'
nuotando, finché arrivai al porto reale di Blefuscu, dove la gente mi
aspettava da tempo.
Due guide mi portarono alla capitale che ha lo stesso nome. Le portai
in mano finché giungemmo a duecento metri dalle porte della città,
quindi le mandai ad avvertire un segretario di corte del mio arrivo e
a riferirgli che attendevo gli ordini di Sua Maestà. Un'ora più tardi
mi fu detto che Sua Maestà con tutta la famiglia reale e gli ufficiali
di corte stavano per venire incontro a ricevermi. Mi feci avanti per
un centinaio di metri e, mentre Sua Maestà e il seguito scendevano da
cavallo e l'imperatrice e le dame dalle carrozze, non mi sembrò che
quelle signorie dessero segni di paura o di imbarazzo. Mi stesi per
terra per baciare la mano a Sua Altezza e alla consorte imperiale, poi
gli dissi che ero venuto per mantenere la promessa fatta, con il
permesso del mio padrone, l'imperatore, per avere l'onore di vedere un
così potente monarca e offrirgli i miei servigi, compatibilmente ai
doveri che mi legavano al mio sovrano. Ma non feci alcun riferimento
al fatto che ero caduto in disgrazia, prima di tutto perché non ne
avevo avuto la comunicazione ufficiale e dunque avrei potuto essere
totalmente all'oscuro dei progetti a mio danno né d'altra parte potevo
pensare che l'imperatore di Lilliput avrebbe divulgato la notizia
mentre non ero in suo potere; su questo ultimo punto, tuttavia,
dovetti accorgermi presto che mi sbagliavo.
Non starò qui a infastidire il lettore con il resoconto
particolareggiato del mio ricevimento a corte, secondo la generosità
di un così gran principe; né ai disagi che dovetti affrontare per
mancanza di una casa e di un letto, costretto come fui a dormire per
terra avvolto nella mia coperta.
















8 - GRAZIE AD UN FORTUNATO IMPREVISTO L'AUTORE TROVA IL MODO DI
LASCIARE BLEFUSCU E, DOPO ALCUNE TRAVERSIE, TORNA SANO E SALVO IN
PATRIA.

Tre giorni dopo il mio arrivo me ne andavo curiosando verso la costa
nord orientale dell'isola, quando vidi a mezzo miglio della riva
qualcosa che sembrava una barca rovesciata. Mi levai calze e scarpe e
cominciai a inoltrarmi nell'acqua per due o trecento metri, finché
vidi che si trattava proprio di una barca, che mi veniva incontro con
il flusso della marea e che qualche tempesta aveva probabilmente
strappato ad una nave. Tornai subito alla capitale per farmi prestare
da Sua Maestà venti dei più alti galeoni che gli erano rimasti dopo la
perdita della flotta e tremila marinai, al comando del suo
viceammiraglio. Mentre la flotta salpava per costeggiare l'isola,
raggiunsi con una scorciatoia il posto dove avevo trovato la barca. La
marea l'aveva portata ancora più vicina alla riva. I marinai d'altra
parte erano tutti provvisti di cordame che avevo in precedenza
attorcigliato insieme per renderlo più resistente. All'arrivo delle
navi, mi spogliai e camminai nell'acqua fino a un cento metri dalla
barca; qui fui costretto a fare una bella nuotata per raggiungerla. I
marinai mi lanciarono un capo della corda che legai stretta all'anello
di prua della barca, mentre l'altro capo venne legato a uno dei
vascelli. Ma mi sembrò subito una fatica improba, perché non riuscivo
a destreggiarmi nell'acqua dove non toccavo. Dovetti quindi nuotare
dietro la barca, spingendola con una mano più spesso che potevo,
finché, aiutato dalla marea, riuscii a raggiungere il punto dove si
toccava. Mi fermai per prendere fiato qualche minuto, poi detti
un'altra spinta alla barca con l'acqua che mi arrivava ormai alle
ascelle. Il più ormai era fatto e non mi rimase che tirare fuori il
cordame stivato in una nave, legando la barca al traino di nove
velieri che mi erano accanto. Con il favore del vento, le mie spinte e
il traino delle navi, portammo la barca a non più di quaranta metri
dalla riva e qui, aspettata la bassa marea, la trascinai in secco. Con
l'aiuto di duemila uomini, fornii di corde e paranchi, riuscii a
rimetterla con la chiglia sulla sabbia e fu allora che mi accorsi che
era leggermente danneggiata.
Non starò a seccare il lettore con la difficoltà che ebbi nel
trasportare quell'imbarcazione al porto reale di Blefuscu, facendola
scorrere su pali, la cui preparazione mi richiese dieci giorni di
fatiche; arrivato alla capitale fui accolto da una grande folla
estasiata alla vista di un così enorme vascello. Dissi all'imperatore
che la mia buona stella mi aveva fatto imbattere su quella barca,
capace di trasportarmi in un qualche paese dal quale avrei potuto
raggiungere la mia terra natale, per cui gli chiesi di potere
usufruire di materiali per rimetterla in sesto e di ottenere il
permesso di partire. Lui, dopo gentili espressioni di rincrescimento,
me lo concesse.
Per tutto quel tempo rimasi molto sorpreso che il nostro imperatore
non si fosse fatto vivo presso la corte di Blefuscu con qualche
messaggio che riguardasse la mia persona; in seguito fui segretamente
informato che Sua Maestà di Lilliput, ignaro che fossi al corrente del
suo progetto, era convinto che mi fossi recato a Blefuscu solo per
mantenere la promessa, e col suo assenso, come era noto a tutti, e che
sarei ritornato quando fossero finiti i festeggiamenti. Col passare
del tempo, tuttavia, cominciò a preoccuparsi del mio ritardo per cui,
consigliatosi con il gran tesoriere e gli altri della congrega, decise
di inviare un messo fidato con una copia delle accuse a mio carico.
Questo emissario avrebbe dovuto presentare all'imperatore di Blefuscu
la clemenza del suo padrone, il quale si era limitato a condannarmi
alla perdita degli occhi, comunicandogli inoltre che mi ero sottratto
alla giustizia per cui, se non avessi fatto ritorno entro due ore,
sarei stato privato del titolo di "nardac" e dichiarato traditore.
L'emissario aggiunse poi che, nel mutuo rispetto e rafforzamento
dell'amicizia dei due paesi, il suo padrone non dubitava che il
fratello di Blefuscu avrebbe fatto in modo di rispedirmi a Lilliput,
legato mani e piedi, per subire la punizione che spetta ai traditori.
L'imperatore di Blefuscu rifletté per tre giorni, poi fece conoscere
la sua risposta, piena di cortesia e di scuse, nella quale specificava
che, quanto al fatto di rinviarmi indietro tutto legato, suo fratello
sapeva bene che era impossibile; che se pure ero stato io a sottrargli
la flotta, tuttavia si sentiva in debito per quanto avevo fatto al
momento di ratificare la pace. Inoltre entrambi i sovrani si sarebbero
liberati ben presto di me, poiché avevo rinvenuto sulla spiaggia un
enorme vascello, capace di trasportarmi in mare e aggiunse che lui
stesso aveva ordinato di ripararlo sotto la mia direzione. In questo
modo sperava che in poche settimane entrambi gli imperi si sarebbero
liberati di una presenza tanto ingombrante.
Con questa risposta l'emissario fu rinviato a Lilliput, mentre
l'imperatore di Blefuscu mi raccontò il tutto a cose fatte, offrendomi
allo stesso tempo e in gran segreto la sua benevola protezione, se
avessi voluto restare al suo servizio. Ma sebbene lo ritenessi sincero
in questa proposta, ero ormai deciso a non riporre più fiducia nei
principi e nei ministri, almeno fino a quando l'avessi potuto evitare;
per cui gli presentai umili scuse, insieme alla più viva riconoscenza
per le sue buone intenzioni. Gli dissi che la buona o cattiva sorte mi
aveva fatto imbattere in una barca e che preferivo affidarmi
all'oceano, piuttosto che essere il pomo della discordia fra due
potenti sovrani. Non mi sembrò tanto dispiaciuto della mia decisione,
anzi, da un certo avvenimento, capii che il re e i ministri erano più
che felici della mia partenza.
Tutto questo contribuì ad affrettare i preparativi di un commiato
molto più imminente di quanto avessi creduto, e non mi mancarono certo
gli aiuti della corte, impaziente di vedermi andare via. Furono messi
a mia disposizione cinquecento sarti per fare le vele della barca,
ottenute sovrapponendo tredici strati del tessuto più robusto che
avevano, mentre io stesso faticai non poco a confezionare cordame e
sartie attorcigliando dieci, venti e anche trenta delle loro corde più
grosse e robuste. Per àncora presi un pietrone nel quale mi ero
imbattuto lungo la spiaggia dopo lunghe ricerche; per ingrassare la
barca mi dettero il sego di trecento buoi. Il difficile fu tagliare le
piante più grosse per farne i remi e l'alberatura, ma per fortuna ebbi
la collaborazione dei maestri d'ascia reali che levigarono i tronchi
dopo che li avevo sgrossati.
Dopo un mese fu tutto pronto e mi recai da Sua Maestà per prendere
commiato. Quando l'imperatore uscì dal palazzo con la famiglia reale,
mi distesi per baciargli la mano che lui benevolmente mi tendeva e
così feci con l'imperatrice e i prìncipi. Sua Maestà mi regalò
cinquanta borse di duecento "sprugs" ognuna e il suo ritratto a
grandezza naturale che sistemai subito in uno dei miei guanti perché
non si danneggiasse. Ma tante e tante furono le cerimonie della
partenza che non voglio star qui a importunare il lettore con la loro
descrizione.
Stivai la barca con la carne di un centinaio di buoi, trecento pecore,
pane e bevande in proporzione adeguata e tanti cibi precotti quanti ne
poterono confezionare quattrocento cuochi. Feci portare sulla barca
anche sei mucche, due tori e altrettante pecore e montoni per
moltiplicarne la razza nel mio paese; per dar loro da mangiare durante
il viaggio mi portai anche un fascio di fieno e un sacchetto di grano.
Mi sarebbe piaciuto imbarcare anche una dozzina di indigeni, ma
l'imperatore non me lo avrebbe consentito in nessun modo ed anzi, dopo
un'accurata ispezione nelle mie tasche, mi fece giurare sull'onore che
non avrei portato via nessuno dei suoi sudditi, sia pure con il loro
consenso.
Sistemata ogni cosa meglio che potevo, salpai il ventiquattro
settembre 1701 alle sei del mattino e, dopo avere percorso quattro
leghe in direzione nord, sospinto dal vento che spirava da sud-est,
alle sei della sera vidi un'isoletta a mezza lega in direzione
nordoccidentale. Mi avvicinai e gettai l'àncora dalla parte contro
vento di quell'isola che sembrava disabitata; allora mi ristorai un
po' e mi misi a dormire. Riposai della grossa e per sei ore filate
perché, un paio d'ore dopo che mi ero svegliato, spuntò il giorno;
feci colazione prima del sorgere del sole quindi, levata l'àncora e
con il favore del vento, ripresi il cammino nella direzione del giorno
precedente con la guida della bussola tascabile. Volevo raggiungere
possibilmente una di quelle isole che si trovano a nord-est della
terra di Van Diemen. Per tutta la giornata non vidi nulla, ma il
giorno dopo, verso le tre del pomeriggio, quando dai calcoli fatti
avevo percorso ventiquattro leghe da Blefuscu, vidi una vela che
seguiva una rotta simile alla mia verso sud-est. Lanciai dei richiami,
ma non ebbi risposta anche se, col calare del vento, stavo sempre più
avvicinandomi. Cercai di prendere vento più che potevo finché, dopo
mezzora, si accorsero di me, alzarono la bandiera e spararono un colpo
dl cannone. Mi è difficile trovare le parole per esprimere la gioia
ddavanti a quell'inaspettata occasione di rivedere la mia amata terra
e gli amati cari che vi avevo lasciati. La nave ammainò le vele ed
accostai ad essa alle sei della sera del 26 settembre. Il cuore mi
balzò in gola al vedere i colori dell'Inghilterra. Mi infilai pecore e
mucche nelle tasche della giacca e salii a bordo col mio piccolo
carico di provviste. Si trattava di una nave inglese da carico che,
attraverso i mari del nord e del sud, tornava dal Giappone; il
capitano, persona civilissima ed ottimo marinaio, era il signor John
Biddel di Deptford. Ci trovavamo a trenta gradi di latitudine sud. Fra
l'equipaggio di una cinquantina di persone incontrai un vecchio
compagno, certo Pietro Williams che mi parlò assai bene del capitano.
Questi mi trattò infatti con cortesia e volle sapere il posto che
avevo lasciato per ultimo e dove fossi diretto; risposi in poche
parole, ma quello pensò che vaneggiassi e che i pericoli affrontati mi
avessero dato di volta al cervello. Al che tirai fuori pecore e mucche
dalle tasche e lui, con grande meraviglia, dovette ricredersi. Allora
gli mostrai l'oro che mi aveva donato l'imperatore di Blefuscu, con il
ritratto di Sua Maestà a grandezza naturale e altre rarità di quel
paese. Gli detti due borse di duecento "sprugs" ciascuna e gli promisi
che, quando saremmo arrivati in Inghilterra, gli avrei regalato una
mucca e una pecora pregne.
Non starò ad annoiare il lettore con il resoconto del viaggio che per
la maggior parte fu veramente propizio. Arrivammo ai Downs
nell'Inghilterra meridionale il 13 aprile 1702 e devo lamentarmi di
una sola disgrazia. I topi di bordo mi avevano portato via una pecora
e ne ritrovai le ossa spolpate in un buco. Portai a terra tutti gli
altri animali del mio gregge, che feci pascolare in un campo da gioco
a Greenwich; trovarono un'erba tenera che mise loro un buon appetito,
sebbene avessi temuto il contrario. Né mi sarebbe stato possibile
tenerli in vita in un così lungo viaggio, se il capitano non mi avesse
dato i suoi biscotti più buoni che, ridotti in polvere e mescolati ad
acqua, avevano costituito il loro cibo quotidiano.
Durante il breve periodo che rimasi in Inghilterra, guadagnai
parecchio mostrando le mie bestie a persone di rango e, prima di
riprendere il mare per il mio secondo viaggio, le vendetti per
seicento sterline. Quando sono ritornato l'ultima volta, ho trovato
che l'allevamento è assai aumentato, specie quello delle pecore; per
cui spero che sarà di grande incremento per le manifatture della lana,
considerata la finissima qualità del vello.
Con mia moglie e la famiglia non rimasi che due mesi, perché il
vivissimo desiderio di scoprire terre straniere non mi permise di
restare più a lungo. A mia moglie lasciai mille e cinquecento sterline
e un buon alloggio a Redriff; il resto dei miei beni, parte in monete
e parte in merci, lo portai con me nella speranza di migliorare le mie
sostanze. Il vecchio zio Giovanni mi aveva lasciato in eredità della
terra vicino a Epping che rendeva una trentina di sterline l'anno, e
poi avevo affittato il mio terreno, detto del Toro Nero, a Fetter
Lane, che mi procurava un'analoga somma. Non c'era dunque pericolo che
la mia famiglia rischiasse di dover vivere della carità parrocchiale.
Mio figlio Gianni, così chiamato dal nome dello zio, era un ragazzo a
modo e frequentava la scuola, mia figlia Bettina (oggi sposa e madre)
aveva allora l'età in cui si impara l'uncinetto. Presi commiato da mia
moglie e dai miei figli, non senza lacrime da parte mia e loro, e
m'imbarcai sull'"Avventura", una nave da carico di trecento
tonnellate, comandata dal capitano Giovanni Nicholas di Liverpool
diretta a Surat. Il resoconto di questo viaggio sarà materia della
seconda parte del libro.




















PARTE SECONDA.
VIAGGIO A BROBDINGNAG.

1 - UNA TEMPESTA TERRIBILE. IN CERCA D'ACOUA CON UNA LANCIA SULLA
QUALE SALE L'AUTORE PER ESPLORARE IL PAESE. ABBANDONATO SULLA
SPIAGGIA, VIENE CATTURATO DA UN ABITANTE DEL LUOGO E PORTATO A CASA DI
UN AGRICOLTORE. DESCRIZIONE DEGLI ABITANTI.

La natura e il destino mi hanno sempre costretto ad una vita attiva e
senza riposo, tanto che a due mesi dal mio riorno in patria mi
imbarcai nell'Inghilterra meridionale, il 20 giugno 1702,
sull'"Avventura", comandata dal capitano Giovanni Nicholas, della
Cornovaglia, diretta a Surat. Navigammo con il vento in poppa fino al
Capo di Buona Speranza, dove scendemmo per rifornirci d'acqua.
Scoperta una falla, scaricammo la merce per passare l'inverno in quei
posti, e poiché nel frattempo il capitano si era preso le febbri, non
fu possibile riprendere il mare fino alla fine di marzo. Spiegate le
vele, facemmo buon viaggio fino oltre lo stretto del Madagascar.
Quando fummo a nord di quell'isola, a circa cinque gradi di latitudine
sud, sebbene i venti soffino di solito in quei paraggi fra nord e
ovest dall'inizio di dicembre ai primi di maggio, il 19 aprile si alzò
un vento molto più impetuoso del solito che si mise a soffiare
incessantemente da occidente per venti giorni, dirottandoci ad est
delle isole Molucche e a circa tre gradi a nord della linea
dell'equatore, come rilevò il capitano il 2 di maggio. Quel giorno il
vento cadde e lasciò il posto a una calma assoluta di cui mi rallegrai
non poco. Ma lui, che aveva sulle spalle la lunga esperienza di quei
mari, ci ordinò di prepararci ad affrontare una tempesta che, infatti,
non si fece aspettare: il giorno dopo cominciò a soffiare il vento da
sud, chiamato il monsone di mezzogiorno.
Prevedendo che si sarebbe presto scatenata una burrasca, raccogliemmo
la vela di tarchia, pronti ad ammainare quella di trinchetto e poiché
volgeva al peggio, ci assicurammo che i cannoni fossero fissati
saldamente e ammainammo l'albero di mezzana. La nave si trovava al
largo e così pensammo che sarebbe stato meglio affrontare i marosi,
piuttosto che starcene lì a farci sballottare senza governo. Facemmo
quindi terzaruolo della vela di trinchetto accodando le scotte, mentre
il timone stava con la barra tutta a vento. La nave rispondeva a
meraviglia. Legammo quindi la drizza, ma la vela era squarciata da
cima a fondo, così dovemmo ammainare il pennone, tirando giù la vela
sul ponte e togliendo di mezzo qualsiasi cosa per farle posto. Era
proprio un violentissimo fortunale e i marosi s'infrangevano con
pericoloso e insolito vigore. Alammo la gomena dell'asta della ghia,
cercando di dare una mano al timoniere. Non volevamo infatti ammainare
la gabbia di maestra, perché con la sua spinta affrontavamo assai bene
le onde e sapevamo che la gabbia di maestra dava alla nave stabilità,
spingendola più sicura verso il mare, che non ci mancava di certo.
Quando si placò la tempesta, spiegammo le vele di trinchetto e di
maestra, facendo riprendere fiato alla nave. Venne poi la volta delle
vele di mezzana, della gabbia di maestra e di trinchetto. Veleggiavamo
a est-nord-est, sospinti dal vento di sud-ovest. Tirammo a bordo le
murate di destra, mettemmo fuori i bracci di sopravvento e le
mantiglie; ponemmo in opera i bracci di sottovento, procedendo con le
boline ben strette; infine alammo l'attrezzatura di mezzana verso il
vento, perché si gonfiasse il più possibile.
Durante la tempesta, seguita da un forte vento di sud-sud-ovest, la
nave era stata trascinata, secondo i calcoli, per circa cinquecento
leghe ad oriente, tanto che anche il più vecchio dei marinai non
sapeva capacitarsi in che parte del mondo fossimo andati a finire. Non
ci mancavano certo le provviste, il vascello era solido, l'equipaggio
in buona salute, ma l'acqua era agli sgoccioli. La cosa migliore era
quella di tenere la stessa rotta, piuttosto che dirigerci più a nord,
col pericolo di andare a finire nelle province settentrionali della
gran Tartaria o nei mari glaciali.
Il 16 giugno 1703 un mozzo annunciò terra dall'albero maestro. Il 17
potemmo vedere distintamente una grande isola o un continente, non
sapevamo infatti di quale dei due si trattasse, da cui si spingeva
verso sud una lingua di terra e un'insenatura dall'acqua troppo bassa
perché ci si potesse avventurare una nave di cento tonnellate.
Gettammo l'ancora a un miglio dall'insenatura e il capitano mandò una
dozzina dei suoi uomini armati, in una barca provvista di recipienti,
per vedere se c'era dell'acqua dolce. Chiesi il permesso di andare con
loro per potere visitare quella terra e fare possibilmente qualche
scoperta. Arrivati a terra non vedemmo né fiumi né sorgenti, né nessun
segno di abitanti. Gli uomini si misero quindi a esplorare la spiaggia
per scoprire qualche sorgente d'acqua dolce vicino al mare, mentre io,
da solo, mi inoltrai per un miglio dalla parte opposta in quella terra
desolata e rocciosa. Mi sentivo ormai stanco, e poiché non c'era nulla
che mi avesse interessato, me ne tornai indietro pian piano verso
l'insenaturaa. Quando fui in vista del mare vidi che gli uomini erano
già risaliti sulla scialuppa e remavano alla disperata verso la nave.
Stavo per chiamarli, ma sarebbe stato vano, quando vidi un essere
enorme che arrancava in mare dietro di loro più forte che poteva.
L'acqua non gli arrivava oltre i ginocchi e faceva passi enormi, ma
loro avevano per fortuna un vantaggio di un mezzo miglio, e poiché il
mare intorno era costellato di scogli acuminati, il mostro non riuscì
a raggiungere la barca. Questo mi fu detto dopo, perché al momento non
osai seguire le cose fino in fondo, ma corsi a perdifiato nella
direzione dalla quale ero venuto. Salii quindi per una ripida collina
che mi aprì una certa visuale sulla campagna circostante. Questa era
coltivata in ogni sua parte, ma quello che mi stupì fu l'altezza
dell'erba, forse fieno, capace di superare i sette metri.
Capitai in una strada maestra, tale infatti mi sembrava quello che per
gli abitanti del luogo non era che un viottolo attraverso un campo
d'orzo, e mi inoltrai per un tratto, senza riuscire a vedere nulla o
quasi da entrambi i lati, poiché si era ormai all'epoca del raccolto e
il grano arrivava almeno a tredici metri. Mi ci volle un'ora per
giungere alla fine del campo, recintato da una siepe alta più di
trenta metri e con alberi così maestosi che non mi fu possibile
calcolarne l'altezza. Per passare da un campo all'altro c'era un
cavalcasiepi a quattro gradini, tenuto fermo da un pietrone poggiato
sulla sommità. Non mi sognai nemmeno di dargli la scalata, perché i
gradini erano alti un due metri e la pietra più di sei. Stavo appunto
cercando un varco nella siepe, quando vidi all'improvviso un abitante
di quel paese nel campo vicino, grande come quello che si era messo ad
inseguire la barca. Era alto come un campanile e ad ogni passo
percorreva, ad occhio e croce, una decina di metri. Pieno di di un
terrore indicibile corsi a nascondermi fra il grano, da dove lo potei
osservare mentre, in cima al cavalcasiepi, guardava indietro verso il
campo percorso e lo udii gridare con una voce molto più alta di uno
squillo di tromba; anzi era tale il frastuono che scuoteva l'aria che,
in un primo momento, pensai che si trattasse di un tuono. Al che
vennero altri sette mostri alti come lui armati di falcetti, ognuno
dei quali era largo come sei delle nostre falci messe insieme. Vestiti
molto più dimessamente del primo, sembravano i suoi servi o i suoi
contadini e infatti, al suo comando, cominciarono a mietere il campo
dove mi trovavo. Cercai di tenermi il più possibile lontano da loro,
ma i miei movimenti erano impediti dagli steli del grano che
lasciavano varchi di non più di trenta centimetri e attraverso i quali
cercavo di insinuarmi. Mi detti comunque un gran daffare per
raggiungere una parte del campo dove il grano era stato abbattuto
dalla pioggia e dal vento; ma qui mi fu impossibile proseguire, perché
gli steli formavano un groviglio così stretto, che non mi permetteva
il passaggio; e poi le reste delle spighe abbattute erano così robuste
e acuminate che mi bucarono tutto lacerandomi le vesti. Sentii in quel
momento la voce dei mietitori a non più di cento metri alle mie
spalle. Allo stremo delle forze, e sopraffatto dalla disperazione, mi
distesi fra due solchi sperando di finire in quel luogo i miei giorni.
Compiansi mia moglie, vedova inconsolabile e i miei figli orfani,
deplorando la follia e l'ostinazione che, contro gli avvertimenti
degli amici e dei parenti, mi avevano portato ad intraprendere un
secondo viaggio. Stravolto com'ero, mi venne in mente Lilliput, i cui
abitanti mi guardavano come il prodigio più grande che si potesse
concepire, dove potevo tirare con una mano sola l'intera flotta
imperiale e dove feci quelle imprese che nelle cronache dell'Impero
resteranno a memoria perenne, testimonianza di milioni di uomini per i
posteri increduli. Ed ora riflettevo sull'umiliazione che avrei dovuto
provare nell'essere un'inezia in quel paese, quale potrebbe essere un
lillipuziano fra noi. Ma questa era in fondo l'ultima delle mie
disgrazie perché, se è vero che le creature umane sono più selvagge e
crudeli in proporzione alla loro mole, cosa altro potevo aspettarmi,
se non di diventare un boccone per il primo di questi barbari che
avesse avuto la fortuna di acchiapparmi? Hanno proprio ragione i
filosofi, quando dicono che grande o piccolo è solo questione di
paragoni; e potrebbe darsi il caso che i lillipuziani scoprano una
qualche terra dove gli abitanti sono rispetto a loro tanto minuscoli,
quanto loro lo erano nei miei riguardi. E chi può dire che questa
stessa prodigiosa razza di mortali possa essere a sua volta superata
di gran lunga in qualche remota parte del mondo, di cui nulla
sappiamo?
Atterrito e confuso com'ero, mi perdevo in queste riflessioni, quando
uno dei mietitori giunse a meno di dieci metri da me. Sapevo ormai che
alla prossima mossa sarei stato schiacciato dal suo piede o tranciato
dal suo falcetto per cui, quando quello stava per muoversi, gridai con
quanta forza avevo in corpo. Al che quella creatura colossale si fermò
di colpo, ossevò tutt'intorno per un po', finché mi vide acquattato
per terra. Mi osservò con la cautela di chi cerca di acchiappare un
qualche animaletto pericoloso evitandogli di mordere o di graffiare,
come mi è capitato di fare con le donnole in Inghilterra. Alla fine si
azzardò a prendermi dal di dietro, stringendomi la vita fra il pollice
e l'indice, portandomi all'altezza dei suoi occhi e a una distanza di
tre metri da essi, per potermi vedere meglio.
Capii al volo la sua intenzione e per fortuna ebbi la presenza di
spirito di non dibattermi mentre mi sollevava in aria, quantunque mi
stringesse forte ai fianchi per paura che gli scivolassi fra le dita.
Osai solo alzare gli occhi al cielo, giungendo le mani in atto
supplichevole, pronunciando poche parole in tono umile e implorante,
adatto alla condizione in cui mi trovavo, perché sentivo che in ogni
momento mi avrebbe potuto sbattere per terra, come in genere si fa con
certi animaletti rabbiosi che si vuole ammazzare. Per fortuna, lui
sembrò attratto dalla mia voce e dai gesti e cominciò a guardarmi più
con curiosità che con sospetto, meravigliato di sentirmi articolare la
voce in parole che pure non poteva comprendere. Nel frattempo non
potei trattenere i gemiti e le lacrime, girando la testa verso i
fianchi, come per fargli capire il dolore che mi procurava la stretta
delle sue dita. Lui sembrò capirmi, perché alzò la falda della giacca
deponendomici sopra con delicatezza, mettendosi a correre verso il suo
padrone, un facoltoso agricoltore, il primo che avevo visto nel campo.
Dopo che il contadino ebbe raccontato al suo padrone di avermi
trovato, come capii dal loro discorso, quest'ultimo, presa una
pagliuzza grossa come un bastone da passeggio, mi alzò le falde della
giacca, perché forse credeva che fossero delle protezioni naturali;
poi mi soffiò sui capelli per guardarmi meglio il volto. Allora chiamò
i vari garzoni e chiese loro se per caso avessero mai visto nei campi
creature come me e quindi mi posò pian piano per terra sulle quattro
gambe, ma io mi alzai subito in piedi e cominciai a passeggiare avanti
e indietro assai lentamente, come per fare capire a quella gente che
non avevo nessuna intenzione di fuggire. Loro si sedettero in circolo
intorno a me per osservare meglio le mie mosse: mi tolsi il cappello e
feci una gran riverenza verso l'agricoltore, poi m'inginocchiai
alzando le mani e gli occhi al cielo, parlando più forte che potevo.
Tirai fuori di tasca una borsa di monete d'oro e gliela porsi con
deferenza; lui la tenne sul palmo della mano, se la portò vicinissima
agli occhi per vedere di che cosa si trattava, poi, con la punta di
uno spillo che sfilò da una manica, la rigirò più volte, senza
tuttavia intuire cosa fosse. Gli feci capire di distendere la mano al
suolo ed allora, aperta la borsa, riversai tutto l'oro sulla palma.
Conteneva sei scudi spagnoli di quattro pistole l'uno ed altre venti o
trenta monete spicciole; vidi che si bagnava con la saliva la punta
del mignolo per prendere una o due monete d'oro, senza tuttavia
rendersi conto di che cosa si trattava. Mi fece capire a segni di
rimettere le monete nella scarsella e la scarsella in tasca, cosa che
pensai opportuno di fare, dopo avergliela offerta più volte.
L'agricoltore era ormai certo di trovarsi dinanzi ad una creatura
dotata di ragione. Fu così che tentò più volte di parlarmi con quella
sua voce che mi rintronava negli orecchi con il frastuono di un mulino
a vento, sebbene le sue parole fossero variamente articolate. Gli
risposi con tutto il fiato che avevo in corpo, in diverse lingue,
mentre lui avvicinava l'orecchio ad un paio di metri; ma invano,
perché era come se stessimo parlando fra sordi. Allora mandò i servi
di nuovo al lavoro e tirò fuori di tasca il fazzoletto, spianandolo e
piegandolo in due sulla mano distesa a terra con la palma rivolta
verso l'alto, facendo segno di saltarci sopra. Non mi fu difficile
obbedirgli, perché avevo davanti uno spessore di non più di trenta
centimetri e, per paura di cadere, mi distesi tutto lungo, mentre lui
mi rimboccò fino alla testa con il rimanente del fazzoletto. E in
questo modo mi portò a casa sua.
Appena arrivato, chiamò sua moglie aprendo il fazzoletto: quella fece
uno strillo e un salto indietro, come fanno le donne alla vista di un
ragno o di un rospo. Ma quando pian pianino ebbe preso un po' di
confidenza con me ed ebbe visto come obbedivo a puntino ai segni che
suo marito mi faceva, si riebbe ed anzi finì per affezionarmisi. Si
era ormai a mezzogiorno e una fantesca portò in tavola il pranzo che
consisteva in un'unica portata di carne, come si fa in casa dei
contadini, in un piatto dal diametro di sette metri. Quella famiglia
era composta dall'agricoltore e da sua moglie, tre figli e una nonna,
una vecchia più di là che di qua. Quando si furono seduti,
l'agricoltore mi posò a poca distanza da lui sulla tavola, alla
vertiginosa altezza di quasi dieci metri da terra.
Per paura di cadere cercavo di tenermi il più possibile lontano dagli
orli. La moglie tagliò uno spilluzzico di carne, poi sminuzzò del pane
sul piatto di legno e me lo mise davanti. Mi sentii in dovere di farle
una bella riverenza e quindi, estratti il mio coltello e la mia
forchetta, mi misi a mangiare con un gusto beato. La padrona mandò la
fantesca a prendere un bicchierino da liquore della capacità di due
galloni e lo riempì di vino; presi il vaso con tutte e due le mani e
alzando a gran fatica bevvi alla salute della signora, urlando i
migliori ossequi nella mia lingua, il che li fece scoppiare dal
ridere, tanto che rimasi mezzo intontito dal fracasso. Quel vinello
sapeva di sidro e non era poi male. Allora l'agricoltore mi fece segno
di andare vicino al suo piatto, ma mentre camminavo sulla tavola tutto
eccitato, come vorrà comprendere il lettore benevolo, inciampai su una
crosta cadendo bocconi sulla tovaglia, senza tuttavia farmi male. Mi
rialzai di scatto e vedendo che quella buona gente era rimasta
spaventata, presi il cappello, che tenevo sotto il braccio secondo la
buona creanza, e mulinandolo sopra il capo detti tre evviva per
dimostrare che non mi ero fatto niente. Mentre mi avvicinavo a quello
che d'ora in poi chiamerò il mio padrone, il più piccolo dei suoi
figli, che gli sedeva accanto, un moccioso screanzato di una decina
d'anni, mi sollevò per le gambe tenendomi sospeso tanto in alto, che
tremavo da capo a piedi; ma suo padre mi strappò dalle sue mani
affibbiandogli allo stesso tempo un tale ceffone sull'orecchio, da
scaraventare a terra un reggimento di cavalleria, ordinandogli di
alzarsi da tavola. Ma per paura che il bambino se la potesse prendere
con me, e conoscendo bene la crudeltà dei bambini nei confronti dei
passeri, dei conigli, dei cuccioli di gatti e di cani, mi inginocchiai
e, indicando il figlio, feci capire al mio padrone che lo perdonasse.
Il padre acconsentì e il bambino riprese il suo posto, mentre mi
avvicinai alla sua mano per baciargliela; allora il padrone gliela
prese costringendolo a farmi una specie di ruvida carezza.
Si era a metà del pranzo, quando la gatta prediletta balzò in grembo
alla padrona di casa. Sentii un rombo come avessi alle spalle una
dozzina di telai al lavoro e, girandomi, mi accorsi che erano le fusa
del gatto, un animale grande tre volte un bue, come potei capire dalla
testa e da una zampa che sporgevano sulla tavola, mentre la padrona
gli dava da mangiare accarezzandolo. L'aspetto feroce di questo
animale mi scombussolò tutto, sebbene mi trovassi dall'altro lato del
tavolo a più di quindici metri da lui, e la padrona lo tenesse stretto
per paura che, con un balzo, mi afferrasse coi suoi artigli. Ma non
c'era alcun pericolo, perché la gatta non mi degnò di uno sguardo
quando il padrone mi mise a meno di dieci metri da lei. D'altra parte
è un luogo comune e un'esperienza vissuta personalmente nei miei
viaggi, che fuggire o mostrarsi impaurito dinanzi ad un animale, è il
modo migliore per farsi inseguire. Così non detti il minimo segno di
spavento, mi misi anzi a passare e ripassare impettito davanti alla
testa della gatta, sempre più vicino, finché quella si tirò indietro
quasi avesse paura di me. Dei due o tre cani che entrarono nella
stanza, e ce ne sono sempre nelle case dei contadini, ebbi ancora meno
spavento, sebbene uno di questi fosse un mastino dalle dimensioni di
quattro elefanti messi insieme e l'altro un levriero, più alto ma meno
imponente.
Alla fine del pranzo, entrò la balia con in braccio un poppante di un
anno che, dopo avermi osservato per un po', cominciò a strillare così
forte, come fanno i bambini quando si impuntano per qualche capriccio,
che dal Ponte di Londra le sue grida si sarebbero sentite fino a
Chelsea. Presa da compassione, la madre mi prese e mi porse al bambino
il quale, afferratomi per la vita, si ficcò la mia testa in bocca; mi
misi a urlare così forte che il piccino si impaurì e mi lasciò cadere.
Mi sarei senza dubbio rotto l'osso del collo, se la madre non avesse
teso sotto di me il suo grembiule. Per placare il fanciullo, la balia
ricorse a un sonaglio, costituito da una specie di orcio con dentro
dei macigni e appeso al collo del poppante con un robusto canapo. Ma
fu tutto inutile, tanto che fu costretta a dargli da poppare come
ultimo rimedio. Devo confessare di non aver mai visto nulla di
ripugnante quanto la sua mostruosa mammella che, per altro, non saprei
a che cosa paragonare, per dare al curioso lettore un'idea della mole,
della forma e del colore: traboccava per un due metri buoni e ne aveva
almeno cinque di circonferenza. Il capezzolo era grosso quanto la metà
della mia testa ed era, come tutta la mammella, talmente chiazzato e
cosparso di lentiggini e pustole, che non c'era niente di più
nauseante; e posso dire di averlo visto molto bene poiché, mentre la
balia se ne stava seduta a dar da poppare a tutto suo agio, mi trovavo
sopra la tavola. Questo spettacolo mi fece riflettere sulla pelle
liscia e soave delle nostre donne che ci appare tanto attraente,
perché sono della nostra dimensione, mentre i difetti sarebbero
visibili solo attraverso una lente di ingrandimento. L'esperienza
infatti ci insegna che anche la pelle più bianca e vellutata appare
rugosa, ineguale e piena di chiazze vista a distanza ravvicinata.
Mi ricordo che quando ero a Lilliput, la carnagione di quella
minuscola gente mi sembrava la più bella di questo mondo ed anzi, fu
proprio là che, parlando con un dotto mio amico, mi sentii dire che la
mia faccia gli appariva assai più bella e liscia quando mi guardava da
terra, di quanto lo fosse allorché lo sollevavo più vicino. Mi
confessò che in questo caso gli si presentava davanti una vista
sconvolgente: grandi crateri mi butteravano la pelle, fra i peli della
barba dieci volte più grossi delle setole d'un cinghiale e le macchie
che rendevano disuguale e ripugnante la carnagione, sebbene possa
asserire a mio favore di non essermi mai abbronzato granché durante i
viaggi e di non essere in fondo un campione disonorevole della mia
razza. Se invece la discussione cadeva sulle dame della corte
imperiale, lui mi diceva che una era lentigginosa, un'altra aveva la
bocca a salvadanaro, un'altra ancora il naso a patata, mentre a me
sembravano tutte perfette. Riconosco che si tratta di un'ovvia
riflessione, ma ho dovuto pur farla perché il lettore non credesse che
queste creature fossero deformi; mentre al contrario sono una razza
ben fatta e, specie il mio padrone, sebbene fosse un contadino, aveva
un portamento eretto e dignitoso, tratti gradevoli e membra
proporzionate, quando lo guardavo dalla distanza di diciotto metri.
Finito il pranzo, l'agricoltore uscì di casa per raggiungere i
braccianti, non senza affidarmi prima alle cure e alla vigilanza della
moglie, come capii dalle parole e dai gesti che le rivolse. Ero stanco
e avevo un gran sonno, cosa che lei intuì benissimo, tanto e vero che
mi depose sul suo letto coprendomi con un fazzoletto, bianco e pulito,
ma più ruvido della vela maestra di un galeone.
Dormii per un paio d'ore, durante le quali sognai di essere a casa con
mia moglie e con i figli e quando mi svegliai nella solitudine di
quella stanza enorme, alta fra i sessanta e i novanta metri, larga una
cinquantina e sperduto in un letto di venti, sentii più pungente il
dolore che avevo nel cuore. La mia padrona mi aveva chiuso in camera,
mentre accudiva alle faccende. Un impellente bisogno mi spinse a
tentare di scendere dal letto, ma questo era alto otto metri e d'altra
parte pensai fosse inutile mettermi a urlare, vista la portata della
mia voce e la sterminata distanza che mi divideva dalla cucina dove si
trovavano gli altri. Mentre riflettevo sul da farsi, due topi si
arrampicarono su per le coperte e cominciarono a trotterellare
annusando qua e là per il letto. Uno di loro mi arrivò quasi al viso,
al che, in uno scatto di paura, sguainai la sciabola per difendermi.
Quegli orrendi animali ebbero il coraggio di attaccarmi da due parti
ed uno di loro osò allungarmi una zampa sul colletto, ma ebbi la
presenza di spirito di squarciargli la pancia prima che mi potesse
fare del male. Mi cadde ai piedi esanime e l'altro, vista la sorte del
compagno, sgusciò via non senza essersi beccato una sciabolata sul
groppone che gli assestai mentre fuggiva, facendogli perdere una vera
scia di sangue. Dopo questa avventura, mi misi a camminare lentamente
per il letto per riprendere fiato e recuperare la calma. Questi topi
erano grossi come mastini, ma più famelici e aggressivi, tanto che, se
mi fossi tolto il cinturone prima di coricarmi, a quest'ora sarei
stato senza dubbio ridotto in poltiglia e divorato. Misurata la coda
del topo morto, mi accorsi che per un pelo non arrivava ai due metri:
mi si rivoltava lo stomaco quando, ancora sanguinante, dovetti
trascinare via la carogna dal letto. Oltretutto, non essendo ancora
morto dovetti finirlo con un fendente sulla collottola.
Quando di lì a poco entrò la padrona e mi vide tutto insanguinato,
corse a prendermi per mano. Le indicai il topo morto, facendole capire
che non ero ferito; lei non si teneva dalla contentezza e chiamò la
fantesca che, preso il topo con un paio di molle, lo gettò dalla
finestra. La padrona mi mise su di un tavolino ed io ne approfittai
per mostrarle la spada insanguinata che, dopo averla asciugata con una
falda della giacca, rinfilai nel fodero. Avevo da sbrigare un paio di
quelle cosette che nessun altro poteva fare al mio posto e per questo
cercai di far capire alla padrona che mi mettesse per terra. Lei mi
accontentò, ed io non potevo far altro che indicarle la porta e
inchinarmi parecchie volte, poiché mi vergognavo di farle capire le
mie necessità con altri gesti. Alla fine, e non senza difficoltà, la
buona donna capì ciò che volevo, per cui, presomi di nuovo in mano, mi
portò in giardino deponendomi di nuovo per terra. Corsi a duecento
metri di distanza, le feci segno di non seguirmi e di non guardare
dalla mia parte, poi, nascostomi fra due foglie d'acetosa, mi liberai
dei miei bisogni.
Spero che il benevolo lettore vorrà scusarmi se mi soffermo su simili
particolari i quali, per quanto insignificanti possano apparire ad una
mente meschina e volgare, saranno certamente di valido aiuto per il
filosofo che voglia allargare l'orizzonte dei suoi pensieri e della
sua immaginazione e renderli utili al bene sia pubblico che privato.
Nel presentare infatti questa ed altre relazioni dei miei viaggi,
nelle quali raccontato la verità, senza fare ricorso agli ornamenti
della lingua, dello stile e della cultura, è stato questo il mio unico
scopo. Ma proprio questo viaggio mi ha, nel suo complesso, talmente
colpito l'immaginazione e mi è rimasto così impresso nella memoria,
che, trasferendolo nella scrittura, non ho omesso il minimo dettaglio.
E' stato solo ad una rilettura del mio scritto che ho cancellato
alcuni passi di scarsa importanza, per non essere accusato di
raccontare cose noiose e insignificanti, che spesso si imputano, e non
a torto, ai racconti dei viaggiatori.


2 - LA FIGLIA DELL'AGRICOLTORE. L'AUTORE E' PORTATO AL MERCATO E POI
NELLA CAPITALE. I PARTICOLARI DEL VIAGGIO.

La mia padrona aveva una figlia di nove anni, una bambina saggia per
la sua età, che sapeva cucire benissimo e con grazia i vestiti per la
bambola. Lei e sua madre sistemarono la culla della bambola facendone
il giaciglio dove potessi trascorrere la notte, poi misero la culla
nel cassetto di una credenza e questo fu appeso ad uno scaffale a muro
per paura dei topi. E per tutto il tempo che rimasi con questa gente
fu questo il mio letto che, man mano che riuscivo a farmi capire, resi
più comodo.
Questa ragazzina era così brava, che era bastato che mi spogliassi un
paio di volte in sua presenza, perché imparasse subito a vestirmi e a
spogliarmi, anche se evitavo sempre di darle questo fastidio, appena
mi lasciava fare da solo. Mi confezionò sette camice ed altri capi di
biancheria con la stoffa più fine che fu possibile trovare, sebbene
fosse più ruvida della tela di sacco. Ed era lei che mi lavava i panni
con le sue stesse mani. Inoltre mi faceva da maestra per insegnarmi la
loro lingua. Bastava che indicassi un oggetto, che lei me ne diceva il
nome e in pochi giorni fui capace di chiedere qualsiasi cosa volessi.
Era di animo buono e, per la sua età, non molto cresciuta, poiché
arrivava appena a tredici metri. Prima la famiglia, poi l'intero reame
mi chiamarono Grildrig, nome che lei mi aveva dato per prima e simile
al latino "nanunculus", all'italiano "omino" e all'inglese "mannikin".
Devo a lei la mia sopravvivenza e non ci separammo mai finché restai
in quel paese. La chiamavo Glumdalclitch, o piccola bambinaia, e sarei
un ingrato se non ricordassi l'attenzione e l'affetto che mi dimostrò
sempre, e inoltre vorrei essere in grado di ricompensarla come si
merita, invece di essere stato, come temo, causa involontaria della
sua disgrazia.
E nel frattempo si era diffusa in giro la notizia che il mio padrone
aveva trovato nei campi uno strano animale, piccolo come uno
"splaknuck", ma fatto in tutto e per tutto come un uomo, capace di
imitarlo in ogni azione, che parlava una lingua tutta sua, che pure
aveva imparato diverse parole della loro, che camminava su due gambe,
si comportava in modo amabile e mansueto, rispondeva ai richiami,
faceva quello che gli veniva detto, aveva membra ben proporzionate e
una carnagione più tenera di una bambina di tre anni di nobile
nascita. Fu così che un altro agricoltore che abitava vicino al mio
padrone ed era suo amico, venne a farci visita per verificare quanto
si diceva in giro. Mi misero subito in mostra posandomi sulla tavola
dove camminai ai loro comandi, sguainai e rinfoderai la spada, feci
l'inchino all'ospite del padrone, mi rivolsi a lui nella sua lingua
per chiedergli come stava e dargli il benvenuto, seguendo in tutto i
suggerimenti della mia piccola bambinaia. L'ospite, un vecchio dalla
vista corta, inforcò un paio d'occhiali per vedermi meglio ed io non
potei trattenermi dal ridere di cuore, perché i suoi occhi sembravano
come una luna piena che splende da due finestre contemporaneamente.
Gli altri risero con me appena capirono la causa della mia ilarità,
sebbene il vecchio fosse abbastanza stupido da prendersela e
arrabbiarcisi sopra. Era un dannato spilorcio e dovetti constatarlo
amaramente, quando mise in testa al mio padrone la maledetta idea di
mettermi in mostra come un portento alla fiera del villaggio, distante
una mezz'ora di cammino e a circa ventidue miglia dalla casa. Capii
subito che stavano architettando qualcosa di losco nei miei confronti,
quando vidi il mio padrone e il suo amico che parlottavano, indicando
di tanto in tanto dalla mia parte. In quel clima di paura mi sembrò
addirittura di avere capito il senso di alcune loro parole, ma la
mattina seguente fu la mia piccola bambinaia Glumdalclitch a riferirmi
il loro piano, dopo che era riuscita abilmente a far parlare sua
madre. La povera bambina mi pose in grembo, poi cominciò a piangere di
vergogna e di disperazione. Aveva paura che quella gente rozza potesse
farmi del male; avrebbero potuto stringermi fino a procurarmi la morte
o fracassarmi le ossa nel maneggiarmi. Lei aveva avuto modo di notare
la mia natura ritrosa e quanto fossi suscettibile nell'onore; capiva
con quale indignazione avrei affrontato l'idea di essere esibito alla
plebaglia, per denaro, come un mostricciattolo da baraccone. Disse che
papà e mamma le avevano promesso che sarei stato di sua proprietà, ma
ormai sapeva bene che sarebbe successo come con quell'agnellino
dell'anno scorso che, una volta ingrassato, fu venduto al macellaio.
Da parte mia, devo dire di essere rimasto molto meno rattristato della
mia bambinaia, perché avevo ben radicata in me la speranza che un
giorno avrei recuperato la libertà. Per quanto poi concerneva la
vergogna di essere mostrato come un prodigio, in quel paese mi sentivo
totalmente un estraneo; e chi mai avrebbe potuto rinfacciarmi quelle
sciagure al mio ritorno in Inghilterra, quando il Re in persona, se
fosse stato al mio posto, avrebbe dovuto subire lo stesso trattamento?
Seguendo il consiglio dell'amico, il padrone mi portò al mercato nella
città vicina rinchiuso in una scatola, portando con sé anche la
bambina, la mia piccola amica, che fece salire davanti a sé sul
cavallo. La scatola era chiusa, eccetto una porticina dalla quale
potevo entrare e uscire e alcuni fori fatti col succhiello per
permettermi di respirare. La bimba aveva avuto l'accortezza di
metterci dentro il materassino della bambola perché potessi sdraiarmi,
ma nonostante la brevità del percorso, fui sbatacchiato qua e là per
tutto il viaggio. Non bisogna infatti dimenticare che il cavallo
percorreva ad ogni passo la bellezza di dodici metri, provocando dei
sobbalzi paragonabili al beccheggio di una nave in preda alla più
furiosa delle tempeste, con una frequenza anche maggiore. Si trattava
di un viaggio poco più lungo che andare da Londra a Sant'Albano. Il
mio padrone prese alloggio alla locanda solita e, dopo aver parlato
per un po' con il locandiere e avere sistemato le cose, prese a nolo
un banditore, o "grultrud", perché desse notizia per tutta la città
che alla locanda dell'"Aquila Verde" era in mostra una creatura
portentosa, più piccola di un "splacnuck" (un animaletto di quei
luoghi assai minuto e lungo un metro e ottanta), simile in ogni parte
del corpo ad un essere umano, fornito di parola e capace di fare mille
mossettine.
Scelta la stanza più vasta della taverna, mi misero sulla tavola di un
trenta metri quadri. La mia piccola bambinaia si mise accanto alla
tavola, seduta su uno sgabello per proteggermi e dirmi cosa avrei
dovuto fare. Per evitare un sovraffollamento, il padrone fece entrare
solo trenta persone alla volta per assistere allo spettacolo. Seguivo
i comandi della bimba che ora mi diceva di camminare avanti e indietro
sul tavolo, ora mi faceva domande entro i limiti delle parole che
conoscevo e alle quali rispondevo più forte che potevo. Mi giravo più
volte verso gli spettatori, li ossequiavo, davo loro il benvenuto e
facevo loro altri discorsetti che avevo imparato. Poi alzavo un ditale
pieno di vino e, come fosse il mio calice, bevevo alla loro salute,
snudavo la spada mulinandola secondo le mosse della scherma inglese,
poi, preso un frammento di stoppia dalla bambina, facevo il lancio del
giavellotto imparato in gioventù.
Insomma in tutta la giornata feci dodici repliche, costretto a
ripetere sempre le stesse sciocchezze, finché fui mezzo morto di
fatica e di rabbia. Quelli che avevano assistito allo spettacolo,
riferivano tali meraviglie, e la gente premeva contro la porta della
locanda per entrare. Era nell'interesse del padrone che nessuno mi
toccasse, ad eccezione della bambina, e per questo aveva disposto
tutt'intorno al tavolo una fila di panche che mi tenevano fuori della
portata degli spettatori. Ci fu comunque uno screanzato di scolaro che
mi tirò una nocciolina in testa mancandomi per un pelo. Questa ricadde
con tale violenza che, se mi avesse colpito, mi avrebbe fatto saltare
il cervello, perché era grossa quasi come una zucca. Non mi dispiacque
certo vedere quel mascalzoncello preso a pedate e buttato fuori dalla
stanza.
Alla fine della giornata il mio padrone dichiarò pubblicamente che mi
avrebbe messo in mostra il prossimo giorno di mercato. Intanto,
seguendo le sue cure interessate, il padrone mi costruì un veicolo più
confortevole. Infatti ero così stanco dopo il viaggio e dopo aver dato
spettacolo per otto ore filate, che mi reggevo a mala pena in piedi,
senza avere la forza di pronunciare una parola. Mi ci vollero almeno
tre giorni per riprendermi, e dire che a casa non mi aspettava di
certo una vita tranquilla, perché tutti i signorotti del vicinato,
sentita la novità, vennero a vedermi a casa dell'agricoltore.
Entravano almeno una trentina alla volta, con mogli e figli (quel
paese è infatti assai popoloso) e per mostrarmi il padrone esigeva il
prezzo della sala al completo, anche se si trattava di una sola
famiglia. Per diverso tempo non ebbi un momento di pace per tutti i
giorni della settimana, ad eccezione del mercoledì, che è il loro
giorno di festa.
Il padrone, che cominciava a rendersi conto di quali guadagni gli
avrei procurato, decise di portarmi a fare il giro delle città più
importanti del regno. Sistemato il podere, procuratosi quanto era
necessario per un lungo viaggio, preso commiato dalla moglie, il 17
agosto 1703, a un due mesi dal mio arrivo su quella terra, il padrone
ed io ci mettemmo in cammino per la capitale, situata al centro del
regno e a circa tremila miglia dalla nostra casa. Sua figlia
Glumdalclitch salì sul cavallo dietro di lui, portando in grembo una
cassettina, nella quale ero rinchiuso, che si era legata alla vita. La
bambina l'aveva imbottita in ogni lato con la stoffa più fine che
aveva potuto trovare, poi ci aveva messo dentro il lettino della
bambola, coperte e tutto, rendendo l'ambiente il più possibile comodo.
Dietro di noi cavalcava, unica nostra compagnia, un ragazzo di fatica
che portava i bagagli.
Il padrone avea l'intenzione di presentarsi in tutte le città lungo il
cammino, disposto anche a deviare dalla via maestra di cinquanta
miglia o del doppio, per raggiungere quei villaggi o quelle dimore di
signorotti, dai quali si aspettava qualche guadagno. Il viaggio non fu
poi tanto faticoso, perché percorrevamo dalle centoquaranta alle
centosessanta miglia giornaliere; la buona Glumdalclitch, infatti,
ogni tanto diceva di essere sfinita, allo scopo di risparmiarmi. Di
quando in quando, su mia richiesta, lei mi faceva uscire dalla scatola
per prendere una boccata d'aria e ammirare il paesaggio, pur tenendomi
sempre ben stretto al guinzaglio. Passammo sopra cinque o sei fiumi
più larghi e più profondi del Nilo o del Gange; in quella terra anche
un ruscello ha la portata del Tamigi al Ponte di Londra. Il nostro
viaggio durò dieci settimane e organizzammo spettacoli in diciotto
città, senza contare i villaggi e le case private. Il 26 ottobre
arrivammo nella capitale che, nella loro lingua, è chiamata
Lorbrulgrud, o "Orgoglio dell'Universo". Il mio padrone alloggiò nella
strada principale, non lontano dal palazzo reale. Poi cominciò a fare
avvisi del solito tipo, con la descrizione della mia persona e del mio
ingegno; prese in affitto un salone immenso, ci fece mettere un tavolo
del diametro di diciotto metri, sul quale avrei tenuto le mie
rappresentazioni, facendolo circondare da una palizzata, tipo
ringhiera alta due metri, perché non cadessi di sotto. Detti
spettacolo dieci volte al giorno fra l'ammirazione generale. Parlavo
ormai la loro lingua decentemente e capivo benissimo quando mi
rivolgevano la parola, inoltre avevo imparato l'alfabeto e riuscivo a
tradurre anche qualche frase scritta; infatti Glumdalclitch mi aveva
insegnato a leggere quando eravamo a casa e nelle ore libere durante
il viaggio. Aveva sempre in tasca un libriccino, non molto più grande
di un atlante, che era un manuale di catechismo per bambine, sul quale
mi insegnò a riconoscere le lettere e quindi ad interpretare le
parole.













3 - LA CORTE MANDA A PRENDERE L'AUTORE. LA REGINA LO COMPRA
DALL'AGRICOLTORE E LO PRESENTA AL RE. DISPUTA CON I DOTTORI Dl CORTE.
GLI SI PREPARA UN APPARTAMENTO. GODE DEI FAVORI DELLA REGINA. DIFENDE
L'ONORE DELLA PATRIA. SUE SCHERMAGLIE CON IL NANO DELLA REGINA.

Il padrone diventava tanto più ingordo, quanto più aumentavano i
guadagni fatti a spese della mia salute la quale, sottoposta a tutti
quegli strapazzi, cominciava a risentirne seriamente. Avevo perso
l'appetito ed ero ridotto pelle e ossa, tanto che lui, convinto che ci
avrei lasciato la pelle in pochi giorni, era deciso a spremermi come
un limone. Mentre rimuginava fra sé questi propositi, si presentò un
gran ciambellano, o "slardral", con l'ordine di portarmi subito a
corte per divertire la regina e le dame di compagnia alcune delle
quali, che mi avevano già visto, avevano raccontato grandi cose della
mia bellezza, del mio comportamento e del mio buon senso.
Sua Maestà, insieme alle altre dame, rimase incantata oltre ogni dire
delle mie maniere cortesi. Mi inginocchiai e chiesi l'onore di potere
baciare il piede di Sua Maestà, ma Sua Grazia volle porgermi il
mignolo (mentre nel frattempo ero stato messo sopra un tavolo) che
presi fra le braccia portandolo, col più grande rispetto, alle labbra.
Lei mi fece alcune domande sul mio paese e sui viaggi che avevo fatto,
ed io le risposi quanto più succintamente mi fu possibile. Allora mi
chiese se avessi vissuto volentieri a corte. Mi prostrai fino a
toccare il piano del tavolo replicando con umili parole che ero lo
schiavo del mio padrone, ma che, se fosse dipeso da me, sarei stato
orgoglioso di dedicare la mia vita al servizio di Sua Maestà. Lei
chiese al padrone se era disposto a vendermi ad un prezzo ragionevole
e questi, convinto che avessi i giorni contati, non ci pensò due volte
chiedendo mille monete d'oro. Gli furono pagate immediatamente. Ogni
moneta era grossa come ottocento "moydores" portoghesi, ma se teniamo
presente la differenza di proporzioni fra quella terra e l'Europa, e
l'alto costo dell'oro in quel paese, quel prezzo non corrispondeva
nemmeno a mille ghinee inglesi.
Allora mi permisi di chiedere alla regina, ora che ero divenuto il suo
umile servitore e vassallo, il favore di far entrare al suo servizio
anche Glumdalclitch, che era stata sempre così dolce e premurosa con
me, in modo che potesse continuare ad essere la mia insegnante e la
mia nutrice. Sua Maestà accolse la richiesta e ottenne il consenso del
padre, felicissimo di avere una figlia a corte. La bambina non
nascondeva la sua gioia. Il mio padrone di un tempo si ritirò e mi
salutò dicendo che mi lasciava in buone mani; non dissi una parola e
mi limitai ad un lieve inchino del capo.
La freddezza del mio saluto non era sfuggita alla regina la quale,
uscito l'uomo, me ne chiese la ragione. Risposi a Sua Maestà in tutta
franchezza che ero riconoscente verso quell'uomo per non avermi
schiacciato sotto i piedi, quando per caso mi trovò nel suo campo, ma
che gli avevo lautamente ripagato ogni obbligo con i guadagni che
aveva fatto mostrandomi alle fiere paesane e, in ultimo, col ricavato
della mia vendita; che fino dal primo momento che avevo passato con
lui ero stato sottoposto ad una vita così massacrante, che avrebbe
ucciso un animale dieci volte più robusto di me, che la mia salute era
seriamente minata per lo strapazzo di dover divertire la gentaglia ad
ogni ora del giorno e che infine, se il mio padrone non avesse intuito
il mio deperimento, Sua Maestà non mi avrebbe certo comprato tanto a
poco. Ma aggiunsi anche che ora non avevo più nessun timore di essere
maltrattato, essendo sotto la protezione di una così grande e buona
imperatrice, ornamento della natura, diletto del mondo, delizia dei
sudditi, fenice della creazione, e che i timori del mio vecchio
padrone si sarebbero dimostrati infondati, perché mi sentivo già
rifiorire per influsso della augustissima presenza di Sua Maestà.
Fu questo in breve il mio discorso, pronunciato con grandi improprietà
ed incertezze, la cui ultima parte era stata formulata nello stile e
secondo l'etichetta di quel popolo, alcuni particolari della quale mi
erano stati insegnati da Glumdalclitch durante il nostro viaggio a
corte.
La regina, che si era dimostrata più che comprensiva nei confronti del
modo di esprimermi, rimase stupita nel trovare tanto spirito e buon
senso in un animaletto così minuscolo. Mi prese sul palmo della sua
mano e mi portò dal re che si era ritirato nei suoi appartamenti. Sua
Maestà il re, uomo di aspetto grave ed austero, mi dette appena uno
sguardo e chiese alla regina in maniera assai fredda, da quanto tempo
le era saltato in mente di invaghirsi degli "splacknuck". E non c'è
dubbio che, disteso com'ero sul palmo della mano della regina, lui mi
aveva preso per uno di quegli animaletti. Ma la sovrana, una donna di
spirito, dotata di un sottile senso dell'umorismo, mi mise in piedi
sullo scrittoio, pregandomi di raccontare al re le mie peripezie. Lo
feci con un breve discorsetto mentre Glumdalclitch, che fu fatta
entrare dopo essere stata impalata sulla soglia dello studiolo per
l'impazienza di starmi vicino, confermò tutto quanto era accaduto, dal
momento in cui ero stato portato a casa di suo padre.
Sebbene il re fosse una persona colta quanto altri mai in quel regno,
portato soprattutto alla filosofia e agli studi di matematica, dopo
avermi osservato con attenzione e avermi visto camminare eretto, prima
ancora che avessi parlato mi prese per un automa (un'arte che aveva
fatto grandi progressi in quel paese) costruito da qualche abilissimo
artefice. Ma quando mi sentì parlare e constatò che quanto dicevo era
proprio di un essere umano e razionale, non nascose il suo
sbalordimento. Tuttavia non volle credere a quanto gli avevo
raccontato riguardo al mio arrivo su quella terra, anzi lui pensava
che fosse tutta una bugia inventata da Glumdalclitch e suo padre, e
che quest'ultimo mi avesse messo in bocca quelle parole con l'unico
scopo di vendermi ad un prezzo più alto. Fisso su questa sua idea, mi
fece altre domande, alle quali risposi adeguatamente con il solo
difetto di un accento straniero e di una conoscenza limitata della
lingua, e magari con qualche espressione rozza imparata dal contadino
e certo non adeguata al raffinato codice della corte.
Il re mandò subito a chiamare tre sommi dottori che, secondo il
sistema di quella terra, erano di turno. Questi Signori, dopo avermi
esaminato con estrema attenzione, espressero pareri diversi, pur
concordando che non potevo essere nato secondo le normali leggi
naturali, perché nulla in me garantiva una capacità di conservazione
della specie; non avevo agilità, non sapevo arrampicarmi sugli alberi,
né scavare tane sotto terra. Dopo avermi passato in rassegna i denti,
con cura estrema, trassero la conclusione che ero un carnivoro, anche
se non riuscivano a capire in che modo potevo nutrirmi, visto che i
quadrupedi di quella terra erano troppo grossi per me, e i topi ed
altri animali consimili, troppo voraci, a meno che mi cibassi di
lumache o di altri insetti; ma con dottissimi argomenti finirono per
escludere anche questa ultima ipotesi.
Uno di loro sembrava convinto che fossi un embrione o un aborto; ma
gli altri due confutarono questa supposizione, dimostrando che tutte
le mie membra erano ben fatte e completamente sviluppate, rilevando
inoltre dai peli della barba, che poterono vedere con una lente
d'ingrandimento, che avevo un'età adulta. Impossibile poi considerarmi
un nano, perché la mia costituzione era minuta al di là di ogni
paragone, tanto è vero che lo stesso nano della regina, l'esserino più
piccolo del regno, era pur sempre alto nove metri. Dopo un lungo
dibattito vennero alla conclusione unanime che dovevo essere un
"relplum scalcath", che alla lettera vuol dire "lusus naturae", una
definizione che sarebbe piaciuta ai moderni filosofi europei, le cui
scuole disdegnano di ricorrere alla vecchia scappatoia delle cause
occulte, con le quali i seguaci di Aristotele cercano di mascherare la
loro ignoranza, a tutto vantaggio delle magnifiche sorti progressive
della umana conoscenza.
Giunti a questa conclusione decisiva, chiesi di avere umilmente la
parola. Rivolgendomi al re, lo informai che venivo da una terra dove
vivevano milioni di esseri, maschi e femmine, delle mie stesse
dimensioni; una terra dove animali, alberi e case erano tutti in
proporzione con gli uomini, dove di conseguenza ero in grado di
difendermi e di sostentarmi allo stesso modo in cui avveniva per i
sudditi di Sua Maestà. Credevo di aver dato una risposta esauriente a
quei signori, i quali tuttavia risposero con un sorrisetto sprezzante,
riconoscendo che magari avevo imparato bene la lezione del contadino.
Il re, che aveva molto più sale in zucca, congedò quei saggi e mandò a
chiamare il contadino il quale, per fortuna, non aveva ancora lasciato
la città. Prima di tutto il re parlò con lui in sede privata, poi lo
mise a confronto con me e con la bambina; dopo di che cominciò a
pensare che quanto gli avevamo raccontato potesse essere vero. Volle
dunque che la regina desse ordine che mi trattassero con ogni riguardo
e che Glumdalclitch continuasse a prendersi cura di me, perché aveva
visto quanto affetto ci univa.
Le fu destinato un comodo appartamento a corte, inoltre ebbe una
governante che si sarebbe occupata della sua educazione, una cameriera
per vestirla ed altre due inservienti per faccende più umili; ma
prendersi cura di me sarebbe stato suo unico privilegio. La regina
ordinò al suo ebanista che mi costruisse una cassettina come camera da
letto, secondo i desideri miei e di Glumdalclitch. Questo uomo era un
artigiano ingegnosissimo e, nel tempo di tre settimane, mi preparò una
cameretta lignea di venticinque metri quadrati, alta tre, con finestre
scorrevoli, una porta e due spogliatoi, che non aveva nulla da
invidiare ad una camera londinese. Il ripiano che faceva da soffitto
si alzava, girando su due cardini, per poterci calare dentro il letto
preparatomi dal tappezziere del re. Tutte le mattine Glumdalclitch lo
tirava fuori per dargli aria, me lo rifaceva con le sue stesse mani,
poi la sera lo rimetteva dentro, avendo cura di chiudere a chiave il
coperchio dopo che ero entrato. Un valente costruttore, famoso per
certi suoi modelli in miniatura, si mise al lavoro per farmi due
sedie, fornite di schienale e pioli, con un materiale simile
all'avorio, ed inoltre due tavoli e un armadio nel quale avrei potuto
tenere le mie cosucce. La stanza era imbottita da ogni lato, compreso
il pavimento e il soffitto, per prevenire eventuali sbadataggini di
quanti avrebbero trasportato la cassettina, e soprattutto per attutire
le scosse quando sarei andato in carrozza. Volli che mi mettessero una
serratura alla porta per difendermi dai topi e il fabbro, prova e
riprova, mi costruì la più piccola serratura che si fosse mai vista in
quel paese, mentre io ne ho vista una più grande solo alla porta di un
signorotto inglese. Temendo che Glumdalclitch potesse perderla, tenni
la chiave in una delle mie tasche. La regina ordinò le sete più fini
sul mercato per farmi fare degli abiti; fu trovata una stoffa molto
più spessa di quella per i lenzuoli e, finché non mi ci abituai, mi ci
sentii molto impacciato. Mi vestirono dunque secondo la moda di quel
regno, tra il persiano e il cinese, ma in ogni caso in maniera più che
seria e decorosa.
La regina amava tanto la mia compagnia che non si sedeva a tavola
senza di me. Avevo un tavolino ed una sedia che venivano sistemati sul
tavolo della regina, accanto al suo braccio sinistro. Glumdalclitch
stava seduta su di un banchetto vicino alla tavola per assistermi e
prendersi cura di me. Avevo un servizio completo di piatti, scodelle e
posate d'argento che, in confronto a quelli della regina, non erano
più grandi di quelli che ho visto una volta a Londra, in un negozio di
giocattoli, per arredare una casa da bambola. La mia piccola bambinaia
teneva le stoviglie in una cassettina d'argento che si portava in
tasca, tirandole fuori all'ora dei pasti e avendo cura di pulirle di
persona. Con la regina pranzavano solo le due principessine, la
maggiore di sedici anni e la più piccola di tredici e un mese.
Sua Maestà mi metteva sul piatto un pezzetto di carne ed io ne
tagliavo una piccola porzione, ma il suo divertimento era proprio nel
vedere quel pranzo in miniatura, dal momento che lei (che pure era di
stomaco delicato) in un solo boccone ingoiava quanto possono mangiare
una dozzina di mietitori inglesi al pranzo della battitura, una vista
che qualche volta non mancava di darmi il voltastomaco. Stritolava fra
i denti un'ala d'allodola, ossa e tutto, sebbene nove volte più grossa
di un tacchino cresciuto, accompagnandola con un pezzo di pane più
grande di un paio di pagnotte da dodici pence. Beveva in un calice
d'oro e ad ogni sorso mandava giù il contenuto d'una botte. I coltelli
erano grandi il doppio di una falce considerando anche il manico, e
della stessa proporzione erano le altre posate. Ricordo che una volta
Glumdalclitch mi portò a fare il giro delle altre tavole apparecchiate
dove c'erano una dozzina di coltelli e forchette portentose in azione;
devo dire di non aver mai visto in vita mia una scena tanto
terrificante.
Tutti i mercoledì (che, come ho già detto, è il loro giorno festivo),
la regina e i figli di tutti e due i sessi facevano colazione
nell'appartamento del re; e poiché ero diventato il suo favorito, in
queste occasioni il mio tavolino veniva sistemato alla sua sinistra,
davanti alla saliera. Al re piaceva moltissimo conversare con me e mi
chiedeva dei costumi, della religione, della legge, della politica e
della cultura europea, mentre cercavo di rispondergli nella maniera
più esauriente. Aveva un'intelligenza così lucida ed una facoltà di
giudizio così esatta, che faceva riflessioni ed osservazioni sagge su
quanto gli raccontavo. Ma devo tuttavia confessare che, un giorno in
cui mi ero dilungato un po' troppo a parlare della mia patria diletta,
dei nostri commerci, delle guerre per terra e per mare, degli scismi
religiosi, dei partiti, i pregiudizi della sua educazione presero a
tanto il sopravvento, che non poté fare a meno di prendermi sul palmo
della mano e, accarezzandomi scherzosamente con l'altra e ridendo di
cuore, di chiedermi se ero un "whig" o un "tory". Quindi, rivolgendosi
al primo ministro, che stava in piedi accanto a lui con un bastone
bianco in mano, alto più dell'albero maestro della nave reale "La
Sovrana", disse malinconicamente che l'umana grandezza era ben poca
cosa, se minuscoli insetti come me potevano arrogarsene il diritto:
"Eppure scommetto," aggiunse poi, che anche questi esserini hanno i
loro bravi titoli e le cariche onorifiche, costruiscono piccoli nidi e
catapecchie che chiamano case e città; ostentano vesti e carrozze,
fanno all'amore, combattono, disputano, truffano, tradiscono..." E
continuò di questo passo mentre sentivo il sangue salirmi alla testa
al solo sentire disprezzata la nostra nobile patria, maestra nelle
arti e nelle armi, sferza della Francia, arbitra dell'Europa, sede di
tutte le virtù, della pietà, dell'onore, della verità, orgoglio ed
invidia dell'universo.
Ma poiché non ero in condizioni di rintuzzare queste ingiurie,
pensandoci sopra cominciai a dubitare di essere stato realmente
offeso. In effetti, dopo essermi abituato per mesi a vedere e a
conversare con quella gente, a osservare oggetti proporzionalmente
maestosi, il primitivo sgomento provato al cospetto di quelle moli
gigantesche era in me tanto svanito che, se avessi visto allora un
gruppo di signori inglesi con le loro dame, vestiti con il lusso più
sfarzoso, che recitavano il rituale di corte pavoneggiandosi, facevano
riverenze, cinguettando fra di loro, a dire la verità mi sarebbe
venuta una gran voglia di ridere loro in faccia, così come questo
sovrano e i suoi dignitari avevano fatto nei miei confronti. D'altra
parte non potevo trattenermi dal sorridere anche di me stesso,
allorché la regina, prendendomi in mano, mi metteva davanti allo
specchio, attraverso il quale vedevo contemporaneamente le nostre due
figure; ed era così ridicolo quel confronto, che credevo di essermi
rimpicciolito rispetto alle mie normali dimensioni.
Nulla mi mandava più in bestia e mi mortificava del nano della regina
che, essendo la creatura più piccola di quel regno (credo che non
fosse più alto di nove metri), al vedere un intruso tanto più
minuscolo di lui, era diventato di un'insolenza insopportabile. Quando
mi passava vicino nell'anticamera della regina, mentre me ne stavo
discorrendo con signore e signori di corte, non mancava mai di fare il
gradasso e di pavoneggiarsi, o di lanciarmi qualche battuta cocente
sulla mia statura. A mia volta lo chiamavo fratello, lo invitavo a
farsi sotto, con altre stoccate pungenti che usano i paggi di corte.
Un giorno a pranzo questo maligno nanerottolo, preso dalla stizza per
qualche mio motto arguto, salito sul tramezzo della sedia della
regina, mi afferrò per la vita e mi gettò in una tazza di panna
dandosela a gambe. Affondai fin sopra la testa e me la sarei vista
brutta, se non fossi stato un nuotatore provetto, tanto più che in
quel momento Glumdalclitch si trovava dall'altra parte della stanza e
la regina era così terrorizzata, che non ebbe la presenza di spirito
di aiutarmi. Per fortuna la mia piccola bambinaia mi venne in soccorso
tirandomi fuori, dopo che avevo ingoiato un bel po' di panna. Mi
misero subito a letto, anche se tutto il danno si risolse nella
perdita del mio abito, irrimediabilmente imbrattato. Il nano si buscò
una buona dose di frustate e fu costretto a trangugiare tutta la tazza
di panna; inoltre da quel giorno non rientrò più nei favori della
regina, che, poco dopo, lo affidò ad una dama di alto rango. Fu quella
l'ultima volta che lo vidi, con mia grande gioia, perché non so
immaginare a che punto di malvagità avrebbe potuto spingerlo il suo
livore.
Già un'altra volta mi aveva giocato un tiro mancino che aveva fatto
ridere la regina di cuore, non senza indignarla subito dopo e a tal
punto che, se non avessi generosamente interceduto per lui, sarebbe
stato cacciato immediatamente. Sua Maestà aveva preso un osso buco e,
vuotatolo del midollo, l'aveva rimesso sul piatto per dritto, come
stava prima; il naso colse il momento a volo e, mentre Glumdalclitch
era vicino alla credenza, salì sul suo sgabello, mi prese per le gambe
e mi infilò fino al petto dentro all'osso, dove rimasi a dondolare in
quella posizione ridicola. Mettermi a urlare mi sembrava indecoroso,
così per qualche istante gli altri non si resero conto di quello che
mi era sussesso. Per fortuna i principi non mangiano mai cibi troppo
caldi, così che non riportai scottature alle gambe, sebbene avessi
ridotto calze e pantaloni in uno stato pietoso. Per mia intercessione
il nano se la cavò con una frustata.
Succedeva spesso che la regina si prendesse gioco di me per la mia
paura e mi chiedeva se i miei compatrioti fossero altrettanto codardi.
Era dovuto al fatto che quella terra è, in estate, letteralmente
invasa dalle mosche e quegli insetti ripugnanti, grossi come le
allodole di Dunstable, non mi davano pace durante il pranzo con il
loro ronzio, anzi spesso si posavano sul mio cibo lasciandovi uova ed
escrementi che apparivano in bella vista ai miei occhi, non a quelli
degli altri commensali dotati di una vista più lunga ma molto meno
acuta della mia. A volte mi si posavano sul naso o sulla fronte e mi
punzecchiavano sul vivo con quel loro tanfo repellente, mentre seguivo
con gli occhi quella materia purulenta grazie alla quale, come
affermano i naturalisti, possono camminare sul soffitto. Avevo un gran
daffare per difendermi contro questi animali ripugnanti e non potevo
fare a meno di sobbalzare quando mi si posavano sul volto. Il nano si
divertiva a catturare diverse mosche, come fanno da noi gli scolari,
per liberarle poi tutte insieme sotto il mio naso, con mia grande
paura e divertimento della regina. Allora cercavo di dar loro una
stoccata al volo, con grande abilità che destava l'ammirazione
generale.
Ricordo che una mattina Glumdalclitch mi aveva messo sul davanzale
della finestra con la mia cassettina, come faceva sempre nei giorni di
bel tempo per farmi prendere un po' d'aria; non volevo infatti che la
cassetta fosse appesa ad un chiodo come si fa in Inghilterra con le
stie. Avevo appena aperto una finestra e mi ero seduto a tavola a fare
colazione con un pezzo di torta, quando un nugolo d vespe, attratte
dall'odore, entrò nella stanza con un ronzio forte simile a quello dei
bordoni di cento cornamuse. Alcune ridussero in briciole la torta e se
la portarono via, altre si misero a girarmi intorno alla faccia,
stordendomi con il frastuono, terrorizzandomi con i loro pungiglioni.
Con un atto di coraggio riuscii a estrarre la spada e a attaccarle in
volo; ne uccisi quattro, mentre le altre volarono via, dopo di che mi
precipitai a chiudere la finestra. A questi insetti, grossi come
pernici, tolsi i pungiglioni, lunghi quattro centimetri e aguzzi come
aghi. Li conservai per ricordo e, dopo averli mostrati in diversi
paesi europei insieme ad altre rarità al mio ritorno in Inghilterra,
ne regalai tre al Gresham College conservando il quarto per me.








4 - DESCRIZIONE DEL PAESE. UNA PROPOSTA PER CORREGGERE LE CARTE
GEOGRAFICHE. IL PALAZZO REALE E LA CAPITALE. MODO TENUTO DALL'AUTORE
NEL VIAGGIARE. DESCRIZIONE DELLA CATTEDRALE.

Vorrei fornire al lettore una breve descrizione di questo paese, nei
limiti delle mie esperienze di viaggio, che coprirono un duemila
miglia tutto intorno alla capitale Lorbrulgrud. Facevo parte del
seguito della regina che, quando accompagnava il re nelle sue
ispezioni, non oltrepassava mai questo limite, ma si fermava ad
aspettarlo fino al suo ritorno dalle frontiere. I territori di questo
sovrano si estendono per quasi seimila miglia in lunghezza e da tre a
cinquemila miglia in larghezza. Dal che deduco che i nostri geografi
commettono un errore grossolano, quando credono che tra il Giappone e
la California ci sia solo acqua. Sostengo al contrario che deve pur
esserci una terra che controbilanci il gran continente della Tartaria,
per cui oggi dovrebbero correggere le loro carte, aggiungendo questa
larga fascia di terra con il settore nord-occidentale dell'America, ed
io sono disposto a dare loro una mano.
Questo regno è una penisola delimitata ad oriente e a settentrione da
una catena di montagne alte trenta miglia, rese invalicabili da tutta
una serie di vulcani. Nemmeno i più saggi hanno la più pallida idea se
al di là di queste montagne viva una qualche razza di uomini e quale
essa sia. Per i tre quarti la penisola è lambita dal mare, ma in tutto
il regno non c'è un porto, tanto più che agli estuari dei fiumi le
coste sono talmente punteggiate di scogli e il mare che vi si frange è
così impetuoso, che nessuno vi si è mai avventurato, nemmeno con un
canotto: ne deriva che questi popoli sono tagliati fuori da ogni
contatto con il resto del mondo. Ma all'interno i fiumi più grandi
sono un'ottima via di commercio e ricchissimi di pesce; è infatti
assai raro che questa gente peschi pesci di mare, che hanno più o meno
le stesse dimensioni di quelli europei e sono per loro una misera
frittura. Da questo si può dedurre che la natura ha scelto questa
terra per dare una dimostrazione della propria potenza con la
creazione di piante ed animali giganteschi, anche se lascio ai
filosofi spiegarne la ragione. Succede comunque che di tanto in tanto
questa gente catturi una balena che sia andata a incagliarsi sugli
scogli e che costituisce per loro un ottimo cibo. Si tratta di balene
mostruose che un uomo riesce a stento a trasportare sulle spalle e che
spesso vengono portate nella capitale ed esposte come pesce pregiato.
Una di queste venne servita alla mensa reale, anche se al re non
piacque molto, nauseato forse dalla sua grandezza che, in ogni caso,
non raggiungeva quella di certe balene che ho visto in Groenlandia.
Questa è una terra molto popolata e infatti conta cinquantuno città,
un centinaio di cittadelle circondate da mura, oltre a un numero
imprecisato di villaggi. Per dare un'idea al sagace lettore, basterà
che gli descriva Lorbrulgrud, la vasta capitale che si estende in due
parti pressoché uguali sulle sponde di un fiume fino a comprendere un
totale di ottomila case. Ha un'estensione che in lunghezza arriva a
tre "glonglungs" (una loro misura che corrisponde a cinquantaquattro
miglia) e in larghezza a due e mezzo. Ho tratto le misura dalla pianta
reale della città, disegnata dall'ordine reale dei topografi, grande
una trentina di metri. Perché la potessi misurare agevolmente, me la
distesero per terra ed io, a piedi scalzi, calcolai il diametro e la
circonferenza e, tenendo presente la scala, credo di avere dato misure
esatte.
Il palazzo reale non è formato da un'unica costruzione, bensì da un
gruppo di edifici che si estendono per una circonferenza di sette
miglia. I saloni principali sono alti settantacinque metri e lunghi in
proporzione. Quando Glumdalclitch usciva con la sua governante per una
passeggiata o per far compere, veniva loro assegnata una carrozza; in
genere mi univo alla compagnia, chiuso nella mia scatola, o assai più
spesso in mano alla bambina che mi mostrava i palazzi e la folla
durante il percorso. Sebbene non ne sia matematicamente certo, credo
che la nostra carrozza fosse grande come Westminster-Hall e appena un
po' più bassa.
Un giorno la governante fece fermare la carrozza davanti a vari
negozi, dove mi capitò di osservare le scene più orrende mai viste da
occhio europeo: c'era una donna con un tumore al petto, che era
cresciuto in maniera mostruosa, tutto pieno di buchi in molti dei
quali sarei potuto precipitare tutto lungo; un uomo aveva una verruca
sul collo più grossa di cinque sacchi di lana; un altro poi aveva
gambe di legno alte sei metri. Ma lo spettacolo più ripugnante era
costituito dai pidocchi che brulicavano sulle loro vesti, tanto più
che vedevo questi insetti distintamente, con tutte le parti del corpo,
mentre grufolavano con i grugni porcini, molto meglio di quanto si
possono studiare al microscopio i pidocchi europei. Era la prima volta
che mi si mostrava una tale scena e avrei desiderato dissezionare uno
degli insetti, se per disgrazia non avessi lasciato i miei strumenti e
i bisturi sulla nave, sebbene quella vista repellente mi avesse già
dato il voltastomaco.
Oltre alla cassetta solita, la regina volle che me ne fosse costruita
una più piccola, di un tre metri per due, più maneggevole per i viaggi
e tale da non stancare Glumdalclitch, che la portava in grembo, e per
non ingombrare la carrozza. Come già era accaduto per la prima, fu
eseguita dal solito artigiano, che seguiva i miei suggerimenti. Si
trattava di una cassettina da viaggio, perfettamente quadrata, con una
finestra al centro di tre delle pareti, protetta da grate per
prevenire incidenti nei lunghi viaggi. All'esterno della quarta
parete, priva di finestre, erano fissati due anelli attraverso i quali
il portatore infilava una cinghia di cuoio che poi si allacciava
attorno al torace. Il compito di portarmi sulle spalle in questa mia
cassettina era delegato, in assenza di Glumdalclitch, a qualche
servitore fidato e serissimo, sia che facessi parte del seguito che
accompagnava i reali nei loro viaggi, o che discendessi con loro nei
giardini, o mi recassi a far visita a qualche grande dama o a qualche
ministro di stato. Infatti i nobili del regno erano entrati in
confidenza con me e mi stimavano, forse più per il favore dimostratomi
dal re che per mio merito. Quando, durante i viaggi, la carrozza mi
veniva a noia, un servo a cavallo si allacciava al petto la mia
scatola, posandola su di un cuscino innanzi a lui e da quella altezza
mi potevo godere, attraverso le tre finestre, una completa panoramica
del paesaggio. Questa cassetta portatile era dotata di un lettino da
campo, un'amaca sospesa al soffitto, un tavolino e due sedie, fissati
al pavimento per evitare che venissero gettati qua e là dagli scossoni
del cavallo o del calesse. A me, d'altra parte, quel beccheggio
violento non dava un gran fastidio, abituato com'ero agli
interminabili viaggi di mare.
Se poi mi pigliava il pallino di fare un giretto per la città,
Glumdalclitch si teneva in grembo la cassettina stando seduta in una
portantina aperta, come si usa in quei luoghi, portata da quattro
uomini e affiancata da altri due in livrea di corte. La gente, che
aveva sentito parlare di me, si affollava intorno alla portantina; la
bambina allora faceva fermare i lacchè e, presomi in mano, mi mostrava
tutt'intorno.
Volevo vedere la cattedrale e soprattutto il suo campanile, che tutti
dicono sia la torre più alta del regno. La mia bambinaia un giorno
volle accontentarmi e mi condusse a vederlo, anche se ne ritornai
deluso, perché da terra alla guglia non supera i trecento metri,
un'altezza che in fondo, considerata la differenza fra loro e noi
europei, non è che faccia restare a bocca aperta e tale da non reggere
il confronto, fatte le debite proporzioni, con il campanile di
Salisbury, se non vado errato. Non voglio con questo degradare in
alcun modo quel paese, al quale mi sentirò obbligato per tutta la
vita, perché, quanto a quella torre mancava in altezza, veniva
recuperato ampiamente in bellezza e in imponenza. Le mura, in pietra
viva, hanno uno spessore di trenta metri ed ogni bozza è dodici metri
quadrati; esse sono adornate da ogni parte da statue marmoree di dei e
imperatori, più grandi che al vero, sistemate dentro delle nicchie. Il
caso volle che misurassi un mignolo che, caduto da una di quelle
statue, giaceva tra la spazzatura senza che nessuno se ne fosse
accorto; esso aveva la rispettabile lunghezza di un metro e mezzo.
Glumdalclitch lo avvolse in un fazzoletto e se lo portò a casa, dove
lo ripose fra altri gingilli di cui era molto gelosa, come fanno del
resto le bambine di quell'età.
Le cucine reali sono un bell'esempio di architettura, alte un duecento
metri e ricoperte a volta. Il forno principale è un dieci passi più
basso della cupola di San Paolo a Londra, che al mio ritorno sono
andato di proposito a misurare. Ma se mi dovessi mettere a descrivere
l'attaccapentole, i tegami, le cuccume, gli spiedi che giravano con i
loro arrosti, forse non mi credereste ed anzi qualcuno mi accuserebbe
di esagerare, come fanno spesso i viaggiatori. Ed invece, proprio per
evitare questa tentazione, sono andato all'estremo opposto; tanto è
vero che, se mai questo libro dovesse essere tradotto nella lingua di
Brobdingnag (che è il nome di questo regno) e fosse inviato in questo
paese, non mancherebbe il risentimento del re e del suo popolo, che ho
in qualche modo offeso dandone una rappresentazione riduttiva.
Le stalle reali accolgono fino a un massimo di seicento cavalli, alti
una ventina di metri. Quando il re percorre la città per qualche
festività solenne, è scortato da una guardia d'onore di cinquecento
cavalli; non credevo di aver mai visto nulla di più grandioso, finché
non mi capitò di vedere parte del suo esercito in ordine di battaglia;
ma ci sarà un'altra occasione per parlarne.


5 - AVVENTURE DELL'AUTORE. UN'ESECUZIONE CAPITALE. L'AUTORE DA' PROVA
DELLA SUA ABILITA' DI MARINAIO.

Racconterò alcune di quelle avventure imbarazzanti e ridicole a cui mi
esponeva la minuscola statura in quella terra nella quale, per altro,
avrei potuto vivere abbastanza felice. Glumdalclitch aveva l'abitudine
di portarmi spesso con la mia cassettina nei giardini di corte, anzi a
volte mi faceva uscire, prendendomi in mano o facendomi camminare per
terra. Ricordo che un giorno il nano ci venne dietro (naturalmente
avvenne prima che fosse cacciato dalla reggia) e poiché la mia custode
mi aveva posato per terra, il nano ed io ci trovammo gomito a gomito
sotto un filare di meli nani, e non voglio con questa sciocca
allusione fare l'arguto, come accade spesso in questo e nel nostro
paese. Quel mascalzone aspettò che, mentre passeggiavo, passassi sotto
uno di quegli alberi, per scrollarmelo sulla testa. Sentii una dozzina
di mele, grosse come botti di Bristol, fischiarmi nelle orecchie,
finché una mi cadde sulla schiena mentre stavo chino, buttandomi a
terra. Per fortuna non mi fece granché e volli che il nano fosse
perdonato, perché ero stato io a provocarlo.
Un altro giorno Glumdalclitch mi depose in un prato soffice e liscio
perché mi svagassi, mentre lei passeggiava nei paraggi con la
governante. Nel frattempo venne uno scroscio di grandine che mi gettò
a terra e i chicchi mi coprirono il corpo di lividi così grandi che
sembrava quasi che fossi stato lapidato con palle da tennis. Riuscii
comunque a strisciare carponi fin sotto una siepe di timo, dove mi
distesi supino dalla parte sottovento. Ma ero così ammaccato da capo a
piedi, che per dieci giorni dovetti restare tappato in casa. E non c'è
da meravigliarsene, perché la natura in quei luoghi rimane in ogni suo
azione fedele alle proporzioni, cosìcche un chicco di grandine è
ottocento volte più grosso di un chicco europeo; ve lo posso dire per
esperienza, perché ho voluto togliermi lo sfizio di misurarli.
Ma in quello stesso giardino mi accadde di peggio. Un giorno la
piccola custode, acconsentendo alle mie insistenze di essere lasciato
solo per un po' con i miei pensieri, mi depose in un luogo
apparentemente sicuro e, avendo lasciato a casa la scatola, raggiunse
la governante e altre signore in un'altra parte del giardino. Era
ormai abbastanza lontana da non potermi più sentire, quando capitò nei
paraggi il barboncino bianco del giardiniere. Dopo avere fiutato in
giro, il cane mi trovò e, presomi in bocca, corse dal suo padrone e mi
depose scodinzolando felice ai suoi piedi. Per fortuna era un cane ben
ammaestrato e mi portò fra i denti senza il minimo graffio o la minima
lacerazione delle vesti. Ma non potete immaginare la paura del povero
giardiniere che mi conosceva bene ed era stato sempre gentilissimo nei
miei confronti. Quando mi sollevò fra le mani e mi chiese come stavo,
ero così frastornato, senza fiato, da non riuscire a dire una parola.
Quando dopo poco mi ripresi, il giardiniere mi portò dalla mia custode
che, nel frattempo, essendo ritornata a cercarmi nel luogo di prima,
stava sulle spine perché non riusciva a vedermi né a farsi sentire. Lì
per lì se la prese con il giardiniere, ma la cosa fu messa a tacere e
non fu mai risaputa a corte per non far arrabbiare la regina. Da parte
mia non mi opposi di sicuro, per non rovinarmi la reputazione con ciò
che era accaduto.
Questo incidente indusse in ogni caso Glumdalclitch a non fidarsi mai
e a non perdermi di vista. Questa era una decisione che temevo da
tempo, infatti le avevo nascosto via via certi incidenti non gravi, ma
spiacevoli, che mi erano capitati. Una volta un nibbio, librandosi sul
giardino, fece una picchiata proprio su di me e se non avessi
sguainato la spada andandomi a nascondere sotto una folta siepe, mi
avrebbe portato via tra gli artigli. Un'altra volta camminavo
sull'orlo di un buco di talpa scavato di fresco, quando vi precipitai
dentro fino al collo e dovetti inventare non so quale bugia per
giustificare gli abiti infangati. Mi capitò anche di sbucciarmi gli
stinchi andando a sbattere contro il guscio di una lumaca, mentre solo
soletto pensavo alla mia povera Inghilterra.
Non so dire se fosse per me più piacevole o mortificante vedere che,
durante quelle passeggiate solitarie, nemmeno i passeri avevano paura
di me, mentre mi venivano intorno in cerca di vermiciattoli e di altro
cibo, con sovrana indifferenza. Ricordo che un tordo arrivò al punto
di portarmi via di mano un pezzo di torta che Glumdalclitch mi aveva
dato per colazione. Se poi cercavo di catturare qualcuno di questi
uccelli, mi si rivoltavano contro tentando di pizzicarmi le dita, che
tenevo fuori della loro portata, per poi tornarsene pacificamente a
saltellare qua e là in cerca di vermi e di lumache. Un giorno,
procuratomi un robusto randello, riuscii ad assestare un bel colpo ad
un fanello che precipitò a terra stordito; lo presi per il collo con
entrambe le mani per portarlo trionfante alla mia piccola custode. Ma
l'uccello, ripresosi dallo stordimento, cominciò a sbattermi le ali
sul volto e su tutto il corpo così impetuosamente che, sebbene lo
tenessi lontano a braccia distese, anche per evitare i suoi artigli,
fui più di una volta sul punto di lasciarlo andare. Per fortuna
accorse uno dei servi che gli dette una bella tirata di collo e il
giorno dopo mi fu servito a pranzo per volere della regina. Per quanto
posso ricordare, quel fanello era un po' più grosso di un cigno.
Le damigelle di corte invitavano spesso nei loro appartamenti
Glumdalclitch perché volevano che mi portasse con sé per vedermi da
vicino e toccarmi. Capitava allora che mi spogliassero da capo a piedi
per infilarmi quanto ero lungo in seno, dove provavo un senso di
disgusto perché, ad essere sinceri, dalla loro pelle emanava un afrore
disgustoso; e non lo dico per mancanza di rispetto a quelle dame
sublimi, per le quali nutro il più alto rispetto. Ma penso di avere un
olfatto acutissimo in proporzione al mio corpo minuto, mentre quelle
illustri damigelle erano senza meno attraenti per i loro amanti, o
l'una nei confronti dell'altra, così come accade per le persone dello
stesso rango in Inghilterra. Dopo tutto, l'odore naturale della loro
pelle era molto più tollerabile di quando si mettevano il profumo, che
aveva l'immediato effetto di farmi perdere i sensi. Ricordo ancora che
un carissimo amico di Lilliput si lamentò, in un giorno afoso durante
il quale avevo fatto attività fisica, per il forte afrore che emanavo,
sebbene non possa non riconoscere di avere questo difetto, come non ce
l'ha la maggior parte degli uomini. Penso invece che avesse un odorato
finissimo nei miei confronti, così come accade a me con questa gente.
E qui non posso non rendere giustizia alla regina, mia padrona, e a
Glumdalclitch, mia piccola bambinaia, così fragranti nel fisico quanto
le dame d'Inghilterra.
Quello che mi metteva più a disagio, quando la mia custode mi portava
a far visita a queste damigelle, era quel loro modo di trattarmi senza
riguardi, come una creatura incapace di provare qualsiasi sensazione.
Loro infatti si spogliavano completamente per mettersi la camicia,
proprio innanzi a me. Mi mettevano sopra la toeletta ed io mi trovavo
proprio di rimpetto ai loro corpi nudi i quali, a dire il vero, non
costituivano affatto una vista provocante, né suscitavano in me altro
senso, se non di disgusto ed orrore. Avevano una pelle così scabra e
rugosa, così chiazzata, quando la vedevo da vicino, con qua e là dei
nèi grandi come scodelle, con peli penduli più grossi dello spago da
imballaggio, che non è necessario che mi dilunghi sul resto del loro
corpo. Né si facevano scrupolo di fare i loro bisogni in mia presenza,
una quantità di almeno due botti in un vaso di adeguata capacità. La
più carina di queste damigelle, una ragazzina di sedici anni, mi
metteva a cavalcioni su uno dei suoi capezzoli e mi faceva altri
giochetti sui quali, col permesso del lettore, preferirei sorvolare.
Alla fine me ne dispiacque così tanto, che chiesi a Glumdalclitch di
inventare qualche scusa per non rivedere mai più quella signorina.
Un giorno venne il nipote della governante per invitare lei e
Glumdalclitch ad assistere ad un'esecuzione capitale. Si trattava di
un tizio che aveva assassinato un suo amico. Sebbene contro voglia, la
mia buona bambinaia, dal cuore così tenero, fu costretta ad aggregarsi
alla compagnia. Quanto a me, sebbene fossi alieno da simili
spettacoli, fui tentato di assistere a qualcosa che mi sembrava
straordinaria. Il malfattore venne legato ad una sedia, sopra un palco
costruito appositamente, poi con un colpo secco di una spada lunga
dodici metri gli venne mozzata la testa. Vene ed arterie scagliarono
in aria un tale fiotto di sangue da superare il grande "Jeu d'Eau" di
Versailles, mentre la testa, rotolando sul palco, fece un tale
frastuono da farmi sobbalzare, sebbene fossi distante un miglio.
Abituata com'era a sentirmi parlare di arte nautica, e tutta tesa a
trovare ogni occasione per farmi svagare quando ero giù di spirito, la
regina mi chiese un giorno se sapevo manovrare una vela e se me la
cavavo bene coi remi; poi mi chiese se per caso non fosse un buon
ristoro fare una rematina. Le risposi naturalmente che ero esperto in
materia dal momento che, per quanto medico di bordo, se occorreva
dovevo lavorare come un comune marinaio. Ma non vedevo come potevo
fare simili esercizi in quel paese, dove il più piccolo scafo era
grande almeno come un nostro veliero da guerra, e in acque dove era
impossibile che reggesse una barchetta adatta alle mie dimensioni. Sua
Maestà rispose che, se avessi progettato una barca adeguata al mio
caso, l'avrebbe fatta costruire da un suo carpentiere e avrebbe
pensato lei a trovare un posto adatto dove farla navigare. Il
carpentiere era un artigiano abilissimo che in dieci giorni, seguendo
le mie istruzioni, portò a termine il modellino funzionante di una
barca, fornita di sartiame, sulla quale avrebbero potuto prendere
posto otto persone come me. La regina ne rimase estasiata e la portò
in grembo al re il quale la fece mettere, con me dentro, in una
vaschetta. Ma purtroppo non c'era spazio per manovrare. La regina
aveva in mente un'altra idea: fece costruire al falegname un trogolo
di legno lungo novanta metri, largo quindici e profondo due. Dopo
averlo ben bene impeciato per evitare che perdesse, fu sistemato sul
pavimento dell'anticamera, lungo la parete. Due servi potevano
riempirlo in mezz'ora e quando l'acqua cominciava a farsi stantìa,
veniva fatta defluire attraverso un tubo sistemato sul fondo. Venivo
spesso a remarci per mio piacere e per divertire la regina e le altre
dame, grandi ammiratrici della mia maestria e agilità. Talvolta alzavo
la vela e non avevo poi da far altro che reggere il timone, sospinto
dal venticello dei loro ventagli o dal fiato di qualche paggio, e
magari dando spettacolo di abilità, poggiando ora a destra ora a
sinistra, a mio piacimento. Quando avevo finito, Glumdalclitch portava
la barca dentro la mia cassetta e l'appendeva ad un chiodo per farla
asciugare.
Una volta però mi capitò un incidente che avrebbe potuto costarmi la
vita. Un paggio aveva messo in acqua la barchetta e la governante di
Glumdalclitch, nella dignità delle sue funzioni, stava per depormici
dentro, quando le scivolai fra le dita e sarei caduto sul pavimento
dall'altezza di dodici metri, se per fortuna non fossi rimasto
impigliato ad uno spillone appuntato sul busto della signora. Infatti
la punta dello spillo mi si infilò fra la camicia e i calzoni
agganciando la cintola, tanto che rimasi a mezz'aria finché
Glumdalclitch venne in mio soccorso.
Un'altra volta avvenne che uno di quei servi sbadati, che ogni tre
giorni dovevano cambiare l'acqua del trogolo, non si accorse che fra
un secchio e l'altro aveva lasciato cadere nel trogolo anche un bel
ranocchio. Questo, che si era andato ad acquattare in qualche angolo,
appena entrai nella barchetta, credendola un ottimo galleggiante, vi
saltò sopra facendola inclinare da una parte, mentre mi gettavo con
tutto il mio peso dall'altra per impedirle di rovesciarsi. Allora il
ranocchio cominciò a saltare qua e là sulla barca, sopra la mia testa,
imbrattandomi tutto con il suo limo disgustoso. L'enorme dimensione ne
faceva l'animale più informe che si possa concepire; nonostante ciò
rifiutai l'aiuto di Glumdalclitch e volli misurarmi con lui, finché lo
misi in fuga a colpi di remo.
Ma il pericolo più serio lo corsi per colpa di una scimmia che
apparteneva ad uno sguattero della cucina reale. Glumdalclitch era
occupata da qualche parte, così mi aveva chiuso nella sua stanza con
le finestre spalancate per il caldo torrido. Erano aperte anche quelle
della cassetta più grande, che prediligevo per l'ampiezza e la
comodità. Me ne stavo seduto al tavolino a pensare, quando sentii un
tonfo arrivare dalla finestra e qualcosa che saltellava nella stanza.
Senza muovermi dalla sedia, mi sporsi in avanti per guardare, non
senza paura, e vidi questo animale bizzarro che, ruzzando, saltellava
su e giù, finché arrivò vicino alla cassetta scrutandola, pieno di
curiosità e di stupore, fuori e dentro, facendo capolino alla porta e
alla finestra. Dapprima mi ritirai nell'angolo più lontano della
scatola poi, terrorizzato dalla scimmia che indagava da tutte le
parti, ebbi la presenza di spirito di ficcarmi sotto il letto. Per un
po' continuò a far capolino, ghignando e squittendo, ma alla fine mi
vide e, infilando una zampa attraverso la porta, come fa il gatto con
il topo, sebbene mi spostassi continuamente, mi acchiappò per le falde
della giacca (che erano di seta paese spessa e resistente)
trascinandomi fuori. Mi sollevò con la zampa anteriore e mi strinse al
petto come fa una balia col bambino (infatti mi è capitato di vedere
questa specie di animali comportarsi in maniera simile coi gattini).
Al minimo tentativo di reagire, mi strinse così forte che pensai fosse
più prudente avere un atteggiamento di sottomissione. Con l'altra
zampa mi accarezzava continuamente e credo proprio che mi avesse preso
per uno dei suoi piccoli. Nel bel mezzo di queste sue espressioni di
affetto, fu disturbata da certi rumori che provenivano dalla porta,
come se qualcuno stesse per entrare; con un balzo fu sul davanzale
della finestra da cui era venuta e, camminando a tre zampe e
stringendomi con la quarta tra tegole e grondaie, si arrampicò sul
tetto vicino al nostro. Sentii il grido di Glumdalclitch che mi vide
portare via. La povera bambina era disperata, l'intero palazzo
sottosopra, i servitori correvano con le scale e a centinaia videro la
scimmia seduta sul cornicione di un palazzo che mi stringeva come un
suo scimmiottino con una zampa mentre con l'altra mi dava da mangiare
costringendomi a ingozzare frammenti di cibo che si cavava dalle borse
laterali della bocca, picchiandomi quando mi rifiutavo di obbedire. La
scena era, se non per me, abbastanza comica e non posso risentirmi con
quanti si misero a ridere. Molti cominciarono a lanciare sassi,
sperando di far scendere la scimmia, ma era un tentativo pericoloso
che venne immediatamente proibito per paura che mi colpissero
facendomi schizzare le cervella.
Ormai avevano appoggiato le scale e molti stavano salendo, quando la
scimmia, vistasi circondata, incapace di correre a tre zampe, mi
lasciò sul tetto e scappò via. Rimasi lì un bel pezzo a cinquecento
metri dal suolo, sul punto di precipitare, di momento in momento, di
tegola in tegola fino in fondo, spinto da un colpo di vento o tradito
dalle vertigini. Finalmente un bravo ragazzo, uno dei lacchè della mia
bambinaia, mi prese e, infilatomi nella tasca dei calzoni, mi portò a
terra.
Ero mezzo soffocato da quella robaccia che la scimmia mi aveva ficcato
in gola, ma la piccola, dolce custode me ne tolse più che poté con uno
spillo, dopo di che riuscii a vomitare con grande sollievo. Dovetti
rimanere a letto un paio di settimane per la gran spossatezza che mi
sentivo addosso e per le ammaccature che quella bestia mi aveva
provocato con la sua presa. Durante la malattia, il re, la regina e
tutta quanta la corte mandarono a chiedere notizie della mia salute, e
la regina in persona non mancò di farmi ripetutamente visita. La
scimmia venne uccisa e fu dato ordine tassativo di non introdurre
animali simili a palazzo.
Quando guarii, resi visita al re per ringraziarlo delle sue premure e
lui scherzò non poco, prendendomi in giro per quanto mi era capitato.
Mi chiese a che cosa pensassi quando mi trovavo in braccio alla
scimmia, se era di mio gradimento il cibo e il suo modo di imboccare,
se infine non mi avesse stuzzicato l'appetito l'aria fina dei tetti.
Volle sapere poi cosa avrei fatto se mi fosse capitato qualcosa di
simile al mio paese; ma gli risposi che noi non abbiamo scimmie, e
quelle che vengono esibite come animali esotici, sono così piccole che
avrei potuto tenerne a bada una dozzina, se avessero osato attaccarmi.
Per quanto poi riguardava quel mostruoso animale col quale avevo avuto
a che fare (grande non meno di un elefante), se la paura non mi avesse
paralizzato, impedendomi di ricorrere alla spada (mentre parlavo avevo
uno sguardo truce e portavo la mano all'elsa), nel momento in cui
allungava la zampa gli avrei forse assestato un colpo così terribile,
che l'avrebbe ritirata più in fretta di quanto l'aveva protesa. Parlai
col tono risoluto di chi non sopporta che il suo coraggio venga messo
in discussione, anche se ebbe come unico effetto quello di far ridere
a crepapelle tutti i presenti, incapaci di trattenersi sebbene di
fronte a Sua Maestà. Questo mi fece riflettere su quanto siano vani
tutti i tentativi che facciamo per salvare l'onore al cospetto di
quanti ci sono superiori, o con i quali non abbiamo la minima
possibilità di confronto. Eppure da quando sono ritornato in
Inghilterra ho visto un simile atteggiamento in certe miserabili
persone che, senza la minima nobiltà di natali, di meriti, d'ingegno,
o di senso comune, assumono un atteggiamento altezzoso mettendosi
sullo stesso piano degli uomini più grandi del regno.
Non c'era giorno che non fornissi alla corte motivo di riso con
qualche storiella faceta e Glumdalclitch, pur con tutto il suo affetto
per me, aveva imparato con malizia a raccontare alla regina tutte le
sciocchezze che facevo per farla ridere. Un giorno in cui la bambina
era stata poco bene, fu portata dalla governante a prendere un po' di
aria buona a trenta miglia dalla città. Quando fummo scesi dalla
carrozza, vicino a un sentiero di campagna, Glumdalclitch posò a terra
la scatola per farmi sgranchire le gambe. Sul sentiero c'era una bella
fatta di vacca ed io detti sfoggio della mia abilità cercando di
saltarla. Presi la rincorsa ma purtroppo il salto era troppo corto,
per cui ci piombai in mezzo fino al ginocchio. Me ne tirai fuori a
fatica ed uno dei lacchè dovette pulirmi alla meglio con il fazzoletto
ma ero talmente imbrattato, che dovetti rimanere per tutto il viaggio
rinchiuso nella cassetta. La regina lo venne a sapere e il lacchè si
preoccupò di diffondere la notizia al resto della corte, così che per
qualche giorno risero tutti alle mie spalle.



















6 - ESPEDIENTI DELL'AUTORE PER INGRAZIARSI I SOVRANI. OSTENTA LA SUA
ABILITA' Dl MUSICISTA. RISPONDE ALLE DOMANDE DEL RE SUI PAESI EUROPEI.
OSSERVAZIONI DEL SOVRANO.

Una o due volte alla settimana assistevo al risveglio del re e
capitava spesso che lo vedessi farsi radere, una scena a prima vista
raccapricciante. Il rasoio era grande più del doppio di una falce
comune. Sua Maestà si radeva, come accade in quel paese, due volte
alla settimana. Una volta riuscii a farmi dare dal barbiere un
bioccolo di spuma dal quale tirai fuori quaranta o cinquanta
robustissimi peli. Poi presi una tavoletta di legno alla quale detti
la forma di un dorso di pettine, facendoci una serie di fori ad uguale
distanza uno dall'altro con uno spillo sottilissimo datomi da
Glumdalclitch. Ci fissai i peli a furia di raschiarli e appuntirli
verso la punta, fino a costruirmi un pettine decente, ed in ogni caso
un valido sostituto del mio, ormai inservibile per aver perso quasi
tutti i denti. E poi, chi altri in quel posto era capace di
costruirmene uno nuovo così minuscolo e preciso?
Questa prima prova mi mise in testa un'altra idea, la cui
realizzazione occupò molte delle mie ore libere. Chiesi alla cameriera
della regina di mettermi da parte i capelli di Sua Maestà rimasti sul
pettine, finché ne ammucchiai abbastanza. Mi rivolsi poi all'artigiano
che mi aveva costruito la cassettina e al quale era stato ordinato di
mettersi a mia disposizione per qualsiasi lavoretto che mi fosse
servito, chiedendogli di farmi la struttura di due sedie, come quelle
che aveva già costruito per la mia stanzetta. Poi gli dissi di fare
tutta una serie di fori con una lesina sottilissima intorno alla
spalliera e al sedile; passai i capelli più robusti attraverso questi
fori, proprio come si fa con le sedie di canna che si usano in
Inghilterra. Quando le ebbi finite, le regalai alla regina che da
allora in poi le custodì in camera sua per mostrarle come una rarità
eccezionale, fra l'ammirazione di quanti le videro. La regina avrebbe
voluto che mi fossi seduto su una di esse, ma rifiutai con sdegno,
sostenendo che avrei preferito affrontare mille volte la morte,
piuttosto che deporre una parte poco onorevole di me stesso su quei
preziosi capelli che un tempo avevano adornato la testa di Sua Maestà.
Siccome ho il pallino delle arti manuali, con i capelli restanti feci
un borsellino lungo un metro e mezzo, con sopra ricamato in lettere
d'oro il nome della regina, e lo regalai a Glumdalclitch con il
consenso della sovrana. Ad essere sinceri era più per bellezza che per
altro, poiché non avrebbe retto il peso di una moneta; ma lei non ci
teneva nulla, o al massimo certe cosucce che alle bambine piace
conservare.
A corte si davano frequenti concerti, poiché il re era amante della
musica. Ci portavano spesso anche me, sistemando la mia cassetta sopra
un tavolo; ma quei suoni erano così forti, che non riuscivo a cogliere
il motivo. Era come se tutte le fanfare e i tamburi dell'esercito
reale mi suonassero nelle orecchie. Avevo preso l'abitudine di far
sistemare la cassetta il più lontano possibile, di chiudere porte e
finestre e tirare le cortine: solo così quella musica cominciava a
piacermi.
Da ragazzo avevo imparato a strimpellare qualche motivo alla spinetta.
Glumdalclitch ne aveva una in camera sua dove si esercitava due volte
alla settimana sotto la guida di un maestro di musica. La chiamo
spinetta, perché più o meno somigliava a questo strumento e la si
suonava nello stesso modo. Mi venne in mente che avrei potuto suonare
al re e alla regina qualche motivetto inglese su questo strumento. Ma
era un'impresa disperata, perché la spinetta era lunga quasi diciotto
metri ed ogni tasto misurava una trentina di centimetri, così che
anche a braccia aperte non avrei potuto abbracciare più di cinque
tasti. Inoltre per premere un tasto ci voleva una forza maggiore di
quella che avevo, anche se avessi suonato con i pugni. Tanta fatica
non sarebbe servita a nulla. Ma inventai un nuovo metodo che
consisteva in questo: preparai due bastoni, grossi come comuni mazze,
più larghe da un lato; poi felpai la base più larga con pelle di topo
in modo che, battendoci, non avrei danneggiato i tasti e non avrei
interrotto il ritmo. Davanti alla spinetta fu posta una panca, poco
più in basso della tastiera, sulla quale correvo avanti e indietro
battendo i tasti giusti coi miei batacchi. Riuscii così ad eseguire
una giga con gran divertimento delle Loro Maestà. Certo fu l'esercizio
fisico più pesante che avessi mai affrontato, sebbene non riuscissi a
premere più di sedici tasti e non fossi capace, di conseguenza, di
suonare contemporaneamente in chiave di violino e di basso, come fanno
i veri musicisti, con limiti non indifferenti per la mia esecuzione.
Accadeva spesso che il re, uomo sagace e d'intelletto finissimo, come
ho già avuto modo di riferire, mi volesse sopra la sua scrivania con
la scatola e tutto; mi faceva accomodare su di una delle mie
seggioline a un tre metri di distanza dal suo volto, per cui venivo a
trovarmi allo stesso livello, e in questo modo si svolsero fra noi
diverse discussioni. Un giorno mi presi la libertà di dirgli che i
suoi pregiudizi nei confronti dell'Europa e degli altri paesi del
mondo non erano degni delle altissime qualità di cui era dotata la sua
mente; che la ragione non era affatto proporzionale alle dimensioni
del corpo, tanto è vero che al mio paese si diceva che i più alti
fossero i più minchioni; che nel regno animale spettava alle api e
alle formiche il primato della industriosità, della abilità e della
sagacia; che per quanto mi potesse considerare un essere da nulla,
tuttavia speravo di vivere tanto da potere rendere a Sua Maestà
qualche servigio eminente. Lui, che mi aveva ascoltato con interesse,
cominciò a farsi di me un'opinione migliore. Volle che gli facessi una
precisa descrizione dell'Inghilterra poiché, se come monarca era
profondamente attaccato ai propri ordinamenti (e così dovevano essere
anche gli altri, come aveva capito dalle mie parole), non per questo
sarebbe stato meno felice di conoscere quelle leggi che meritano di
essere imitate.
Ti immaginerai, cortese lettore, quanto avessi ardentemente desiderato
di avere la lingua di Cicerone e di Demostene, per poter essere in
grado di celebrare adeguatamente le lodi della mia patria diletta, e
con essa lo stile adatto ai suoi meriti e alla sua prosperità.
Cominciai dunque la mia dissertazione informando Sua Maestà che i
nostri stati sono composti di due isole che comprendono tre grandi
regni sotto un unico sovrano, oltre alle colonie d'America.
Mi soffermai a lungo a illustrare la fertilità del suolo e la mitezza
del clima. Passai quindi a descrivere diffusamente il parlamento
inglese composto, da una parte, da quell'illustre consesso detto
Camera dei Pari, di cui fanno parte persone di nobilissimo sangue e di
antica, cospicua ricchezza. Descrissi la severa educazione che veniva
loro impartita nel campo delle arti e in quello delle armi, per farne
i consiglieri del re e del regno, membri del corpo legislativo,
dell'inappellabile alta corte di giustizia, campioni pronti a dedicare
il loro valore, l'integrità e la fedeltà alla causa del re e della
patria. Dissi che erano questi l'ornamento e il baluardo del regno,
degna stirpe di illustrissimi antenati che ebbero nell'onore l'unica
ricompensa alla virtù, che mai sarebbe mancata in nessuno dei loro
discendenti. A questi si univano, come parte integrante
dell'assemblea, santi uomini col titolo di vescovi, con il compito
specifico di curare la religione e quanti si dedicano al suo
insegnamento fra il popolo. E' il sovrano in persona con i suoi
consiglieri più saggi a cercarli in tutto il paese scegliendoli fra
quei preti che hanno acquisito meritatissima fama per la santità della
vita e la dottrina profonda, veri padri spirituali del clero e del
gregge.
Dissi ancora che l'altro ramo del parlamento era costituito da
un'assemblea detta Camera dei Comuni, composta dai migliori
gentiluomini, liberamente designati dal popolo, in considerazione
della loro capacità e dell'amor patrio, a rappresentare la saggezza
della nazione. Questi due rami costituiscono la più augusta assemblea
che si abbia in Europa e ad essa viene affidata, insieme al re,
l'attività legislativa.
Fu quindi la volta delle corti di giustizia le quali, sotto la
presidenza dei giudici, saggi e venerandi interpreti della legge,
hanno il compito di sentenziare sulle contese dei diritti e delle
proprietà, di punire il vizio e di proteggere l'innocenza. Non
dimenticai di accennare alla saggia amministrazione delle nostre
finanze, nonché al valore e all'efficienza delle nostre forze di terra
e di mare; quindi gli dissi il numero globale della nostra
popolazione, calcolando quanti milioni di anime potessero appartenere
all'una o all'altra setta religiosa o a questo o a quel partito
politico. Non dimenticai i nostri sport e i nostri svaghi e ogni altro
aspetto del nostro vivere civile che potesse tornare ad onore della
patria. Conclusi con un breve profilo storico degli eventi che si sono
svolti in Inghilterra nell'ultimo secolo.
Questa conversazione continuò per cinque udienze, ognuna di un'ora,
con la massima attenzione del sovrano, il quale spesso prendeva nota
di quanto dicevo, segnandosi a parte le domande che mi avrebbe poi
rivolto.
Appena ebbi finito questo lungo resoconto, in una sesta udienza, Sua
Maestà consultò i suoi appunti e mi sottopose tutta una serie di
dubbi, di domande e di obiezioni su ogni argomento. Cominciò col
chiedermi quali metodi seguivamo per temprare il corpo e coltivare la
mente dei nostri nobili rampolli e in quali occupazioni venivano
impegnati nell'età in cui si può plasmare un individuo; in quali modi
l'assemblea riempiva i vuoti aperti dalla fine di qualche nobile
famiglia; quali doti erano richieste a quelli che sarebbero diventati
i nuovi lord. E poi se fosse mai capitato che gli umori del principe,
la corruzione di una dama di corte o di un primo ministro, il progetto
di rafforzare un partito contro l'interesse pubblico, avessero
agevolato tali promozioni. Quale fosse la conoscenza che questi lord
avevano della legge del loro paese, e se fosse tale da permettere loro
di decidere, senza appello, della proprietà dei loro compatrioti. Se
fossero immuni da avarizia, favoritismi, ingordigia, tanto da
respingere con sdegno somme di denaro o infami complotti. Inoltre mi
chiese se quei santi uomini, come li avevo definiti, avessero
raggiunto l'episcopato per la loro dottrina in materia di religione e
per la santità della loro condotta, dopo avere respinto per tutta la
loro carriera di preti ogni interesse temporale; o se per caso non si
fossero prostituiti a certi nobili, di cui avrebbero continuato a
servire gli interessi una volta ammessi all'assemblea.
Volle poi sapere quali raggiri si compivano per eleggere quelli che
avevo chiamato rappresentanti ai Comuni; se, per esempio, uno
straniero con la borsa piena fosse in grado di comprarsi i voti
destinati al signore locale, o a qualche altro nobile del circondario.
In che modo si spiegava che alcuni desiderassero fortemente di far
parte di questa assemblea, quando io stesso avevo messo in risalto il
fastidio e la spesa che questa carica richiedeva, tale da gettare sul
lastrico le loro famiglie; da questo loro modo di agire emergeva un
così alto grado di virtù civica e di interesse per il pubblico bene
che a Sua Maestà veniva qualche sospetto che quei signori non fossero
completamente sinceri. Volle infatti sapere se quei gentiluomini, così
animati da zelo, non avessero in mente di rifarsi abbondantemente
della fatica e delle spese sostenute, sacrificando il pubblico bene
agli scopi di un principe inetto e vizioso, in combutta con qualche
ministro corrotto. Su questo punto mi fece un'infinità di domande,
valutando attentamente la questione e proponendomi tali e tanti
interrogativi ed obiezioni, che credo prudente non riferire.
C'erano molte cose che Sua Maestà desiderava sapere a proposito dei
nostri tribunali ed io ero in grado di rispondere con cognizione di
causa, perché in passato ero stato mezzo rovinato da un lungo processo
in cancelleria, per il quale avevo dovuto pagare le spese. Mi chiese
quanto tempo e quanto denaro ci voleva per risolvere una causa; se gli
avvocati potevano difendere cause apertamente ingiuste, vessatorie e
oppressive; se i partiti politici e le fazioni religiose avevano peso
sulla giustizia; se gli avvocati erano persone educate al senso
universale della giustizia o solamente esperti degli usi e dei costumi
nazionali, provinciali o puramente locali; se costoro o i loro giudici
avevano collaborato alla stesura di quelle leggi che poi
interpretavano e glossavano a loro piacimento; se era mai accaduto che
costoro avessero avuto, in tempi diversi, il ruolo di difensori e di
accusatori nella medesima causa, costringendo i testi a dimostrare il
contrario di quanto avevano testimoniato; se la loro fosse una
corporazione ricca o povera; se ricevevano parcelle in denaro per
difendere le cause o esprimere pareri; se, infine, venissero ammessi a
far parte della Camera dei Comuni.
Il discorso cadde quindi sull'amministrazione della finanza pubblica.
Secondo Sua Maestà la memoria doveva avermi tradito, perché avevo
calcolato l'introito annuo dell'erario in circa cinque o sei milioni,
mentre le uscite del bilancio da me riferite ammontavano a più del
doppio. Tenne a dirmi che su questo argomento aveva preso appunti
precisi, perché sperava che il nostro sistema finanziario gli avrebbe
fornito utili suggerimenti, e che quindi i calcoli che aveva fatto
erano esatti. Se, dunque, quanto gli avevo detto era vero, non
riusciva a rendersi conto di come un regno potesse spendere tanto di
più di quanto gli era permesso, come accade ad un comune cittadino. E
allora, quali erano i nostri creditori? E dove trovavamo i soldi per
pagarli?
Quando mi sentì parlare di certe guerre lunghe e pesanti cadde dalle
nuvole e pensò che noi fossimo un popolo attaccabrighe, i nostri
vicini pessime persone e i nostri generali più ricchi dei satrapi. Mi
chiese quali interessi avevamo fuori delle nostre isole, esclusi
naturalmente i traffici commerciali, sanciti da trattati, e la difesa
costiera. Ma soprattutto rimase sorpreso quando mi sentì parlare di un
esercito mercenario mantenuto anche in periodo di pace e in un paese
libero. Se eravamo governati, come avevo sostenuto, da rappresentanti
che noi stessi avevamo eletto, non riusciva a capacitarsi di chi
avevamo paura o contro chi mai avremmo dovuto combattere; e poi mi
chiese espressamente se una casa privata non fosse difesa meglio dal
padrone, dai figli e dall'intera famiglia, piuttosto che da una mezza
dozzina di canaglie raccattate con quattro soldi in mezzo alla strada,
le quali avrebbero guadagnato cento volte di più sgozzando chi
dovevano difendere.
Rise della mia buffa aritmetica (come si compiacque di definirla) con
la quale calcolavo il numero degli abitanti dividendoli in sette
politiche e religiose. Disse che non capiva come quelli che
professavano opinioni dannose per il pubblico bene dovessero essere
obbligati a cambiarle, né perché non dovessero essere obbligati a
nasconderle; perché, se nel primo caso l'atteggiamento è quello della
tirannia, nel secondo è quello della debolezza; alla fin fine si può
permettere al singolo cittadino di avere veleni in casa sua, ma non di
venderli come sciroppi.
Mi fece osservare che, fra i passatempi della nobiltà, avevo fatto
riferimento al gioco. Volle sapere a che età si cominciava a
praticarlo e a quale a smetterlo; quanto tempo gli veniva dedicato; se
poteva in certi casi intaccare il patrimonio, se gente abbietta e
corrotta riusciva, con l'abilità nel gioco, ad accumulare ricchezze
tali da avere i nobili in pugno o abituarli a pessime compagnie,
distraendoli completamente dalla cura dello spirito e costringendoli,
a furia di perdite, ad esercitare quell'arte infame sugli altri.
Rimase letteralmente sbalordito a sentire la storia degli avvenimenti
che si erano verificati negli ultimi cento anni, bollandoli come un
cumulo di cospirazioni, ribellioni, assassini, massacri, rivoluzioni,
esili: gli effetti peggiori che l'avarizia, la faziosità, l'ipocrisia,
la perfidia, la crudeltà, la rabbia, la follia, l'odio, l'invidia, la
brama, la malizia e l'ambizione possono produrre.
In un'altra udienza Sua Maestà ricapitolò quanto gli avevo detto
confrontando le domande con le risposte; poi, dopo avermi preso in una
mano, e passandomi l'altra sui capelli con un gesto di benevolo
rimprovero, mi rivolse le seguenti parole, che non dimenticherò mai,
né per la sostanza, né per il modo in cui le disse: "Mio piccolo amico
Grildrig, mi hai fatto un gran panegirico della tua patria,
dimostrandomi che le qualità essenziali per diventare un legislatore
sono l'ignoranza, l'ozio e il vizio; che le leggi sono spiegate,
interpretate ed applicate in maniera ineccepibile da quanti hanno
interesse e abilità nel pervertirle, confonderle ed eluderle. Qualche
aspetto delle vostre istituzioni può essere stato almeno tollerabile
in origine, ma ormai è cancellato ed il resto si è deteriorato nella
corruzione. Da quanto hai detto non sembra affatto che, ad un certo
ruolo nella società, debba corrispondere una certa condotta di vita, e
tanto meno che i nobili vengano dichiarati tali in nome della loro
virtù, che i preti vengano promossi per la pietà e la dottrina, i
soldati per il valore, i giudici per l'integrità, i senatori per
l'amore del paese, i cancellieri per la saggezza. Certo spero che tu,
che hai passato gran parte della vita viaggiando, sia immune dai molti
vizi del tuo paese, ma da quello che ho sentito dalle tue relazioni e
dalle risposte che ti ho tirato fuori a gran fatica, non posso fare
altro che ritenere la maggior parte dei tuoi compatrioti la razza più
perniciosa di vermiciattoli detestabili a cui la natura abbia permesso
di strisciare sulla faccia della terra."









7 - AMOR PATRIO DELL'AUTORE. IL RE RIFIUTA UNA PROPOSTA
VANTAGGIOSISSIMA. IGNORANZA DEL RE IN POLITICA. IMPERFETTA E LIMITATA
CULTURA Dl QUEL POPOLO. LE LEGGI, L'ESERCITO E I PARTITI POLITICI.

Solo l'ineludibile amore della verità mi ha impedito di omettere
questa parte del racconto. Invano provavo a manifestare il mio
risentimento; era costantemente messo in ridicolo, e non mi rimaneva
altro che sopportare con pazienza, mentre la mia patria veniva così
atrocemente ingiuriata. Sono profondamente dispiaciuto, al pari di
ogni mio lettore, che le cose siano andate in questo modo, ma il
sovrano era tanto curioso e pignolo, che la gratitudine e le buone
maniere mi obbligavano a dargli soddisfazione. A mia discolpa si potrà
dire almeno che seppi eludere abilmente molte delle sue domande e che
nelle risposte riuscii ad addolcire la realtà dei fatti, molto più di
quanto la nuda verità potrebbe tollerare, dimostrando per la mia
patria quell'encomiabile parzialità che Dionigi d'Alicarnasso
raccomanda giustamente allo storico. Non parlai dunque delle debolezze
e delle corruzioni politiche della mia terra natale, cercando di
mettere in una luce propizia bellezze e virtù, e a questo scopo puntai
con tutte le mie forze durante le conversazioni con quel monarca,
anche se sfortunatamente non ebbi successo.
Ma allo stesso tempo bisogna saper comprendere anche un re che vive
escluso dal resto del mondo, completamente all'oscuro degli usi e dei
costumi vigenti negli altri paesi; in uno stato d'ignoranza, dunque,
che è il più favorevole al sorgere dei pregiudizi e di una visuale
ristretta che, noi europei, abbiamo di gran lunga superato. E sarebbe
un bell'affare se i concetti di vizio e di virtù di un principe così
lontano dovessero far testo per tutta l'umanità!
A conferma di quanto ho detto e per dimostrare più ampiamente gli
effetti meschini di una educazione limitata, racconterò un fatto
incredibile. Sperando di ingraziarmi ancora di più quel sovrano, gli
parlai di un'invenzione avvenuta tre o quattrocento anni or sono. Si
trattava della preparazione di una certa polvere capace, anche in gran
quantità, di incendiarsi in un attimo, al minimo contatto con una
scintilla, e di saltare in aria con tutto ciò che c'era intorno, col
fragore e lo sconquasso di un tuono. Gli dissi che se si pressava
dentro un tubo di bronzo o di ferro una certa quantità di questa
polvere, in proporzione allo spessore della canna, sarebbe stata
capace di lanciare una palla di piombo o di ferro con tanta forza, che
niente avrebbe potuto sostenere l'urto. Grosse palle, lanciate così,
non solo sbaragliavano con un solo colpo intere schiere di un
esercito, ma radevano al suolo le mura più solide, affondavano galeoni
con mille uomini a bordo e, se incatenate fra loro, tranciavano alberi
e cordame, squarciavano centinaia di corpi, seminando la distruzione
sulla loro scia. Gli dissi che si potevano riempire di questa polvere
anche mastodontiche palle di ferro, che poi venivano lanciate con
apposite macchine da guerra all'interno di città sotto assedio, dove
erano capaci di squarciare il selciato, di ridurre in frantumi le case
lanciando schegge da ogni parte, facendo saltare le cervella a quanti
fossero nelle vicinanze. Di questa polvere conoscevo i componenti, e
gli dissi che erano comunissimi e a buon mercato, che sapevo la misura
degli ingredienti e che avrei potuto insegnare agli artigiani come
costruire tubi grossi in proporzione alle dimensioni di quel regno;
che i più lunghi potevano raggiungere trenta metri e che una trentina
di quei tubi, caricati con la polvere e le palle, sarebbero stati in
grado di radere al suolo le mura fortificate delle più grandi città
del regno in poche ore, compresa la stessa capitale, se mai avesse
osato discutere i suoi ordini. Offrii dunque a Sua Maestà questo
segreto, come umile tributo di riconoscenza del suo favore e della sua
protezione.
Il re rimase inorridito dalla descrizione di quelle terribili macchine
e dalla proposta che gli avevo fatto. Non sapeva capacitarsi come un
insettuccio debole e impotente come me (questa fu la sua definizione),
potesse concepire idee così abominevoli, perverse e irresponsabili,
senza mostrare il minimo segno di commozione davanti a tutte le scene
di sangue e di distruzione che gli avevo presentato come effetto di
quelle terribili macchine, e concluse che il loro inventore doveva
essere stato qualche genio del male, nemico dell'umanità. Quanto a
lui, disse con estrema severità, che per quanto niente lo avesse mai
attratto come le nuove scoperte nel campo delle arti e della natura,
avrebbe preferito perdere metà del suo regno, piuttosto che conoscere
questo segreto ed anzi mi proibì categoricamente di parlarne, se avevo
cara la vita.
Strani effetti di una vista corta e di una mentalità ristretta! Come
si può pensare che un principe in possesso di tutte le qualità che lo
rendono degno di venerazione, stima ed amore, dotato di virtù virili,
grande saggezza e profonda cultura, fornito di un ammirevole talento
nel governare i sudditi che lo adoravano, avesse potuto lasciarsi
sfuggire di mano l'occasione di diventare padrone assoluto della vita,
della libertà e delle fortune del suo popolo, per uno scrupolo
infondato e superfluo, inconcepibile a noi europei? E non lo dico con
l'intenzione di sminuire le virtù innumerevoli di quell'eccellente
monarca, la cui personalità sembrerà di certo assai ridotta agli occhi
del lettore inglese proprio per queste sue idee; credo piuttosto che
questo suo limite abbia origine dall'ignoranza, nel non avere
considerato la politica una scienza come hanno fatto i più acuti
ingegni europei. Ricordo benissimo che un giorno, conversando con il
re, quando dissi che avevamo varie migliaia di libri sull'"arte del
governo", lui trasse da questa informazione conclusioni diametralmente
opposte a quelle che intendevo, che cioè il nostro ingegno fosse
proprio meschino. Dichiarò di aborrire e disprezzare i misteri, gli
artifici e gli intrighi tanto nei sovrani che nei ministri. Non sapeva
dire cosa intendessi con segreto di stato, quando non si aveva a che
fare né con nemici né con nazioni rivali. Tutta la sua conoscenza del
governare si limitava a poche cose: al buon senso e alla ragione, alla
giustizia e alla clemenza, alla velocità nel compimento delle cause
civili e penali e ad altri luoghi comuni che non vale la pena di
menzionare. Secondo lui, chiunque fosse riuscito a fare crescere due
spighe di grano o due fili d'erba dove ne cresceva uno solo, avrebbe
reso un servizio al suo paese e all'umanità, tanto più grande
dell'intera progenie dei politicanti messi insieme.
La cultura di questo popolo è grandemente limitata e consiste
esclusivamente nello studio della morale, della storia, della poesia e
della matematica. In queste materie bisogna riconoscere che eccellono,
anche se quest'ultima è applicata esclusivamente a tutto ciò che può
dimostrarsi utile nella vita, dall'agricoltura alle arti meccaniche.
Di conseguenza raccoglierebbero ben poca stima presso di noi. Per
quanto concerne idee astratte, entità, trascendenza non mi riuscì mai
di ficcargliele in testa.
Le leggi scritte di quel paese non superano mai il numero delle
ventidue lettere dell'alfabeto e sono pochissime quelle che
raggiungono una simile lunghezza. Inoltre sono formulate in parole
semplici e piane, perché queste persone non sono abbastanza acute da
scoprire più di un senso in una parola, tanto è vero che commentare
una legge è un delitto capitale. Per quanto concerne le cause civili o
penali, hanno così scarsi precedenti, che non sono certo in grado di
vantare grande esperienza.
Da tempo immemorabile conoscono l'arte della stampa come i Cinesi, ma
non hanno per questo grandi biblioteche. Quella reale, che è la più
grande, non supera il migliaio di volumi; essa è sistemata in una
galleria lunga trecentosessanta metri ed ebbi il permesso di
consultare i testi a mio agio. L'artigiano della regina aveva
costruito nella camera di Glumdalclitch una macchina di legno, alta
più di sette metri, simile a una scala a pioli, con gradini lunghi
quindici metri. Era una doppia scala mobile con i piedi a circa tre
metri dalla parete. Mentre il libro che mi interessava veniva
appoggiato alla parete, salivo sul gradino più alto della scala e
cominciavo a leggere da sinistra camminando verso destra per otto o
dieci passi, a seconda della lunghezza delle righe. Ad ogni riga del
libro scendevo un gradino fino ad arrivare in fondo alla scala, dopo
di che salivo di nuovo per leggere la pagina accanto e, ancora, per
girare pagina con tutte e due le mani, perché era spessa e rigida come
un cartone lungo sei metri.
Hanno uno stile chiaro, virile, scorrevole e mai fiorito, perché non
c'è nulla che sfuggono quanto le parole superflue o le espressioni di
puro e semplice abbellimento. Ho avuto sotto mano molti loro libri,
specie quelli di storia e di morale. Fra questi ultimi provai un gran
piacere dalla lettura di un trattatello che si trovava sempre in
camera di Glumdalclitch e che apparteneva alla sua governante,
un'austera e attempata signora, che si dilettava di letture morali e
devote.
Argomento del libro era la fragilità del genere umano ed era letto con
interesse solo dalle donne e dal popolo, ma confesso che ero curioso
di sapere quanto potesse dire uno scrittore di quella terra su un
simile soggetto. L'autore passava in rassegna gli argomenti topici dei
moralisti europei, mostrando come la natura dell'uomo fosse quella di
un essere miserabile, meschino, indifeso, incapace di ripararsi dalle
insidie del clima e dalla aggressività delle fiere e inferiore agli
altri esseri viventi nella forza, nella velocità, nella vista, nella
operosità. Inoltre aggiungeva che la natura era senza meno degenerata
in queste ultime età di declino del mondo ed era ormai solo in grado
di produrre aborti in confronto alle creature di altri tempi.
Sosteneva che in origine gli uomini dovevano essere stati più grandi e
che nelle epoche più remote dovevano esserci stati dei giganti, come
d'altra parte è detto dalla storia e dalla tradizione ed è comprovato
dal ritrovamento di ossa e di crani di gran lunga superiori a quelli
dell'uomo moderno. Dalle stesse leggi della natura deduceva che in
origine gli uomini dovevano essere più grandi e più robusti, non così
vulnerabili come al giorno d'oggi, in cui possono venire accoppati da
una tegola o dal sasso di un bambino, o magari affogare in un
ruscello. Da questo modo di ragionare, l'autore faceva discendere
varie norme morali per la vita quotidiana che credo inutile riportare.
Da parte mia, non mi restò che riflettere su come gli uomini siano
disposti sotto tutti i climi a fare commenti morali, o meglio, a
protestare e a lamentarsi dopo tutte le accuse che lanciamo alla
natura. E sono sicuro che, a guardare bene, quelle accuse sono
infondate per noi come per quel popolo.
Quanto al loro esercito, si vantano che quello reale consiste di
centosettantaseimila fanti e trentaduemila cavalieri, se si può
chiamare esercito un'accozzaglia di mercanti e contadini reclutati
nelle città e nelle campagne al comando dei nobilotti locali, senza
nessuna paga o ricompensa qualsiasi. Le loro esercitazioni non
lasciano nulla a desiderare e lo stesso può dirsi della disciplina,
anche se di questo non faccio loro un gran merito, perché ogni
contadino è al comando del suo padrone ed ogni mercante del notabile
della città, scelti per elezione come avviene a Venezia.
Ho visto spesso la guarnigione di Lorbrulgrud fare le manovre in un
campo enorme di venti miglia quadrate nei dintorni della città. Non
c'erano in tutto più di venticinquemila fanti e seimila cavalieri,
anche se mi è impossibile essere preciso, considerata l'estensione di
terreno che occupavano. Un cavaliere col suo bel destriero poteva
essere alto trenta metri. Ho visto l'intero squadrone di cavalleria
sguainare la spada ad un comando e brandirla in aria e posso dirvi che
non si può immaginare nulla di più grandioso, sorprendente,
stupefacente. Sembrava che dai quattro angoli del cielo guizzassero
simultaneamente mille fulmini.
Ero curioso di sapere come fosse venuto in mente a questo sovrano, i
cui territori sono inaccessibili da ogni parte del mondo, di pensare
agli eserciti o di insegnare al proprio popolo la disciplina militare.
Venni a sapere dalle loro storie e dalle varie conversazioni che nel
corso del tempo avevano sofferto degli stessi guai che affliggono
l'intero genere umano, cioè di una nobiltà sempre più ribelle allo
scopo di conquistare il potere, di un popolo assetato di libertà, di
sovrani favorevoli ad instaurare poteri assoluti. Sebbene le leggi del
regno fossero intese a tenere in equilibrio queste tre tendenze,
spesso sono state violate da ognuna delle parti dando luogo a guerre
civili, l'ultima delle quali ebbe fine per opera del nonno del
presente sovrano, con una generale riconciliazione. Fu stabilito
allora di mantenere l'esercito, costituito di comune accordo, sotto la
più severa disciplina.




















8 - IL RE E LA REGINA FANNO UN VIAGGIO AI CONFINI. L'AUTORE LI
ACCOMPAGNA. RACCONTO PARTICOLAREGGIATO DI COME LASCIA IL PAESE.
RITORNO IN INGHILTERRA.

Il desiderio istintivo di recuperare prima o poi la libertà non mi
aveva mai lasciato, anche se mi era impossibile studiare il modo o
fare un progetto che avesse la minima possibilità di riuscita. La mia
nave era stata la prima che fosse stata avvistata dalle coste di
quella terra ed inoltre il sovrano aveva dato ordini precisi che, se
ne fosse apparsa un'altra, avrebbe dovuto essere tirata in secco e
portata nella capitale su un carrettino, con tutto l'equipaggio. Aveva
intenzione di trovarmi una donna delle mie dimensioni affinché potessi
procreare; tuttavia avrei preferito morire, piuttosto che lasciare dei
figli destinati a vivere in gabbie come docili canarini da vendere ai
signorotti del regno come rarità esotiche. Senza dubbio fui trattato
con gran gentilezza, ero il favorito di un grande sovrano e della
regina, il diletto dell'intera corte, ma a condizioni tali che mal si
convengono alla dignità di un uomo. Non potevo dimenticare il pegno di
una famiglia lasciata in patria, e poi volevo vivere tra persone con
le quali poter parlare da pari a pari e poter camminare per strade e
sentieri senza paura di venire schiacciato come un rospo o un
cucciolo. Eppure la mia liberazione avvenne molto prima del previsto e
in maniera fuori dell'ordinario: un racconto che merita di essere
riferito in tutti i particolari.
Vivevo in quella terra da due anni e all'inizio del terzo accompagnai,
con Glumdalclitch, il re e la regina in visita alle coste meridionali
del regno. Ero trasportato come sempre nella mia comoda cassettina da
viaggio. Avevo fatto appendere, per mezzo di quattro corde di seta
agli angoli della stanza, un'amaca stendendomi sulla quale attenuavo
le scosse violente a cui ero sottoposto quando un servitore mi portava
davanti a sé sul cavallo, come io stesso spesso chiedevo. Inoltre
avevo pregato l'artigiano di farmi un'apertura di trenta centimetri
quadrati sul soffitto, non proprio in verticale sull'amaca, per
arieggiare la stanza mentre dormivo; una sorta di finestrella che
potevo chiudere a mio piacimento per mezzo di un pannello che scorreva
su delle scanalature.
Quando fummo arrivati alla fine del viaggio, il re pensò di passare
qualche giorno nel suo palazzo di Flanflasnic, una cittadina a
diciotto miglia dalla costa. Glumdalclitch ed io eravamo stanchi
morti; quanto a me mi ero preso un bel raffreddore e la bambina era
così indisposta da non poter lasciare la camera. Volevo ardentemente
vedere l'oceano, che era la mia unica via di salvezza, se mai avessi
potuto fuggire. Feci finta di stare molto peggio di quanto realmente
stessi e chiesi il permesso di respirare la salubre aria di mare, in
compagnia di un paggio che mi era molto affezionato e che già altre
volte aveva avuto l'incarico di proteggermi. Non dimenticherò mai il
dispiacere di Glumdalclitch, le raccomandazioni che il paggio si
prendesse cura di me, il pianto dirotto al momento di separarci, come
se avesse avuto qualche oscuro presentimento di quanto sarebbe
successo. Il paggio mi portò sulla scatola, durante il viaggio di una
mezz'ora dal palazzo in direzione della scogliera e del mare. Quando
fummo arrivati, gli chiesi di depormi a terra e quindi, alzata una
delle finestre, detti uno sguardo pieno di tristezza all'oceano. Non
mi sentivo ancora rimesso e dissi al paggio che avrei fatto un
pisolino ristoratore sull'amaca. Il ragazzo chiuse la finestra con
cura per via delle correnti d'aria. Mi addormentai in un batter
d'occhio e tutto quello che posso supporre è che il ragazzo, pensando
che non corressi alcun pericolo, se ne fosse andato in cerca di uova
di gabbiano tra gli scogli, come l'avevo visto fare poco prima dalla
finestra. Sia come sia, mi svegliai di soprassalto per uno strattone
violento dell'anello fissato al soffitto della scatola. Questa veniva
portata ad altezze vertiginose e quindi procedeva con una velocità
impressionante.
La prima scossa mi aveva quasi buttato giù dall'amaca, anche se poi il
movimento era diventato abbastanza regolare. Gridai più volte con
quanta forza avevo nei polmoni, ma invano. Guardai dalle finestre e
vidi solo nubi e cielo. Sentivo sopra la testa un rumore strano come
un battito di ali e all'improvviso mi balenò in mente la spaventosa
condizione in cui mi trovavo. Qualche aquila aveva preso col becco
l'anello della scatola con l'intenzione di farla cadere dall'alto
sugli scogli, come fanno questi uccelli con le tartarughe, per
prendermi e mangiarmi. Questi predatori hanno un'astuzia ed un fiuto
straordinario, capaci di guidarli a prede lontanissime e nascoste
molto meglio di me, che ero protetto da quattro misere tavolette.
Dopo poco sentii che il rumore e il battito delle ali cresceva, mentre
la scatola sbalzava qua e là come un'insegna in una giornata di vento.
Mi sembrò di sentire dei colpi dati dall'aquila (chi altri poteva mai
essere a reggere l'anello della scatola?) e all'improvviso sentii che
stavo cadendo a capofitto: un minuto intero ad una velocità che mi
toglieva il fiato. Poi un ammaraggio violentissimo che mi rintronò le
orecchie come le cascate del Niagara, buio fitto per ancora un minuto,
finché la scatola sobbalzò così in alto che potevo vedere la luce
dalle finestre. Mi resi conto che ero caduto in mare. Sovraccarica del
mio peso e di quello dei mobili, oltre che delle cerniere di ferro che
rinforzavano gli angoli inferiori e superiori, la scatola affondava in
acqua per un metro e mezzo. Era probabilmente accaduto che l'aquila,
che mi portava con sé, era stata attaccata da altri uccelli rapaci,
avidi di dividersi la preda, e che questa per difendersi fosse stata
costretta a lasciare la scatola. Le lamine di ferro che rinforzavano
il fondo l'avevano mantenuta in equilibrio durante la caduta,
impedendole di sfasciarsi al contatto con le onde. Le connessure erano
perfette e la porta non girava su cardini ma si alzava e si abbassava
come una saracinesca, tanto che lasciava entrare pochissima acqua.
Cercai di sbloccare l'apertura del soffitto per fare entrare un po'
d'aria, ma scesi mezzo soffocato dall'amaca senza riuscirvi.
Quanto avrei desiderato essere con la mia buona Glumdalclitch, dalla
quale ero così lontano dopo solo un'ora dall'esserci lasciati! E posso
dire in tutta verità che nel colmo delle mie disgrazie il mio solo
pensiero andava alla povera bambina, ai dolore che avrebbe provato con
la mia perdita, alla fine della sua fortuna, al dispiacere della
regina. Ci sono stati probabilmente pochi viaggiatori che si siano
trovati in momenti così pericolosi, come me che ero continuamente sul
punto di vedere la mia scatola andare in pezzi o rovesciarsi al primo
alito di vento o alla prima ondata. Se si fosse rotto uno solo dei
vetri sarebbe stata la morte certa e se ciò non avvenne, devo ancora
ringraziare le inferriate delle finestre, costruitete per difendermi
durante i viaggi di terra. Vedevo l'acqua scorrere a rivoli sul
pavimento, sebbene le falle fossero piuttosto modeste e cercassi di
tamponarle in qualche modo. Con tutte le forze tentai di aprire il
tetto della scatola per salirvi sopra e non morire soffocato in quello
che mi sembrava ormai il fondo di una stiva, ma fu tutto inutile. E
poi, anche se ci fossi riuscito, sarei andato ugualmente incontro alla
morte per il freddo e la fame. Passai dunque quattro ore in queste
condizioni ad aspettare, e forse direi meglio a desiderare la morte.
Ho già spiegato al lettore che sul lato privo di finestre della
scatola erano fissate due robuste maniglie, attraverso le quali il
servitore che mi portava a cavallo infilava una cintura di cuoio che
si allacciava al petto. Ero al colmo dello sconforto quando sentii, o
almeno ne ebbi l'impressione, qualcosa che raschiava dal lato in cui
erano poste le maniglie e subito dopo mi sembrò che la scatola venisse
tirata a rimorchio, perché di tanto in tanto sentivo una specie di
strappo che faceva affondare la scatola fin sopra le finestre
lasciandomi al buio. La speranza cominciò a rinascermi in cuore, anche
se non capivo cosa stesse accadendo. Provai a svitare una delle sedie
che erano state avvitate al pavimento e, dopo averla fissata di nuovo
proprio sotto il finestrino che avevo aperto, ci salii su e cominciai
a gridare aiuto a gran voce in tutte le lingue che conoscevo. Poi
legai il fazzoletto sulla punta di un bastone che mi portavo sempre
dietro, lo feci passare per il buco sul soffitto e cominciai a
sventolarlo: se mai ci fosse stata una nave, una sola barchetta, i
marinai avrebbero capito che qualche sciagurato era rinchiuso nella
scatola.
I miei tentativi di richiamo non avevano nessun effetto, anche se ero
ormai sicuro che la cassetta veniva trascinata, tanto è vero che dopo
un'oretta il lato cieco urtò contro qualcosa di solido. Temetti si
trattasse di uno scoglio poiché era sballottato più che mai, poi
sentii un rumore proveniente dal tetto, come il raschiare di un canapo
fatto scorrere attraverso gli anelli. Mi sentii quindi sollevare, a
tratti, per almeno un metro; al che misi fuori di nuovo il bastone,
gridando aiuto fino a diventare roco. Mi rispose un grido ripetuto tre
volte, che mi riempì di una tale gioia, non imaginabile da chi non
l'ha provata. Sentii uno scalpiccìo sopra il soffitto e qualcuno che
chiedeva a voce alta in inglese: "Se c'è qualcuno laggiù, si faccia
sentire". Risposi che ero un inglese che il destino aveva voluto
trascinare nelle sciagure più nere che mai uomo abbia patito,
implorando nel modo più commovente di essere tirato fuori dalla
prigione in cui mi trovavo. La voce di prima mi rispose che non avevo
nulla da temere, perché la cassa era saldamente legata alla nave e che
sarebbe subito venuto un carpentiere per aprire un foro sufficiente a
farmi uscire. Risposi che non ce n'era bisogno e che oltretutto
avrebbe richiesto troppo tempo; sarebbe bastato che un marinaio avesse
infilato un dito dentro uno degli anelli e l'avesse portata sulla nave
per deporla nella cabina del capitano. Quando mi sentirono fare questi
discorsi, alcuni pensarono che mi avesse dato di volta il cervello,
altri si misero a ridere; ed infatti non mi era nemmeno balenato per
la testa che potevo trovarmi tra gente come me. Il falegname mi aprì
un passaggio di più di un metro segando le tavole, facendo quindi
calare una scala. Ci salii sopra e finalmente misi piede sulla nave
ormai allo stremo delle forze.
I marinai rimasero tutti a bocca aperta e mi rivolsero una gran
quantità di domande alle quali non avevo alcuna voglia di rispondere.
Inoltre mi dava il capogiro vedermi intorno tanti pigmei, perché tali
mi sembravano quei marinai, dopo avere abituato la vista agli oggetti
immensi che avevo lasciato. Ma il capitano, signor Thomas Wilcock,
un'onesta persona originaria dello Shropshire, resosi conto che stavo
per svenire, mi portò nella sua cabina e mi fece bere un cordiale; poi
mi fece sdraiare sul letto, raccomandandomi di riposare un po', perché
ne avevo estremo bisogno. Prima di addormentarmi feci capire al
capitano che nella cassetta avevo dei mobili troppo pregiati per
lasciarli andare in malora: una bella amaca, un robusto letto da
campo, due sedie, un tavolo, un armadio e inoltre che la mia stanza
era tappezzata o meglio imbottita di seta e cotone, che se poi avesse
mandato a prendere la cassa da uno dei suoi uomini e l'avesse fatta
portare nella sua cabina, gliela avrei aperta sotto gli occhi,
mostrandogli tutti i miei beni. A sentire tutte queste sciocchezze, il
capitano penso che stessi vaneggiando, in ogni caso mi promise di far
eseguire quanto gli avevo richiesto (senz'altro per non contrariarmi)
e, salendo sul ponte, mandò alcuni uomini dentro la cassa dalla quale,
come potei in seguito constatare tirarono fuori tutti gli oggetti e
scollarono l'imbottitura. Quanto alle sedie, al tavolo e all'armadio,
essendo avvitati ai pavimento, ne uscirono seriamente danneggiati,
perché quei marinai rudi e ignoranti li strapparono a forza. Quindi
schiodarono alcune tavole che potevano servire alla nave e, dopo aver
preso tutto quello che serviva, buttarono a mare la carcassa che,
piena di falle da tutte le parti, colò subito a picco. Dopo tutto, fui
felice di non aver assistito allo scempio che avevano fatto, perché mi
avrebbe commosso, riportandomi alla memoria momenti della vita che
avrei preferito dimenticare.
Dormii diverse ore ma di un sonno irrequieto, mischiato a sogni e
incubi del posto che avevo lasciato e degli scampati pericoli. Al
risveglio, tuttavia, stavo molto meglio. Erano le otto di sera e il
capitano fece subito portare la cena, pensando che avessi digiunato
troppo a lungo. Mi trattò con estrema cortesia e poté rendersi conto
che non avevo l'aspetto di un pazzo, né parlavo a vanvera e, quando
fummo soli, mi chiese di raccontargli dei miei viaggi e per quale caso
ero stato abbandonato in quel gigantesco cassone di legno. Mi disse
che verso mezzogiorno, mentre guardava con il cannocchiale, l'aveva
avvistato a grande distanza, prendendolo all'inizio per un veliero al
quale avrebbe voluto accostare, dato che faceva un'analoga rotta, per
comprare delle gallette di cui a bordo aveva ormai esaurite le scorte.
Ma una volta scoperto l'errore, aveva messo in mare la lancia per
sapere di che cosa si trattasse, e aggiunse che i suoi uomini erano
ritornati spaventatissimi, giurando di aver visto una casa
galleggiante. Lui ci aveva riso, ed era sceso di persona sulla barca,
facendo portare anche un robusto canapo. Col mare calmo, vi aveva
girato intorno più volte e aveva potuto osservare le finestre e le
inferriate che le difendevano. Nel lato privo di aperture aveva visto
due anelli, aveva ordinato di dirigersi da quella parte e quindi, dopo
aver legato la corda ad uno di essi, aveva fatto rimorchiare il
cassone (come lui lo chiamava) alla nave. Giunti là, aveva legato
un'altra corda al secondo anello e aveva fatto sollevare il cassone
per mezzo delle carrucole, anche se tutto l'equipaggio non riuscì a
sollevarlo più di un metro. Avevano visto il bastone con il fazzoletto
venir fuori da un buco e avevano pensato che qualche sciagurato doveva
essere rinchiuso là dentro. Gli chiesi se lui o qualche marinaio
avesse per caso avvistato qualche uccellaccio enorme volare più o meno
nello stesso momento in cui mi aveva scorto. Mi rispose che, mentre
dormivo aveva parlato con i marinai e uno di loro aveva raccontato di
aver visto tre aquile volare verso settentrione, anche se non avevano
nulla di strano per quanto riguardava le dimensioni. Penso che ciò
fosse dovuto alla grande altezza a cui volavano e naturalmente il
capitano non poté capire il senso della mia domanda. Poi chiesi al
capitano a quale distanza potevamo essere dalla terra più vicina e lui
mi rispose che, secondo i calcoli, ci trovavamo a circa un centinaio
di leghe dalla costa. Lo assicurai che si era sbagliato della metà
almeno, dal momento che, quando ero caduto in mare, avevo lasciato la
terra da cui venivo da più di due ore. Lui credette avessi ancora la
testa sconvolta e me lo fece capire, invitandomi a riposare in una
cabina che mi aveva fatto preparare. Lo tranquillizzai dicendogli che
mi ero ripreso grazie alla sua ospitalità e alla sua compagnia, e che
ero in pieno possesso delle mie facoltà. Lui si fece serio e manifestò
il desiderio di sapere, in tutta libertà, se per caso mi ero macchiato
di qualche delitto orrendo, tanto da perdere il controllo di me stesso
per il rimorso, e a causa del quale qualche principe mi avesse
lasciato andare alla deriva nel cassone, così come in altri paesi si
abbandonano i criminali in una barca sconquassata e senza viveri. In
fondo, pur dispiacendogli di avere raccolto sulla sua nave un
delinquente, era pronto a giurare sul suo onore che mi avrebbe
lasciato libero al primo porto a cui avessimo attraccato. Secondo lui,
ad accrescere il sospetto sarebbero stati certi discorsi strampalati
che avrei fatto prima ai marinai e poi a lui stesso, concernenti il
cassone, nonché gli sguardi sospettosi e il comportamento che avevo
tenuto durante la cena.
Lo pregai di aver pazienza e di ascoltare il mio racconto; cominciai
infatti da quando avevo lasciato l'Inghilterra per la prima volta,
fino ad arrivare al momento in cui lui mi aveva avvistato. E dato che
la verità trova sempre gli animali ragionevoli disposti ad
accoglierla, così questo onesto e valente marinaio, a cui non mancava
una certa infarinatura culturale e molto buon senso, si convinse della
mia sincerità. Per dargli una prova concreta di quanto gli avevo
raccontato, lo pregai di farmi portare l'armadio di cui avevo in tasca
le chiavi, mentre già sapevo in che modo i marinai avevano finito la
cassa. L'aprii in sua presenza, mostrandogli la mia collezione di
oggetti rari raccolti nel paese dal quale ero stato portato via in
maniera così portentosa. C'era il pettine che mi ero costruito con i
peli della barba del re e un altro, sempre di peli, ma con il dorso
fatto con un frammento arcuato dell'unghia del pollice della regina;
poi un'intera raccolta di aghi e di spilli di varie lunghezze da
trenta centimetri a mezzo metro; quattro pungiglioni di vespa simili a
chiodi, alcuni capelli della regina, un anello d'oro che un giorno lei
mi aveva regalato con squisita gentilezza, sfilandoselo dal mignolo e
infilandomelo dalla testa come un collare. Pregai il capitano di
accettare l'anello come ringraziamento della sua cortesia, ma lui
rifiutò decisamente. Gli mostrai un callo che avevo estirpato con le
mie mani dal piede di una damigella d'onore, grosso come una zucca del
Kent e così duro che, al mio ritorno in Inghilterra, lo feci scavare a
forma di coppa e rilegare in argento. Infine gli feci osservare i
pantaloni che avevo indosso, fatti con pelle di topo.
Mi riuscì di fargli accettare soltanto il dente di un lacchè al quale
si era interessato e che senza dubbio gli piaceva moltissimo. Mi
ringraziò tante di quelle volte, quante quell'oggetto non meritava,
anche se si trattava di un bel dente, sanissimo, perché era stato
estratto per sbaglio, da un chirurgo inesperto, ad uno dei servitori
di Glumdalclitch, che soffriva di mal di denti. Mi ricordo che l'avevo
raccolto, pulito ben bene e conservato nel mio armadio. Era lungo una
trentina di centimetri e dieci di diametro.
Il capitano rimase più che soddisfatto dal racconto e disse che,
quando sarei tornato in Inghilterra, avrei dovuto scrivere un libro
per il diletto della gente. Gli risposi che l'Inghilterra era invasa
da libri di viaggio, che solo le cose straordinarie potevano sperare
di suscitare interesse e che molti autori sembravano più portati a
ascoltare la loro vanità e il loro interesse, o addirittura la volontà
di piacere al pubblico più rozzo, che non la nuda verità; che in fondo
il mio racconto avrebbe contenuto ben poco oltre agli eventi ordinari,
se si escludono certe descrizioni di piante, alberi, uccelli ed altri
animali esotici, i costumi primitivi e idolatri di popoli selvaggi,
dei quali sono pieni certi volumi. Lo ringraziai comunque per il suo
apprezzamento e gli promisi che avrei preso in considerazione il suo
consiglio.
C'era una cosa che non riusciva a capire e cioè perché parlassi così a
voce alta; mi chiese infatti se per caso il re e la regina di quella
terra fossero un po' duri d'orecchi. Gli risposi che mi ero abituato
ad urlare per due anni, tanto è vero che lui e i suoi uomini, sebbene
li comprendessi abbastanza bene, mi sembrava che sussurrassero le
parole. Quando ero in quel paese mi trovavo nella condizione di uno
che, dalla strada, pretenda di parlare con un altro in cima ad un
campanile; le cose naturalmente cambiavano quando mi mettevano sul
tavolo o mi prendevano in mano. Gli dissi che poi avevo notato
un'altra cosa: quando ero salito a bordo della sua nave per la prima
volta, la ciurma di marinai che mi attorniava mi era sembrata la più
disprezzabile e minuta accozzaglia di persone che avessi visto. Allo
stesso modo, quando mi trovavo a corte, mi era impossibile posare lo
sguardo su uno specchio, dopo essermi abituato alla grandezza
prodigiosa degli oggetti, senza avvertire un senso di disprezzo nei
miei confronti, scaturito dall'istintivo paragone. Quando stavamo
cenando, mi ricordò il capitano, fissavo gli oggetti con un senso di
meraviglia e spesso riuscivo a malapena a trattenere il riso. Lui non
aveva capito la ragione del mio atteggiamento e l'aveva attribuita al
mio stato mentale. Gli confermai tutto quanto e infatti mi
meravigliavo dinanzi ai suoi piatti larghi come monete d'argento, al
cosciotto di porco che avrei finito con un morso, al bicchiere più
piccolo d'un guscio di noce, e così via con il resto delle stoviglie e
dei cibi che gli descrissi con analoghi paragoni. La regina mi aveva
procurato un intero arredo di oggetti proporzionati a me quando ero al
suo servizio, ma non bisogna dimenticare che in realtà il mio metro
percettivo si era abituato agli oggetti che vedevo da ogni parte e
avevo finito per ignorare le mie dimensioni reali, come fanno gli
uomini con le loro colpe. Il capitano colse a volo la frecciata e mi
rispose per le rime con il vecchio proverbio inglese, che "avevo gli
occhi più grandi della trippa" visto che, dopo aver digiunato tutto il
giorno, ero stato di così poco appetito; e continuando con il suo tono
faceto, disse che avrebbe dato non so quanto per vedere il cassone
portato dal becco dell'aquila e quindi precipitare in mare da tanta
altezza: uno spettacolo sublime e meraviglioso, degno di essere
tramandato alle generazioni future! E poi il paragone con Fetonte era
così ovvio, che non poté fare a meno di propormelo, anche se rimasi un
po' freddino alla sua battuta.
Il capitano tornava dal Tonchino in Inghilterra ed era stato sospinto
a 44 gradi di latitudine e a 143 gradi di longitudine nord-est. Ma
dopo due giorni che ero stato raccolto a bordo fummo spinti dal vento
aliseo verso sud e quindi, costeggiata la Nuova Olanda, verso ovest-
sud-ovest e verso sud-sud-ovest finché doppiammo il Capo di Buona
Speranza. Ma non starò ad annoiare il lettore con il diario di un
viaggio tranquillo. Il capitano fece fermare la nave in due o tre
porti e inviò la scialuppa per il rifornimento dei viveri e
dell'acqua; ma io scesi soltanto al nostro arrivo ai Downs il 3 giugno
1706, nove mesi dopo la mia fuga. Come pegno del trasporto offrii la
mia roba al capitano, ma lui rispose deciso che non avrebbe accettato
un soldo. Ci salutammo, dopo che gli feci promettere che sarebbe
venuto a trovarmi a Redriff. Presi a nolo un cavallo e una guida, al
prezzo di cinque scellini che mi feci prestare dal capitano.
Le case, gli alberi, il bestiame e le pecore che incontravo strada
facendo, mi sembravano così minuscoli che credevo di essere a
Lilliput. Avevo timore di travolgere i passanti e spesso gridavo loro
di sgombrare la strada, tanto che rischiai più di una volta di tornare
a casa con la testa rotta per l'impertinenza.
Giunto al villaggio, dovetti chiedere l'ubicazione di casa mia e dopo
che un servo ebbe aperta la porta, entrai chinandomi per non battere
la testa, come fanno le oche per entrare nella stia. Mia moglie corse
ad abbracciarmi, ma io mi prostrai più in basso dei suoi ginocchi
temendo che non sarebbe arrivata a baciarmi. Mia figlia si inginocchiò
per chiedermi la benedizione, eppure non la vidi finché si rialzò,
abituato com'ero a volgere costantemente lo sguardo verso l'alto e,
oltretutto, pretesi di cingerle la vita con una sola mano. Guardai
dall'alto in basso i servitori ed un paio d'amici che si trovavano in
casa, come se fossero dei pigmei ed io un gigante. Dissi a mia moglie
che era stata troppo parsimoniosa, perché lei e la bambina mi
sembravano due passerotti. In poche parole, mi comportai in maniera
tanto bislacca, che loro furono della stessa opinione del capitano e
mi presero per matto. Ricordo tutto questo come esempio del potere che
l'abitudine e il pregiudizio possono acquisire su di una persona.
Non passò molto tempo che ci si poté intendere tutti quanti, parenti
ed amici, come prima, anche se mia moglie continuava ad insistere che
non sarei mal più partito per altri viaggi. Ma, come il lettore potrà
constatare, a nulla sarebbero valse le sue proteste contro il volere
di un destino malvagio. E per il momento termina qui la seconda parte
dei miei sfortunati viaggi.







PARTE TERZA.
VIAGGIO A LAPUTA, BALNIBARBI, LUGNAGG, GLUBBDUBDRIB E GIAPPONE.


1 - L'AUTORE INTRAPRENDE IL SUO TERZO VIAGGIO. VIENE RAPITO DAI
PIRATI. MALVAGITA' DI UN OLANDESE. ARRIVA IN UN'ISOLA. E' ACCOLTO A
LAPUTA.

Non ero a casa da più di dieci giorni, quando venne a trovarmi il
capitano Guglielmo Robinson, originario della Cornovaglia, comandante
della "Buona Speranza", una solida nave di trecento tonnellate. Ero
già stato come chirurgo a bordo di una nave comandata da lui, e sua
per un quarto, in un viaggio in Levante. Mi aveva sempre trattato come
un fratello, più che come un ufficiale di grado inferiore, e quando
aveva saputo del mio ritorno era venuto a trovarmi per amicizia, come
pensai allora, poiché parlammo solo come due amici che non si rivedono
da tanto tempo. Tornò varie volte e dopo essersi congratulato per la
mia salute, mi chiese se ero ormai deciso a sistemarmi per sempre in
quel posto, aggiungendo quindi che entro due mesi avrebbe fatto un
viaggio nelle Indie orientali. Alla fine, dopo qualche preambolo, mi
disse chiaro e tondo se volevo fargli il chirurgo di bordo; in caso
affermativo ne avrei avuto un altro alle mie dipendenze con due
aiutanti. Inoltre mi avrebbe dato una paga doppia, poiché sapeva che
avevo una grande esperienza di navigazione, almeno quanto la sua, e
avrebbe intrapreso affari solo dietro mio consiglio, dividendo con me
il comando della nave.
Mi disse tante altre cose allettanti ed io, sapendo che era una gran
brava persona, non potei tirarmi indietro. Inoltre ero più assetato
che mai di vedere il mondo, malgrado gli ultimi rovesci che mi si
erano abbattuti sulla testa. Riuscii anche a ottenere il consenso di
mia moglie, l'ultimo scoglio, grazie ai vantaggi che si riprometteva
per i figli.
Salpammo il 5 agosto 1706 e arrivammo al Forte di San Giorgio l'11
aprile 1707; qui sostammo tre settimane per fare riposare i marinai,
molti dei quali erano ammalati. Ci dirigemmo quindi verso il Tonchino
e qui giunti, il capitano decise di proseguire oltre, poiché le merci
che avremmo dovuto caricare non sarebbero state pronte prima di
qualche mese. Perciò, nella speranza di rifarsi delle spese a cui
andava incontro, comperò un brigantino stivandolo di quelle mercanzie
che i tonchinesi rivendono nelle isole vicine, fece salire a bordo
quattordici marinai, tre dei quali indigeni, e me lo affidò mandandomi
a mercanteggiare, mentre lui avrebbe sistemato i suoi affari a
Tonchino.
Dopo tre giorni di navigazione, fummo investiti da una grande tempesta
che ci sospinse verso nord-nord-est per cinque giorni di seguito e
quindi verso est. Seguì un periodo di sereno, sebbene continuasse a
soffiare una brezza sostenuta da occidente. Il decimo giorno fummo
inseguiti da due navi pirate che presto ci raggiunsero, perché il
nostro brigantino stracarico era lentissimo. Noi, d'altra parte, non
fummo in grado di difenderci.
Fummo accostati dalle due navi contemporaneamente, e i due pirati
salirono all'arrembaggio alla testa dei loro uomini; tuttavia,
avendoci trovato tutti in ginocchio, come avevo ordinato
all'equipaggio, ci legarono ben bene e ci lasciarono sotto
sorveglianza, mentre cominciarono a ispezionare il brigantino.
Tra i briganti ebbi modo di notare un olandese il quale, sebbene non
comandasse nessuna delle due navi, sembrava godere di una certa
autorità. Capì dal nostro aspetto che eravamo inglesi e, farfugliando
la nostra lingua, ci assicurò che saremmo stati legati schiena contro
schiena e gettati in mare. Dato che mi facevo capire abbastanza nella
sua lingua, lo implorai di intercedere presso il capitano in nostro
favore, in considerazione della nostra stessa origine cristiana
protestante e dell'appartenenza a due paesi vicini, legati da vincoli
di amicizia. Questo lo mandò su tutte le furie, tanto che ricominciò
con le stesse minacce e, rivolgendosi ai suoi compari in una lingua
che credo fosse il giapponese, usò più volte la parola "Christianos".
Il capitano della nave più grossa, un giapponese che sapeva qualche
parola di olandese, venne verso di me e mi fece molte domande. Gli
risposi con grande deferenza e lui mi comunicò che non saremmo stati
ammazzati. Feci al capitano un profondo inchino e quindi, rivoltomi
all'olandese, gli dissi quanto mi dispiacesse trovare maggior
misericordia in un pagano che in un cristiano. Purtroppo in seguito
ebbi modo di pentirmi di quelle parole temerarie, perché quel cane di
un rinnegato prima tentò in tutte le maniere di convincere i due
capitani a farmi gettare in mare e poi, visto che quelli non potevano
infrangere una promessa che avevano fatto, riuscì a farmi infliggere
delle torture peggiori della morte stessa. I miei uomini furono
assegnati alle due navi in parti uguali, mentre il brigantino venne
affidato ad un equipaggio di pirati. Quanto a me, decisero di
lasciarmi alla deriva su una canoa, munita di remi e di vela e
provviste per quattro giorni, sebbene all'ultimo momento il capitano
giapponese, con un gesto di umanità, me le raddoppiasse prelevandole
dalla sua cambusa e lasciandomi andare senza che fossi perquisito.
Mentre scendevo sulla canoa, l'olandese mi accompagnò dal ponte della
nave con tutte le imprecazioni e parolacce più volgari della sua
lingua.
Appena un'ora prima che avessimo avvistato i pirati, avevo fatto una
rilevazione secondo la quale ci trovavamo a 46 gradi di latitudine
nord e 183 gradi di longitudine; ed al loro avvicinarsi avevo avuto
modo di vedere con il mio cannocchiale tascabile diverse isole in
direzione sud-est. Alzata la vela, che subito si gonfiò di un
venticello gagliardo, puntai sull'isola più vicina, che raggiunsi dopo
a tre ore. Era praticamente uno scoglio, tuttavia ci trovai delle uova
di uccelli marini che cossi, dopo avere acceso un fuoco di arboscelli
ed alghe secche. Questa fu la mia cena, deciso com'ero a risparmiare
il più possibile le provviste. Disposi delle alghe per terra e mi ci
buttai sopra al riparo di un costone; e feci così una buona dormita.
Il giorno dopo salpai in direzione di un'altra isola e poi di una
terza e di una quarta, un po' veleggiando e un po' remando, anche se
non starò ad annoiare il lettore con una relazione accurata delle mie
pene; basterà ricordare che il quinto giorno approdai all'ultima isola
che si vedeva, situata a sud-sud-est delle precedenti.
Quest'isola era in realtà molto più lontana di quanto credessi e mi ci
vollero cinque ore buone per arrivarci. Inoltre fui costretto a farne
quasi il giro prima di trovare un'insenatura più larga tre volte la
mia imbarcazione nella quale approdai. Si trattava di un'isola
rocciosa con pochi ciuffi d'erba e verdure di un aroma finissimo.
Portai a terra le provviste che misi al riparo in una delle tante
grotte e quindi mi rifocillai. Raccolsi molte uova sugli scogli, alghe
ed erbe secche con le quali contavo di cuocerle il giorno dopo; per
fortuna avevo con me pietra focaia, acciarino, esca ed uno specchietto
ustorio. Passai la notte nella caverna delle provviste buttandomi
sopra le erbe raccolte come combustibile. Dormii malissimo, perché
l'inquietudine ebbe la meglio sulla stanchezza tenendomi sveglio a
pensare all'impossiblità di tirare avanti in un luogo così desolato e
alla fine atroce che mi aspettava. Ero tanto abbattuto e privo di
speranze che non ce la facevo ad alzarmi, anzi, prima che riuscissi a
scivolare fuori dalla caverna raccogliendo tutte le mie forze, il
giorno era già alto. Camminai sulle rocce per un po', sotto un cielo
chiarissimo ed un sole tanto infuocato da costringermi a tenere la
testa bassa; ma d'improvviso il sole si oscurò in maniera diversa da
come accade quando è coperto da una nuvola. Girandomi, vidi un grande
corpo opaco che veniva verso l'isola. Sembrava fosse all'altezza di un
due miglia e nascose il sole per un sette minuti, anche se l'aria non
mi sembrò per questo meno torrida o il cielo meno luminoso; ebbi la
sensazione di essere come all'ombra di una montagna. Mentre si
avvicinava potei constatare che era di una materia compatta, con il
fondo piatto, liscio e splendente per il riverbero del mare
sottostante. Mi trovavo su un'altura a cento metri dalla spiaggia e
vidi questo oggetto enorme discendere verso di me a meno di un miglio.
Tirai fuori il cannocchiale e scorsi distintamente diverse persone che
salivano e scendevano lungo i fianchi scoscesi dell'oggetto, senza
tuttavia capire che cosa stessero facendo.
Ebbi un moto di gioia, perché l'istinto vitale mi faceva sperare che
in qualche modo sarei sfuggito alla disperata condizione in cui mi
trovavo; eppure non sarà facile al lettore capire il senso di stupore
che contemporaneamente mi prendeva nel vedere un'isola volante abitata
da uomini capaci, come sembrava, di farla salire, scendere,
accellerare progressivamente a loro piacimento. Non ero certo in vena
di riflettere sul fenomeno e per il momento ero tutto teso a vedere
quale direzione prendesse, poiché sembrava indugiare. Poco dopo,
tuttavia, avanzò maggiormente e potei così notare che era formata,
tutt'intorno, da loggioni e gradinate che, ad intervalli regolari,
permettevano di salire dall'una all'altra galleria. Nella loggia vidi
persone che stavano pescando con lunghe canne ed altre intente a
guardare. Sventolai il berretto (il cappello si era logorato da tempo)
e il fazzoletto in direzione dell'isola e, al suo ulteriore
avvicinarsi, mi misi a urlare come un ossesso; guardavo con estrema
attenzione e così potei scorgere una piccola folla che si era radunata
dalla parte dell'isola che dava verso di me. Sebbene non rispondessero
alle mie grida capii che mi avevano visto, poiché indicavano dalla mia
parte. Vidi anche quattro o cinque uomini che salirono a precipizio
verso la sommità dell'isola e là sparirono: pensai che fossero stati
mandati lassù per ricevere ordini da qualche persona eminente.
Intanto il numero degli spettatori era cresciuto e dopo una mezzora
l'isola aveva fatto manovra sistemandosi in modo che la galleria più
in basso veniva a trovarsi all'altezza della roccia dove mi trovavo e
a non più di cento metri. Mi prostrai come uno che supplica con
estrema umiltà, ma dall'isola non arrivò nessuna risposta. Quelli che
si trovavano proprio di fronte a me sembravano persone di rango, a
giudicare dal loro abito. Mi guardavano e parlavano fra loro
accanitamente ed infine uno di loro si espresse in un linguaggio
chiaro, forbito e musicale simile all'italiano nel suono, per cui gli
risposi in quella lingua nella speranza che almeno la cadenza potesse
influenzare gradevolmente il suo orecchio. Anche se non ci
comprendemmo a parole, quelli dell'isola non fecero fatica a capire
quello che volevo, tanto ero ridotto malamente.
Mi fecero capire a segni di scendere dal costone roccioso e di
dirigermi verso la spiaggia; ubbidii e l'isola prese quota, poi,
quando mi fu sopra la testa, venne calata dalla galleria più bassa una
catena che terminava con un sedile sul quale mi posi e venni sollevato
con un sistema di pulegge.




2 - CARATTERI E UMORI DEGLI ABITANTI DI LAPUTA. CENNI SULLA LORO
CULTURA. IL RE E LA CORTE. VIENE RICEVUTO L'AUTORE. TIMORI ED
INQUIETUDINI DEGLI ABITANTI. COMPORTAMENTO DELLE DONNE.

Appena misi piede sull'isola, fui circondato da una folla di persone,
delle quali quelle che mi erano più vicine, sembravano di una certa
importanza. C'era nei loro sguardi un senso di stupore, né ero meno
meravigliato di loro, perché non avevo mai visto persone così strane
nella foggia degli abiti, nell'aspetto e nei modi. Avevano la testa
reclinata a destra o a sinistra, con un occhio rivolto verso la punta
del naso e l'altro al cielo. Avevano le vesti ricamate con figure del
sole, della luna e degli astri intrecciate con quelle di violini,
flauti, arpe, trombe, chitarre, clavicembali e molti altri strumenti
sconosciuti in Europa. Scorsi qua e là diverse persone in abiti da
servitori che tenevano in mano un bastoncino con in cima una vescica,
al posto di uno staffile, con dentro dei sassolini e dei fagioli
secchi, come poi mi fu detto. Di tanto in tanto battevano la vescica
gonfia sulla bocca e sugli orecchi dei presenti, un gesto di cui al
momento non riuscivo a capire il significato. Sembra che questi
personaggi siano talmente immersi nelle loro speculazioni, da non
essere in grado né di parlare, né di seguire le parole altrui, a meno
che non vengano risvegliati da una sensazione tattile prodotta negli
organi della favella e dell'udito. Per questo, quanti se lo possono
permettere, hanno in casa un battitore (o "climenole" nella loro
lingua) fra i loro domestici, che si portano sempre dietro, quando si
recano in visita. Quando si incontrano due o tre persone, il compito
dei battitori è quello di colpire la bocca di chi deve parlare e
contemporaneamente l'orecchio destro di coloro a cui sono dirette le
parole. Il battitore è anche un'esperta guida durante il cammino,
infatti a volte colpisce leggermente gli occhi del deambulante, perché
questi è così assorto, da correre in ogni momento il pericolo di
precipitare in un burrone, di imboccare tutti i pali che incontra
sulla strada, di travolgere gli altri o esserne travolto e gettato in
qualche rigagnolo.
Ho dovuto dare queste informazioni al lettore, altrimenti si sarebbe
trovato in imbarazzo come me, dinanzi al modo di procedere di queste
persone, mentre mi portavano su per le gradinate fino alla cima
dell'isola e, di lì, al palazzo reale. Durante la salita si
dimenticavano continuamente cosa stavano facendo e mi piantavano in
asso, finché la loro memoria veniva sollecitata dai battitori; per il
resto sembravano ignorare il mio aspetto straniero e le grida della
gente comune molto meno assorta di loro.
Arrivammo finalmente al palazzo reale e fui ammesso nella sala delle
udienze; qui vidi il re seduto sul trono, circondato da persone d'alto
rango. Davanti al trono c'era un tavolo pieno di globi, sfere e
strumenti matematici di tutti i generi. Sua Maestà non si accorse di
noi, malgrado lo strepito che si sollevò al nostro arrivo e le persone
di corte che accorrevano da ogni parte della reggia. Era immerso nella
soluzione di un problema e dovemmo aspettare un'ora prima che lo
portasse a compimento. Ai lati del trono c'erano due paggi muniti di
vesciche, e quando si accorsero che aveva finito, uno gli colpì
leggermente la bocca e l'altro l'orecchio destro: al che ebbe un
sobbalzo come uno che si sveglia di soprassalto, quindi, girandosi
dalla nostra parte, ricordò la ragione per la quale ci trovavamo
davanti a lui, della quale era stato preventivamente informato. Disse
qualcosa, ed allora un paggio mi si mise di lato e mi colpì
leggermente l'orecchio destro. Feci segno che non avevo affatto
bisogno di quello strumento; un gesto, il mio, che impressionò
sfavorevolmente la corte circa le mie capacità intellettuali, come
seppi più tardi. Per quello che posso supporre, il sovrano mi fece
diverse domande ed io cercai di rispondergli facendo ricorso a tutte
le lingue che conoscevo. Quando fu chiaro che non ci capivamo, ordinò
che fossi portato ad un appartamento del palazzo, dove mi furono
assegnati due servitori (ed infatti questo principe si distingue dai
suoi predecessori per l'ospitalità concessa agli stranieri). Ebbi
l'onore di pranzare con quattro dignitari che ricordavo di aver visto
vicino al re. Ci servirono due portate di tre piatti ciascuna: la
prima composta di un cosciotto di montone dalla forma di triangolo
equilatero, di arrosto di manzo a forma di romboide ed una torta a
cicloide; la seconda composta di due anitre disposte a violino,
salsicce e insaccati dalla forma di flauti e di oboe, petto di vitello
tagliato come un'arpa. I camerieri ci tagliarono il pane a coni,
cilindri, parallelogrammi ed altre figure geometriche.
Durante il pranzo mi feci coraggio e chiesi il nome di diversi oggetti
nella loro lingua e quelle nobili persone si compiacquero di
rispondermi con l'aiuto dei battitori, perché speravano che, se fossi
giunto al punto di intrattenere una conversazione con loro, mi
avrebbero meravigliato con le loro scoperte. In breve tempo ero in
grado di chiedere del pane, del vino e qualsiasi altra cosa
desiderassi.
Dopo pranzo i miei commensali si congedarono e fu introdotta una
persona, col suo battitore, inviata dal re. Portava con sé carta,
penna, calamaio e due o tre libri, e mi fece capire a cenni che veniva
ad insegnarmi la lingua. Ci mettemmo a tavolino per quattro ore
filate, durante le quali scrissi un gran numero di parole in colonna
con accanto la traduzione. Imparai anche delle frasi brevi, perché il
mio insegnante prima ordinava ad uno dei servi di prendere un oggetto,
di voltarsi, di fare un inchino, di sedere, di alzarsi, di camminare e
così via, e poi mi faceva scrivere la frase corrispondente. In uno dei
suoi libri mi mostrò le immagini del sole, della luna, delle stelle,
dello zodiaco. dei tropici, dei circoli polari, e i nomi di molte
figure piane e solide. Mi disse anche i nomi e le caratteristiche di
tutti gli strumenti musicali e la terminologia dell'arte musicale.
Dopo che se ne fu andato, riscrissi in ordine alfabetico tutte le
parole con i loro significati accanto. In pochi giorni, grazie alla
mia memoria portentosa, potevo dire di avere una certa conoscenza
della loro lingua.
Quella che chiamo "isola volante" o "galleggiante" è chiamata nella
loro lingua Laputa, un nome di cui non mi riuscì mai di rintracciare
l'etimologia certa. Nella loro antica lingua, ormai in disuso, "lap"
significa "alto", e "untuh" vuol dire "colui che governa"; per cui
dicono che Laputa sarebbe derivata per corruzione da Lapuntuh.
Personalmente non condivido questa derivazione che mi sembra un po'
forzata. Mi azzardai a comunicare a quei saggi una mia ipotesi,
secondo la quale Laputa sarebbe come "lap outed", dove "lap" sta ad
indicare esattamente il riflesso dei raggi solari sulla superficie
marina e "outed" un'ala, ma non voglio imporla a nessuno e la
sottopongo al giudizio del lettore.
Coloro ai quali ero stato affidato fecero venire il giorno dopo un
sarto per prendermi le misure di nuovi abiti, perché i miei erano
ridotti in brandelli. Questi seguiva un metodo completamente diverso
da quello usato in Europa. Con un quadrante mi prese l'altezza e poi,
munito di regoli e compassi, fece il calcolo delle dimensioni del mio
corpo trasferendo su carta i lineamenti della mia persona. Mi portò
gli abiti dopo una settimana, mal cuciti e senza avere nulla a che
fare con le mie dimensioni. Senza dubbio si era sbagliato in qualche
calcolo, ma dopo aver visto che certi sbagli si verificavano spesso,
ci passai sopra.
Approfittando dell'immobilità dovuta alla temporanea mancanza di
vestiti e ad un malessere che durò qualche giorno, arricchii
moltissimo il mio vocabolario ed infatti, quando fui in grado di
andare di nuovo a corte, capii molti dei discorsi del re e potei
rispondergli. Sua Maestà aveva dato ordine di dirigere l'isola a nord-
est fino a raggiungere la verticale di Lagado, la capitale del regno,
che si trovava sulla terra ferma. Era lontana circa novanta leghe e il
viaggio durò quattro giorni e mezzo, ma non mi accorsi per niente che
l'isola stava procedendo per aria. Il secondo giorno, verso le undici,
il re in persona, insieme ai nobili, ai cortigiani e agli ufficiali,
preparati gli strumenti, si misero a suonare per tre ore di seguito,
tanto che rimasi come stordito, senza per altro comprendere il
significato di quel concerto. Fu il mio maestro a informarmi che la
gente dell'isola aveva un udito sensibile alla musica delle sfere, che
essi stessi di tanto in tanto eseguivano, essendo ormai la corte
preparata all'esecuzione negli strumenti in cui ognuno primeggiava.
Durante il viaggio in direzione della capitale, il re fece fermare più
volte l'isola su città e villaggi per raccogliere le petizioni dei
suoi sudditi. Venivano lanciate dall'isola delle corde sottili al cui
capo la gente annodava le proprie richieste che quindi venivano
ritirate su, simili ai pezzi di carta che i ragazzini legano alla coda
dei loro aquiloni. A volte tiravamo a bordo, con un sistema di
carrucole, vino e vettovaglie.
Le mie conoscenze di matematica mi furono utilissime per appropriarmi
della loro fraseologia che si basava appunto sulla scienza e sulla
musica, tanto più che anche di quest'ultima avevo una certa
infarinatura. Le loro idee prendono corpo attraverso figure
geometriche e se vogliono, per esempio, elogiare la bellezza di una
donna, ricorrono per descriverla a rombi, cerchi, parallelogrammi,
ellissi ed altra terminologia geometrica, oppure al lessico dell'arte
musicale, che non starò qui ad esemplificare. Nella cucina reale vidi
una gran quantità di strumenti musicali e matematici con i quali
davano forma alle pietanze.
Le loro case sono costruite malissimo, le mura sghembe. Le stanze
avevano angoli di tutte le misure e questo per il loro sovrano
disprezzo per le applicazioni pratiche della geometria, come scienza
purissima che si involgarisca nella vile meccanica, mentre gli operai
sono incapaci di seguire le loro raffinate istruzioni e fanno errori a
catena. Indubbiamente questi saggi sono espertissimi davanti a un
foglio di carta e armati di righe, matite e compassi; ma non ho visto
persone più goffe, inette, impacciate nelle comuni azioni di tutti i
giorni, né menti più pigre e lente di fronte ad argomenti che non
siano quelli di musica e di matematica. Sono pessimi ragionatori ed
hanno un senso spiccato della contraddizione, eccetto quando sono nel
giusto, il che accade di rado. Non sanno nemmeno cosa siano
immaginazione, fantasia, invenzione; parole queste che non esistono
nella loro lingua, essendo i loro pensieri attirati unicamente dalle
scienze che ho detto sopra.
Sono in parecchi, soprattutto fra quanti coltivano il settore
astronomico, ad avere la massima fiducia nell'astrologia giudiziaria,
per quanto poi si vergognino di professarla pubblicamente. Ma quello
che mi meravigliò più di tutto, fu il loro interesse inesauribile per
le novità e la politica: si interessavano senza sosta agli affari
pubblici, sputavano sentenze sul governo dello stato e disputavano con
passione e sottigliezza incredibile le idee di un partito. Anche in
Europa mi è capitato di notare la stessa tendenza nei matematici,
senza essere riuscito a trovare un'analogia fra le due scienze; a meno
che la gente si sia messa in testa che, così come il cerchio più
stretto è formato di tanti gradi quanti ne ha il più ampio, il governo
e la conduzione del mondo richiedano la stessa abilità con cui si fa
girare una trottola. Sono tuttavia portato a credere che questa
qualità derivi da una comune debolezza della natura umana, pronta a
farci intestardire su quei problemi che meno ci competono, e nei
confronti dei quali la nostra ignoranza, vuoi per studio che per
limiti naturali, è sovrana.
Questa è gente eternamente irrequieta, incapace di godersi un momento
di tranquillità e la loro instabilità è causata da motivi da cui è
quasi immune il resto dei mortali. Temono sempre che qualche
cambiamento abbia luogo nei corpi celesti e da qui nasce il loro stato
d'ansia; hanno paura, ad esempio, che nel suo progressivo avvicinarsi
al sole, la terra finisca col tempo per esserne assorbita ed ingoiata;
che il volto del sole si incrosti dei suoi stessi effluvi, diventando
incapace di trasmettere la luce all'universo; che la terra sia
scampata per un pelo alla carezza dell'ultima cometa che l'avrebbe
potuta ridurre in un ammasso di cenere e che la prossima, che secondo
i loro calcoli dovrebbe comparire fra trentuno anni, ci distruggerà
tutti quanti. Se infatti questa cometa si avvicinerà al sole, nel suo
perielio, entro un certo grado (come sono spinti a credere dai loro
conti), riceverà un calore diecimila volte più intenso del ferro
rovente per cui proseguirà il suo viaggio con una coda incandescente
lunga più di un milione di miglia, capace di infiammare la terra e
incenerirla se solo passasse ad una distanza di centomila miglia dal
nucleo, o testa della cometa. Temono anche che il sole, con la
continua diffusione di raggi e senza alcun recupero, finisca per
esaurirsi e per spegnersi, con la conseguente distruzione della terra
e degli altri pianeti che ricevono sostentamento dalla sua luce.
Il sovrastare presunto di questi ed altri cataclismi li tiene in
perpetuo stato d'ansia: non riescono a riposare tranquilli, né a
trarre nessun sollievo dai piaceri comuni e dai sollazzi della vita.
Quando si incontrano al mattino, la prima domanda che si rivolgono
riguarda la salute del sole; se aveva una buona cera al momento di
coricarsi e di sorgere e quali speranze possano esserci di evitare la
carezza della cometa. Si appassionano a queste discussioni, come i
bambini sono affascinati da terribili storie di fantasmi e folletti e
che poi hanno paura di andare a dormire.
Le donne dell'isola traboccano dal desiderio di vivere, disprezzano i
loro mariti e vanno matte per quegli stranieri che affollano la corte,
sia che provengano dal sottostante continente, sia che siano stati
mandati dalle varie città e corporazioni, sia che siano lì per i loro
affari privati. Se gli abitanti dell'isola li disprezzano, perché non
conoscono le loro discipline, le donne scelgono fra questi gli amanti.
Il grave è che i due possono darsi da fare indisturbati, perché il
marito è costantemente rapito in meditazioni. E così la signora ed il
suo amante possono intrattenersi con la massima familiarità in sua
presenza, purché sia provvisto di carta e accessori e senza il
battitore al fianco.
Mogli e figlie si lamentano di essere segregate nell'isola, che pure a
me sembra il luogo più ameno di questo mondo; e malgrado esse abbiano
a disposizione tutto il lusso possibile e sia loro permesso di fare il
proprio comodo, pure desiderano vedere il mondo e prendere parte ai
divertimenti della capitale. Questo è possibile solo con un permesso
speciale del re, difficilissimo da ottenere perché i nobili sanno per
esperienza quanto sia difficile poi far tornare le donne sull'isola.
Mi fu anche raccontata la storia di una gran dama di corte, madre di
diversi figli, moglie del primo ministro, che è la persona più ricca
del regno, uomo di bell'apetto e innamoratissimo di lei, abitante nel
palazzo più fastoso dell'isola. Bene: la donna scese a Lagado
accampando ragioni di salute, e qui si nascose senza dare più notizie
per alcuni mesi, finché il re non mandò a cercarla. La trovarono in
una sudicia bettola coperta di stracci, perché aveva dato in pegno i
vestiti per mantenere un vecchio lacchè deforme che la batteva tutti i
giorni e dal quale riuscirono a separarla solo con la forza. Sebbene
il marito l'avesse accolta con estrema gentilezza e senza il minimo
rimprovero, riuscì a svignarsela di nuovo con tutti i suoi gioielli
per raggiungere l'amante e da allora non si è più sentito parlare di
lei.
Al lettore questa sembrerà una storia tipicamente europea o inglese,
piuttosto che di un paese tanto lontano. Desidererei che riflettesse
che i capricci delle donne non conoscono limiti di clima o di
nazionalità e che sono simili ovunque, molto più di quanto si creda.
In un mese i miei progressi nella lingua furono buoni e quando ebbi
l'onore di essere ricevuto a corte, fui in grado di rispondere alle
domande di Sua Maestà. Questi non mostrò il minimo interesse per le
leggi, il governo, la storia, la religione e i costumi del mio paese,
ma si limitò a chiedermi informazioni sugli studi di matematica che vi
venivano svolti, che d'altra parte accolse con indifferenza e
disprezzo, per quanto il battitore cercasse di tenerlo ben sveglio.









3 - UN FENOMENO RISOLTO DALLA FILOSOFIA E DALL'ASTRONOMIA MODERNA.
PROGRESSI DEI LAPUZIANI IN QUESTA ULTIMA SCIENZA. COME IL RE REPRIME
LE INSURREZIONI.

Quando chiesi al re il permesso di ispezionare l'isola, me lo concesse
con piacere facendomi accompagnare dal maestro. La prima cosa che mi
interessava sapere era per quale causa, naturale o artificiale, era in
grado di muoversi ed ora ne darò una spiegazione al lettore.
L'isola volante o galleggiante ha una forma perfettamente circolare
con un diametro di 7837 metri, cioè un quattro miglia e mezzo, per cui
ha una superficie di diecimila acri mentre lo spessore è di trecento
metri. La base, o se si vuole la superficie inferiore, che è quella
che si vede dal basso, è una lastra levigata di diamante, spessa
duecento metri. Ad essa seguono strati diversi di altri minerali e il
tutto è ricoperto da un tappeto di terra fertile di tre o quattro
metri. La superficie superiore si sviluppa in declivio verso il centro
dove sono convogliate le rugiade e le piogge che cadono sull'isola,
tramite numerosi ruscelli. Qui le acque sono raccolte in quattro vaste
cisterne, larghe un mezzo miglio e a un duecento metri dal centro. Il
sole fa evaporare l'acqua durante la giornata, così che le cisterne
non traboccano mai. D'altra parte il sovrano può, volendo, portare
l'isola al di sopra delle nuvole e dei vapori e prevenire così ogni
pioggia. Infatti i naturalisti sono concordi nell'affermare che le
nuvole non salgono al di sopra delle due miglia, o almeno questo
succedeva in quel paese.
Al centro dell'isola si apre un pozzo largo cinquanta metri,
attraverso il quale gli astronomi discendono in una vasta grotta,
detta appunto "flandona gagnole" o caverna degli astronomi, posta a un
cento metri sotto il livello della faccia superiore del diamante. La
caverna è illuminata a giorno da venti lampade la cui luce è riflessa
dalle pareti adamantine. Qui si può trovare una gran quantità di
sestanti di tutti i tipi, quadranti, telescopi, astrolabi, ed altri
strumenti astronomici. Ma ciò da cui dipende il destino dell'isola è
un magnete di proporzioni colossali, a forma di spoletta da tessitore,
lungo sei metri e spesso più di tre nel punto più largo. Il magnete è
sostenuto da un mozzo di diamante che lo attarversa da una parte
all'altra e attorno al quale gira: esso è calibrato alla perfezione,
tanto è vero che lo si può far girare con una lieve pressione della
mano.
Lo circonda un cilindro di diamante, vuoto, della profondità e dello
spessore di quattro metri e del diametro di dodici, posto
orizzontalmente e sostenuto da otto piedi di diamante, ognuno dei
quali è alto sei metri. Nella parte interna, al centro, c'è una
scanalatura di trenta centimetri nella quale si innestano gli estremi
del mozzo girevole.
Il magnete è inamovibile, perché il rivestimento cilindrico e i suoi
supporti sono un tutt'uno con la lastra adamantina che costituisce il
basamento dell'isola.
Grazie al magnete l'isola può salire e scendere o muoversi in
direzioni varie. Infatti il magnete è dotato da un lato di una forza
di attrazione nei confronti della terra sottostante sulla quale
governa il re, dall'altro di una forza di repulsione. Quando il
magnete viene messo in posizione eretta con il polo positivo verso la
terra, l'isola scende; quando, viceversa, il polo negativo viene
rivolto in giù, l'isola sale. Se il magnete sta in posizione obliqua,
l'isola scivola via planando diagonalmente, perché le forze del
magnete agiscono sempre parallelamente alla sua inclinazione.
Con questo moto ad inclinazione alterna, l'isola è in grado di
sorvolare le varie provincie dei territori reali. Per spiegare il suo
movimento, stabiliamo che A-B rappresenti una linea che attraversa
l'isola, mentre il segmento c-d stia per il magnete (c=polo positivo,
d=polo negativo) e C per l'isola. Ammettiamo che il magnete venga
disposto lungo il segmento c-d con il polo negativo verso il basso:
l'isola sarà sospinta in alto, in linea obliqua, verso D. Giunta al
punto D, ammettiamo di girare il magnete intorno al suo asse fino a
volgere in basso il polo positivo: esso farà scendere l'isola
obliquamente al punto E, dove, se giriamo ancora il magnete fino a
ricondurlo alla posizione di E-F, con il polo negativo verso il basso,
l'isola risalirà trasversalmente verso F, e qui giunta, potremmo
girare il magnete con il polo positivo verso G, e da G ad H e così
via.
Cambiando la posizione del magnete secondo la nostra volontà, faremo
procedere l'isola con un'alternanza di salite e discese in diagonale,
fino ad esplorare tutti i territori dell'isola.
Ma dobbiamo notare che l'isola non può oltrepassare i limiti della
terra sottostante, né innalzarsi al di sopra delle quattro miglia. Gli
astronomi, che hanno dedicato ponderosi trattati alle proprietà del
magnete, lo spiegano così: la forza magnetica non agisce oltre le
quattro miglia, inoltre il minerale influenzato dal magnete si trova
nelle viscere della terra sottostante e negli abissi del mare, entro
un raggio di sei miglia dalle coste. Esso non è dunque diffuso per
tutto il globo, ma soltanto nei territori del re. Con in mano un
simile potere era stato facile per un sovrano ridurre in proprio
dominio le terre sottoposte all'influenza magnetica.
Quando il magnete è parallelo all'orizzonte, l'isola rimane immobile;
infatti in questo caso i due poli sono ad uguale distanza dalla terra
e, poiché l'uno attrae e l'altro respinge con la stessa forza, ne
deriva uno stato di quiete.
Il magnete è affidato ad alcuni astronomi che lo girano di volta in
volta secondo gli ordini del sovrano. Essi passano la maggior parte
della vita nella osservazione dei corpi celesti con telescopi di gran
lunga più precisi dei nostri, ed infatti, sebbene quelli più lunghi
non vadano oltre il metro, hanno una capacità d'ingrandimento molto
superiore ai nostri e danno immagini siderali infinitamente più
nitide. Grazie a questa tecnica avanzata sono in grado di estendere le
loro esplorazioni del cosmo molto più lontano di noi. Hanno così
potuto stilare un elenco di diecimila stelle fisse, mentre il nostro
inventario più completo non va oltre un terzo di quel numero. Inoltre
hanno scoperto due astri minori, o satelliti, che girano intorno a
Marte, dei quali il più vicino dista dal pianeta tre volte il suo
diametro, l'altro cinque volte, ed entrambi gli ruotano intorno con i
rispettivi tempi di rivoluzione di dieci e di ventuno ore e mezzo,
sicché il quadrato dei loro tempi periodici sta in proporzione molto
approssimata al cubo delle distanze dal centro di Marte. Ciò dimostra
con chiara evidenza che sono governati dalla stessa legge di
gravitazione che sostiene tutti gli altri corpi celesti.
Hanno rilevato anche l'esistenza di novantatre differenti comete,
determinandone i periodi con precisione matematica. Se questo fosse
vero, come loro sostengono con estrema sicurezza, sarebbe veramente
utile che queste loro scoperte fossero rese pubbliche, così che le
teorie sulle comete, che al momento sono tanto opinabili e incomplete,
potrebbero raggiungere il grado di perfezione che caratterizza le
altre parti dell'astronomia.
Il re dell'isola volante potrebbe essere il sovrano più dispotico se
riuscisse ad avere dalla sua l'appoggio incondizionato dei ministri,
ma questi, che hanno vasti possedimenti nel continente ed inoltre
conoscono bene l'incerto futuro di un favorito, non permettono che la
terra sottostante l'isola venga ridotta in stato di tirannia.
Se accade che una città si ribelli o cada in preda a fazioni
rivoluzionarie, o si rifiuti di versare i tributi al sovrano, questi
può ricorrere a due metodi per ricondurla all'obbedienza. Il primo e
meno rigoroso consiste nel portare l'isola sopra la città in questione
e i territori limitrofi, in modo da privare quella popolazione dei
benefici dei raggi solari e della pioggia, provocando malattie e
carestie spaventose. Può anche accadere che gli abitanti vengano
lapidati con lanci di pietre dall'isola, fino ad essere costretti a
rifugiarsi in grotte e caverne, mentre i tetti delle loro case volano
in frantumi. Se, nonostante questi avvertimenti, continuano
nell'insurrezione e nella disobbedienza, il sovrano ricorre ai rimedi
estremi, posando l'isola sulla città e schiacciando uomini e case.
Tuttavia è raro che arrivi ad adottare simili soluzioni; ed è lui il
primo ad essere riluttante, oltre naturalmente ai ministri che vedono
in questo espediente un modo per attirarsi l'odio dei sudditi e per
provocare la devastazione delle loro proprietà che giacciono
interamente sul continente, mentre l'isola appartiene al demanio
regio.
Ma c'è anche un altro serio motivo che impedisce ai sovrani di
ricorrere, eccetto casi di gravissima insubordinazione, alla punizione
estrema. Si dà infatti il caso che le città più grandi, ipotetiche
candidate alla distruzione, siano circondate da rocce altissime o da
guglie e pinnacoli di pietra, avendo scelto non a caso quei territori
per prevenire simili catastrofi; per cui un'improvvisa picchiata
dell'isola potrebbe provocare un serio danneggiamento della base
adamantina la quale, sebbene sia dello spessore di un centinaio di
metri, potrebbe schiantarsi per un colpo secco o fendersi per il
calore che si sprigiona dagli incendi delle case sottostanti, come
accade spesso che si crepino i fondi di ferro o di pietra dei nostri
camini. Il popolo sa bene tutto ciò, e quindi capisce fino a che punto
gli è lecito spingere la resistenza, quando sia in gioco la sua
libertà o le sue proprietà. Il re, a sua volta, se è provocato
all'estremo e si decide a ridurre una città ad un cumulo di macerie,
fa scendere l'isola con una delicatezza estrema, simulando all'ultimo
minuto misericordia verso i cittadini. Evita in questo modo di
danneggiare il basamento di diamante. Se questo accadesse, i filosofi
sono concordi nel ritenere che il magnete non sarebbe più in grado di
sostenerla e l'intera massa precipiterebbe al suolo.
Secondo una legge inderogabile del regno è assolutamente vietato al re
e ai suoi due figli maggiori di scendere dall'isola, così come alla
regina fino a quando non abbia superato l'età in cui si concepisce.

















4 - L'AUTORE LASCIA LAPUTA, ED E' ACCOMPAGNATO A BALNIBARBI.
DESCRIZIONE DELLA CAPITALE E DELLE CAMPAGNE CIRCOSTANTI. VIENE
OSPITATO DA UN GRAN SIGNORE. SUA CONVERSAZIONE CON QUESTO SIGNORE.

Non posso certo dire di essere stato trattato male in quest'isola,
anche se mi sentivo come messo da parte e oggetto a volte di un certo
disprezzo, perché il re e la gente in genere non mostravano alcun
interesse al di fuori della matematica e della musica; e poiché in
queste scienze ero molto inferiore a loro, venivo considerato con
sufficienza. Oltre tutto, essendo ormai a conoscenza dei segreti
dell'isola, avevo una voglia matta di andarmene, tanto più che quella
gente mi aveva annoiato. Riconosco che sono dei veri talenti in quelle
due scienze, di cui ho qualche conoscenza, ma allo stesso tempo sono
così persi nelle loro riflessioni speculative, che non si possono
immaginare compagni più scostanti. Durante i due mesi del mio
soggiorno conversai soltanto con le donne, i mercanti, i battitori, i
paggi, aumentando il disprezzo dei saggi nei miei confronti; eppure
quelle furono le uniche persone con le quali riuscii in qualche modo a
stabilire un contatto. Studiando con impegno, avevo raggiunto una
buona conoscenza della loro lingua ed ero stanco di rimanere recluso
in un'isola di muti e di sordi, così decisi di andarmene alla prima
occasione.
A corte viveva un gran signore, parente stretto del re, e per questa
unica ragione tenuto in dovuto rispetto. Per il resto lo consideravano
la persona più ignorante e stupida dell'isola. Aveva compiuto non
poche delicate missioni per la corona, era dotato di qualità naturali
e di cultura, di probità e di senso dell'onore; ma sfortunatamente non
aveva orecchio per la musica. I maligni dicevano che addirittura non
era capace di andare a ritmo e che i maestri avevano sudato sette
camicie per fargli imparare i rudimenti della matematica. Nei miei
confronti fu di una grande cortesia, mi fece l'onore di farmi visita
chiedendomi notizie della vita in Europa, delle leggi, dei costumi,
della cultura nei vari paesi che avevo conosciuto durante i miei
viaggi. Mi ascoltava con estrema attenzione e faceva osservazioni
acutissime. Lo accompagnavano due battitori, ma questi entravano in
funzione solo a corte e durante le cerimonie; quando eravamo insieme
li congedava.
Pregai questo illustre personaggio di rivolgere al re una supplica
perché potessi lasciare l'isola. Questi me lo concesse, anche se a
malincuore, perché pensava di avermi fatto offerte vantaggiose;
tuttavia le respinsi con i sensi della mia più profonda stima e
deferenza.
Presi commiato dal sovrano e dalla corte il 16 febbraio. Il re volle
farmi un dono del valore di duecento sterline ed ancora più grande fu
quello del suo congiunto, il mio protettore, insieme ad una lettera di
presentazione per un suo amico di Lagado. L'isola si trovava in quel
momento sopra una montagna a due miglia dalla città, così potei
scendere nella stessa maniera in cui ero salito.
Il paese che è sottoposto al re dell'isola volante risponde al nome di
Balnibarbi e la capitale, come ho già detto, a quello di Lagado. Mi
sentii rinascere a posare i piedi sulla terra ferma e mi incamminai
sicuro di me verso la capitale, perché ero vestito come gli abitanti
del luogo e in grado di parlare tranquillamente con loro. Trovai quasi
subito la casa del personaggio indicatomi, gli presentai la lettera da
parte del nobile dell'isola e fui ricevuto con grande gentilezza.
Questo gran signore, che si chiamava Munodi, mi fece preparare un
alloggio in casa sua e vi abitai per tutto il soggiorno in quel paese,
trattato con la più cordiale ospitalità.
Il giorno seguente al mio arrivo, mi accompagnò in carrozza a vedere
la città che è grande circa la metà di Londra, con edifici costruiti
in maniera stramba e quasi tutti in uno stato deplorevole. La gente
per le strade camminava frettolosa, con un che di selvatico addosso,
lo sguardo fisso, i vestiti a brandelli.
Uscimmo da una delle porte della città e ci addentrammo per un tre
miglia nella campagna, dove vidi parecchi contadini che lavoravano la
terra con quelli che dovevano essere degli strumenti, senza capire che
cosa stessero facendo; né riuscivo a vedere le minime tracce di erba o
di grano, malgrado il suolo fosse fertile. Queste strane folle
cittadine e campagnole mi riempivano di stupore, per cui chiesi alla
guida che significato avesse quel gran brulichio di teste, mani e
faccie indaffarate in città e in campagna, visto che non ero stato
capace di cogliere il minimo segno di un'attività produttiva; che
anzi, non avevo mai visto un terreno così mal tenuto, case tanto
diroccate e un popolo tanto miserabile e indigente.
Lord Munodi era una persona di prim'ordine; già governatore di Lagado
per diversi anni, era stato messo in disparte sotto l'accusa di
incapacità da un complotto di ministri. Il re continuava a trattarlo
con benevolenza e a stimarlo per la rettitudine, anche se lo
considerava di scarsissima intelligenza.
Quando gli ebbi francamente esposto le mie riserve su quel paese e
sugli abitanti, lui si limitò a rispondermi che avevo vissuto troppo
poco fra loro per potermi fare un giudizio, e che in ogni paese ci
sono usanze diverse e altri simili luoghi comuni. Quando tornammo a
palazzo, tuttavia, mi domandò se mi piaceva quell'edificio, se vi
avevo notato stranezze, cosa avevo da obiettare alle vesti e agli
sguardi dei domestici. Ma era una domanda retorica, perché tutto in
casa sua filava alla perfezione ed era tenuto con ordine ed eleganza.
Risposi allora che l'accortezza di Sua Eccellenza, la posizione, i
mezzi di cui disponeva l'avevano preservato dal cadere in quegli
errori in cui gli altri erano stati sospinti dalla follia e dalla
miseria. Mi rispose che se fossi andato con lui nella sua residenza di
campagna, a un venti miglia dalla città, avremmo avuto maggior agio
per approfondire la conversazione. Dissi che poteva considerarmi a sua
disposizione e così partimmo il mattino seguente.
Cammin facendo mi fece notare i vari modi in cui i contadini
coltivavano la terra; metodi che mi erano incomprensibili, perché,
esclusi pochissimi appezzamenti, non riuscivo a vedere né una spiga di
grano, né un filo d'erba. Dopo tre ore la scena cambiò completamente:
ci trovavamo ora in una campagna lussureggiante, con case di
agricoltori vicine una all'altra, costruite a regola d'arte e campi
recintati coltivati a grano, a vigneto o a pascolo. Non ricordo di
aver mai visto una scena tanto amena. Sua Eccellenza notò che mi ero
rasserenato in viso e disse, sospirando, che cominciavano i terreni di
sua proprietà e che sarebbero continuati ininterrottamente fino alla
villa. Aggiunse inoltre che i suoi compatrioti lo beffeggiavano e lo
tenevano in sommo disprezzo, perché non sapeva amministrare meglio i
suoi averi dando un esempio negativo a tutto lo stato, e che gli unici
a seguirlo erano pochissimi vecchi, inetti e deboli come lui.
Alla fine giungemmo alla villa, un edificio dal nobile stile,
costruita secondo i canoni deli'architettura classica. Fontane,
giardini, sentieri, viali, boschetti erano disposti con uno spiccato
senso della funzionalità e del buon gusto. Elogiavo quanto vedevo
tutt'intorno, ma Sua Eccellenza sembrò non accorgersene fin dopo cena
quando, rimasti senza terzi incomodi attorno, mi disse
malinconicamente che era incerto se far demolire le sue abitazioni di
città e di campagna, per ricostruirle secondo la moda corrente, se
distruggere le sue piantagioni e impiantarne altre seguendo l'uso del
tempo, e infine dare analoghe disposizioni a tutti i suoi fittavoli,
per non incorrere nell'accusa di orgoglio, eccentricità, presunzione,
ignoranza, capriccio e magari aumentare lo sfavore del re nei suoi
confronti. Aggiunse che l'ammirazione che provavo sarebbe sparita o
diminuita quando fossi stato messo al corrente di certi particolari,
di cui non avevo sentito certamente parlare a corte, visto che la
gente lassù era troppo presa nelle sue speculazioni per occuparsi di
quanto accadeva in basso.
Riassumendo le sue parole seppi che, una quarantina di anni prima,
certe persone erano salite sull'isola di Laputa sia per affari che per
prendersi una vacanza. Ne erano ridiscese cinque mesi dopo senza aver
fatto grandi progressi in matematica, ma gonfie di spiriti volatili
assorbiti nelle regioni aeree. Al loro ritorno queste persone
cominciarono a mettere tutto in discussione, decise a sovvertire le
belle arti, le scienze, la lingua e le arti meccaniche per informarle
a nuovi principi. A questo fine ottennero un permesso reale per
edificare in Lagado un'accademia di inventori. Ben presto diventò una
mania e non ci fu città di una certa grandezza in tutto il regno, che
non avesse la sua brava accademia. In questi istituti gli scienziati
creano nuovi metodi e nuove regole per la coltivazione dei campi e per
la scienza delle costruzioni, inventano nuovi strumenti ed utensili
per ogni tipo di lavoro e di produzione, grazie ai quali sostengono
che una sola persona farà il lavoro di dieci e che i palazzi saranno
costruiti in una settimana e con materiali così resistenti da sfidare
l'eternità. I frutti della terra matureranno in qualunque stagione
farà comodo, cento volte più abbondanti di prima, per non parlare di
altre felici prospettive. L'unico inconveniente è che nessuno di
questi progetti è stato portato a termine, mentre la campagna giace in
uno stato miserevole, le case vanno in rovina, la gente è privata di
cibo e di vestiario. Tuttavia, invece di essere presi dallo sconforto,
sono cento volte più decisi a proseguire i loro esperimenti, spinti
dalla disperazione e dalla speranza insieme. Quanto a lui, che si
sentiva un uomo privo di iniziativa, preferiva andare avanti alla
maniera degli antichi, vivere nella casa degli avi e comportarsi in
ogni momento della vita senza voler sovvertire nulla. Solo una
minoranza sparuta di nobili intelletti lo avevano seguito, sebbene
fossero guardati con disprezzo e malevolenza, come nemici dell'arte e
pessimi compaesani, capaci solo di anteporre i loro comodi e i loro
agi al progresso generale della patria.
Sua Eccellenza aggiunse che non voleva guastarmi con altri dettagli il
piacere di visitare la grande accademia, dove intendeva portarmi il
giorno dopo. Volle soltanto che dessi uno sguardo ad un edificio
diroccato sui fianchi di una montagna a un tre miglia di distanza.
Disse che un tempo possedeva un mulino efficientissimo a mezzo miglio
da casa sua azionato dalla corrente di un fiume ricco di acque, capace
di smaltire il lavoro della sua fattoria. Sette anni prima si era
recato a fargli visita un gruppo di quegli inventori con la proposta
di demolire il vecchio mulino e costruirne un altro sui fianchi della
stessa montagna, nella cui dorsale proponevano di scavare un lungo
canale per la raccolta delle acque che sarebbero poi state convogliate
al mulino per mezzo di condotte e macchine varie; sostenevano infatti
che ad una certa altezza l'aria rende l'acqua instabile disponendola
al movimento e che, per azionare il mulino, sarebbe stata sufficiente
una quantità d'acqua inferiore a quella di un fiume che scorra in
dolce declivio, proprio perché precipita dalle alture circostanti.
Lord Munodi aveva accettato la proposta su insistenza di alcuni amici
e perché si trovava in rapporti poco buoni con la corte; ma dopo due
anni di lavoro, in cui erano stati impiegati cento operai,
l'esecuzione si dimostrò pessima, il progetto andò in malora e tutti
ne gettarono la colpa sulle sue spalle. Da allora in poi gli inventori
non avevano fatto altro che deriderlo, avevano convinto altri a
gettarsi in analoghe imprese a cui seguivano identici risultati.
Dopo pochi giorni facemmo ritorno in città e Sua Eccellenza,
conoscendo la cattiva fama che aveva presso l'accademia, ritenne
opportuno farmi accompagnare da un suo amico. Mi presentò come un
grande ammiratore delle invenzioni e una persona piena di interessi e
di fede. Ed in qualche modo tutto ciò rispondeva a verità, perché in
gioventù ero stato a mio modo un inventore.













5 - L'AUTORE VISITA LA GRANDE ACCADEMIA Dl LAGADO. AMPIA DESCRIZIONE
DELLE ARTI ALLE QUALI SI DEDICANO GLI STUDIOSI.

Questa accademia non è costituita da un blocco unico ma da un
complesso di diversi edifici che si affacciano su entrambi i lati
della strada; si trattava di cade che, destinate ad andare in rovina,
erano state acquistate e riservate a questo scopo.
Ricevuto con molta cortesia dal guardiano, prolungai per diversi
giorni la visita all'accademia. Ogni stanza ospita uno o più
ricercatori e credo di avere visitato non meno di cinquecento stanze.
Il primo che vidi era sperduto, la faccia e le mani sporche, barba e
capelli lunghi, stracciato e sbruciacchiato in varie parti; i vestiti,
la camicia, la pelle erano tutte dello stesso colore. Aveva dedicato
otto anni a un progetto per estrarre i raggi solari dalle zucche.
Questi li avrebbe chiusi in fiale di vetro, pronti per riscaldare
l'aria in estati rigide e inclementi. Mi disse che nutriva la segreta
speranza di potere, con altri otto anni di studio, dotare della luce
solare, e ad un prezzo modico, i giardini del governatore. Per il
momento si lamentava che i suoi fondi fossero all'asciutto e mi pregò
di lasciargli qualcosa a titolo d'incoraggiamento del suo ingegno,
tanto più che era stata una stagione proibitiva per le zucche. Gli
detti qualche soldo, infatti il mio accompagnatore mi aveva fornito di
denaro a questo scopo, sapendo bene che era pratica comune degli
scienziati batter cassa a quanti li vanno a visitare.
Passai in un'altra stanza, ma feci un salto indietro per il tanfo
terribile che mi aveva investito. La guida mi spinse avanti,
sussurrandomi in un orecchio di non offendere a quel modo l'inventore,
individuo permalosissimo, per cui non ebbi il coraggio nemmeno di
tapparmi il naso. Questi era il decano di tutti i ricercatori. Aveva
il volto e la barba di un colore giallastro, le mani e i vestiti
imbrattati di sporcizia. Quando gli venni presentato, lui mi buttò le
braccia al collo e certamente avrei preferito fare a meno di quella
manifestazione di affetto. Fin dal suo ingresso nell'accademia si era
adoperato per rigenerare gli escrementi umani nei cibi da cui erano
derivati, scomponendoli in varie sostanze, estraendo il fiele che li
colora, facendo esalare l'odore, scremando la schiuma prodotta dalla
saliva. Tutte le settimane la società gli mandava un recipiente, colmo
di escrementi umani, della grandezza di una botte di Bristol.
Ne vidi un altro, intento a calcinare il ghiaccio per estrarne polvere
da sparo, il quale volle sottoporre alla mia attenzione un suo
trattato riguardante la malleabilità del fuoco, che era intenzionato a
pubblicare.
Veniva poi un architetto di fine ingegno che aveva studiato un nuovo
metodo per costruire le case cominciando dal tetto e scendendo
gradualmente fino a gettare le fondamenta, basandosi sulla pratica di
quegli insetti sagaci che sono i ragni e le api.
Un uomo, cieco dalla nascita, era circondato da un gruppo di
apprendisti nelle sue stesse condizioni; il loro compito era quello di
mescolare i colori per i pittori, seguendo gli insegnamenti del loro
maestro che li riconosceva al tatto e all'odorato. Sfortunatamente
erano ancora dei principianti, ma anche il loro maestro commetteva uno
sbaglio dopo l'altro; ciò non toglie che questo artista avesse tutta
la stima e l'incoraggiamento dell'intera confraternita.
In un'altra stanza ebbi il piacere di conoscere un inventore il quale
aveva trovato un nuovo modo di arare la terra con i porci,
risparmiando fatica e la spesa dell'aratro e delle bestie. Consiglia
il metodo seguente: in un acro di terra si seppelliscono, alla
profondità di venti centimetri e ad una distanza di quindici, una
certa quantità di ghiande, castagne, datteri ed altra frutta di cui i
maiali sono ghiottissimi; poi si portano seicento di questi animali
sul campo dove, in pochi giorni, rigireranno tutta quanta la terra
alla ricerca del cibo, rendendola non solo pronta ad essere seminata,
ma perfino concimata dal loro sterco. Certo, dopo alcuni esperimenti
avevano scoperto che il costo e l'ammattimento erano ingenti, mentre
il raccolto quasi inesistente. Ma non c'è dubbio che questa invenzione
sia passibile di grandi migliorie.
Le pareti e il soffitto di un'altra stanza erano tappezzati
interamente di ragnatele, ad esclusione di un buco dal quale passava
l'inventore. Quando entrai, quello mi gridò di non rovinargli le tele,
poi compianse il fatale errore della gente che per tanto tempo aveva
fatto ricorso ai bachi da seta, mentre lui possedeva un numero
strabiliante di insetti domestici tanto più bravi dei bachi, perché
sapevano filare e tessere. Inoltre sosteneva che, con l'impiego dei
ragni, si sarebbe potuta evitare la spesa della tintura; mi convinse
in tutto e per tutto quando mi mostrò un nugolo di mosche dai colori
stupendi con le quali alimentava i suoi ragni, i quali, a loro volta,
avrebbero filato tele sgargianti, adatte a soddisfare le più accese
fantasie. Gli sarebbe bastato trovare gli alimenti idonei per le
mosche: certi tipi di resine, olii e sostanze agglutinanti, capaci di
dare forza e resistenza ai fili.
C'era un astronomo impegnato a collocare sul campanile del municipio
una meridiana, accordando i moti diurni e annuali della terra e del
sole con casuali movimenti della banderuola.
Avevo accusato un leggero dolore di pancia e allora la guida mi portò
in un'altra stanza, che c'era lo studio di un medico eminente,
famosissimo perché curava questo disturbo usando lo stesso strumento
per operazioni contrarie. Si serviva di un paio di mantici portentosi
che finivano in un sottile beccuccio d'avorio che introduceva per vari
centimetri nell'ano; aspirandone l'aria, sosteneva che riusciva a
rendere le viscere flosce come vesciche secche. Se poi si trattava di
un disturbo più grave e tenace, dopo avere introdotto il cannello
soffiava dentro l'aria dei mantici e poi li riempiva nuovamente,
avendo cura nel frattempo di turare l'orifizio anale con il pollice.
Se si fosse ripetuta l'operazione per due o tre volte, l'aria immessa
avrebbe dovuto erompere con violenza trascinandosi dietro la causa del
male, come l'acqua di una pompa, con immediato sollievo del paziente.
Lo vidi sperimentare entrambi i metodi su di un cane, ma il primo non
mi sembrò che desse alcun effetto. Dopo il secondo trattamento, il
cane fu sul punto di esplodere ed emise una scarica così irruenta da
recare danno ad entrambi, e poi morì sul colpo. Lasciammo quel medico
che tentava di rianimarlo con lo stesso metodo. Visitai molte altre
stanze, ma non starò ad annoiare il lettore con tutte le curiose
invenzioni che vidi, dato che mi piace la brevità.
Fino a quel momento avevo visitato solo un'ala dell'accademia: l'altra
era adibita ad ospitare i promotori delle scienze speculative, di cui
mi occuperò subito dopo avere menzionato un altro illustre personaggio
che loro chiamano "l'artista universale." Ci disse che da trenta anni
si macerava il cervello per migliorare la vita umana. Gli avevano
messo a disposizione due sale stracolme di oggetti rari e
stupefacenti, e cinquanta uomini al suo servizio. Alcuni erano intenti
a condensare l'aria in una sostanza solida e asciutta, estraendone il
nitro e lasciando defluire le particelle fluide o acquose; altri a
rendere soffice il marmo per farne cuscini e puntaspilli; altri ancora
a pietrificare gli zoccoli dei cavalli per prevenire le fenditure.
Quanto all'artista, in quel tempo era occupato in due superbi
progetti: il primo consisteva nel seminare la terra con la pula che,
secondo lui, conteneva la vera virtù germinativa, il seme del seme,
come volle dimostrarmi con vari esperimenti che non capii
completamente. Il secondo nel cospargere due agnelli da latte con
resine, minerali e vegetali per prevenire la crescita della lana;
sperava infatti che in breve tempo sarebbe riuscito a diffondere in
tutto il regno questa nuova razza di pecore calve.
Attraversammo una strada per entrare nell'altro settore dell'accademia
che, come ho detto, è abitato dagli inventori nel campo della
conoscenza.
Il primo che vidi si trovava in una stanza enorme, circondato da
quaranta allievi. Appena ci fummo scambiati i convenevoli, avendo
notato i miei sguardi incuriositi verso un immenso telaio che prendeva
quasi tutta la stanza in larghezza e in lunghezza, disse che forse mi
sarei meravigliato nel vederlo intento a migliorare il campo della
conoscenza per mezzo di attività meccaniche e manuali. Ma il mondo si
sarebbe presto accorto della sua incomparabile utilità; aggiunse di
sentirsi fiero perché mai fino ad allora era saltata in testa a
qualcuno un'idea tanto geniale. Disse poi che, come ognuno sa bene, la
via per apprendere le arti e le scienze è dura e faticosa; ma con la
sua invenzione anche i più ignoranti avrebbero potuto scrivere libri
di filosofia, poesia, politica, legge, matematica, teologia. Ingegno e
applicazione non servivano a nulla; sarebbe stata sufficiente una
modica spesa e uno sforzo muscolare irrisorio. Allora mi portò al
telaio attorno lungo il quale erano sistemati in fila gli allievi. Era
un quadrato di sei metri, posto nel mezzo della stanza, dalla
superficie composta di molti pezzi di legno, simili a dadi comuni di
diverse dimensioni e tenuti insieme da fili sottili. Sopra ogni faccia
dei dadi era stato incollato un pezzo di carta e tutti insieme
comprendevano le parole della loro lingua in tutte le forme,
declinazioni e coniugazioni, sebbene senza una distribuzione
sistematica. Il docente richiamò la mia attenzione perché stava per
azionare la macchina. Al suo comando ogni allievo impugnò la
rispettiva manovella di ferro che sporgeva dal telaio (erano in tutto
quaranta), poi dette un giro improvviso cambiando completamente la
disposizione delle parole. Allora fece leggere pian pianino a
trentasei ragazzi le diverse righe come apparivano sulla superficie
del telaio, e quando pescava tre o quattro parole che si potevano
unire per formare una frase, la dettava agli altri quattro, che
fungevano da scrivani. L'operazione venne ripetuta tre o quattro volte
e ad ogni giro di manovella le parole sbalzavano di seggio con il
rovesciarsi dei dadi.
Gli studenti lavoravano al telaio per sei ore al giorno e il docente
volle mostrarmi parecchi volumi in folio nei quali aveva raccolto
frasi sconnesse che intendeva ricucire, per fornire al mondo la summa
completa di tutte le arti e le scienze. Indubbiamente riconobbe che il
metodo doveva essere ancora perfezionato e reso più rapido; ciò
sarebbe stato possibile se si fosse aperta una sottoscrizione pubblica
per far costruire cinquecento telai simili in tutta Lagado e si
fossero obbligati i vari direttori dei telai a mettere in comune le
loro collezioni di dati.
Mi disse con enfasi che si era dedicato allo studio di questa
invenzione fin dalla più tenera giovinezza, che aveva trasferito
l'intero vocabolario nel telaio facendo un calcolo preciso in quali
proporzioni sono distribuiti nei libri i nomi, i verbi e le altre
parti del discorso.
Espressi i miei riverenti omaggi a questa persona per la sua grande
chiarezza e affabilità e gli promisi che se mai un giorno fossi
ritornato nella mia terra natia, gli avrei reso giustizia
dichiarandolo il solo inventore di questa macchina prodigiosa. Gli
chiesi anzi il permesso di disegnare lo schema su di un pezzo di
carta, perché in Europa gli inventori hanno l'abitudine di rubarsi a
vicenda i progetti, così da far nascere controversie interminabili per
stabilire il vero creatore. Con questo mio disegno avrei preso ogni
precauzione per evitare che qualcun altro si attribuisse il merito
dell'invenzione.
Passammo successivamente alla scuola di lingue, dove alcuni dotti
erano riuniti in consulto per migliorare quella del loro paese.
Il primo progetto consisteva nel ridurre tutte le parole
polisillabiche a monosillabi, cancellando verbi e paeticipi dal
lessico, visto che tutte le cose immaginabili non sono che nomi.
L'altro era un progetto schematico per abolire completamente le
parole. Esso veniva caldamente proposto per i vantaggi che procurava
alla salute e alla velocità della comunicazione. Infatti ogni parola
che pronunciamo provoca una grossa azione corrosiva nei polmoni,
contribuendo ad abbreviarci la vita. Si proponeva dunque questo
espediente per cui, se le parole altro non sono che nomi per le cose,
sarebbe stato molto più conveniente che gli uomini si fossero portati
appresso quelle cose di cui intendevano parlare per qualsiasi
faccenda. Questa invenzione si sarebbe tradotta in pratica, con grandi
vantaggi concreti e salutari, se le donne in combutta con il popolino
ignorante non avessero minacciato una rivoluzione, sostenendo la
libertà di parlare con le loro lingue, così come facevano i loro
antenati: e poi mi si venga a dire che il popolo è amante del sapere!
Ciononostante alcuni saggi si mantengono fedeli a questo progetto di
parlare con le cose, che presenta solo questo inconveniente per cui,
se un uomo ha da discutere di faccende complicate, è costretto a
portarsi sulle spalle un sacco di cose, a meno che possa permettersi
il lusso di farsi aiutare da servitori stracarichi. Mi è capitato
spesso di vedere un paio di questi sapienti sopraffatti da enormi
fagotti, simili in tutto ai nostri venditori ambulanti, i quali
incontrandosi depongono il loro fardello, aprono i sacchi e
intrattengono conversazioni di un'ora; poi rinfilano dentro i loro
strumenti, si aiutano a vicenda a ricaricarsi sulle spalle i fardelli
e si salutano.
Per conversazioni brevi, ognuno può portarsi in tasca o sottobraccio
gli oggetti necessari e, a casa, nessuno si sentirà certamente a corto
di munizioni; per questo l'aula dove si incontrano i seguaci di questa
invenzione è strapiena di cose pronte per fornire materia a questo
tipo di conversazioni artificiali.
Questa invenzione offriva anche un altro vantaggio, perché avrebbe
potuto essere considerata come una lingua universale, compresa in
tutte le nazioni civili che usano più o meno gli stessi tipi di
utensili, il cui impiego sarebbe stato familiare ad ognuno. In questo
modo gli ambasciatori avrebbero potuto dialogare direttamente con
sovrani e ministri pur ignorandone completamente la lingua.
Venne poi la volta della scuola di matematica, dove l'insegnante
seguiva un metodo inimmaginabile a noi europei: si scrivevano, con
inchiostro composto di tintura cefalica, enunciati e dimostrazioni su
una sottile ostia. Lo studente doveva trangugiarla a stomaco vuoto e
per tre giorni era tenuto a pane ed acqua. Quando l'ostia veniva
digerita, la tintura cefalica saliva al cervello portando con sé anche
gli enunciati matematici. Fino ad allora i risultati si erano
dimostrati inferiori all'aspettativa; questo era dovuto a qualche
inesattezza nella dose, ma anche alla disubbidienza di questi
ragazzacci rccalcitranti i quali si liberano di questa pozione
dlsgustosa prima di averla digerita, oppure non rispettando la dieta
alimentare richiesta.









6 - CONTINUA LA DESCRIZIONE DELL'ACCADEMIA. L'AUTORE PROPONE ALCUNI
MIGLIORAMENTI CHE VENGONO ACCOLTI ONOREVOLMENTE.

La visita alla scuola degli innovatori politici non fu affatto
piacevole: quello mi sembrò un mondo di pazzi, uno spettacolo che ha
sempre il potere di rattristarmi. Questi sciagurati si proponevano di
convincere i sovrani a scegliere i favoriti in base alla saggezza,
alla capacità e alla virtù; volevano insegnare ai ministri che il loro
operato deve essere rivolto al bene pubblico e a ricompensare il
merito, l'abilità effettiva, i servigi eminenti; infine intendevano
far capire ai prìncipi che il loro interesse era una cosa sola con
quello del popolo e che era loro dovere scegliere, per certi impieghi
dello stato, solo quelle persone realmente qualificate a svolgerli,
insieme a tante altre fantasie e chimere che l'uomo non si era mai
sognato di pensare. Questa visita mi convinse ancora di più del
vecchio detto, che non esiste al mondo nulla di tanto folle e
stravagante, che qualche filosofo non abbia preso per vero.
E' mio dovere tuttavia riconoscere che non tutti i saggi di questa
parte dell'accademia soffrivano di allucinazioni. C'era anzi un
sapiente di grande ingegno, eminente conoscitore dell'arte e dei
sistemi di governo. Questa persona illustre aveva dedicato i suoi
studi maggiori a escogitare i rimedi effettuali per ogni forma di
dissoluzione e di corruzione in cui incorre l'amministrazione del bene
pubblico, sia per colpa dei vizi e delle carenze dei governanti, sia
per lo spirito di rivolta di quanti dovrebbero obbedire. Ed a questo
scopo produrrò un esempio: se gli scrittori e i filosofi sono
d'accordo che esiste una stretta, universale analogia fra il corpo
politico e il corpo fisico, non ci saranno dubbi che la salute di
entrambi potrà essere conservata con gli stessi ricostituenti e le
malattie curate con gli stessi rimedi. Tutti sanno che i senatori e i
consigli dei ministri sono afflitti dalla sovrabbondanza di certi
umori maligni, ribollenti e devastatori, i quali provocano dolori alla
testa e scompensi al cuore, convulsioni terribili, dolorose
contrazioni dei nervi e dei tendini delle mani, specie della destra,
travasi di bile, flatulenze, vertigini, deliri, ed inoltre tumori
scrofolosi pieni di materia purulenta, con tutta una sintomatologia
che si manifesta in spumose eruttazioni acide, fame da lupo e
difficoltà digestive, oltre ad altre manifestazioni collaterali che
possiamo tralasciare. Il nostro eminente studioso di medicina
proponeva quindi che ci fossero dei medici i quali, all'apertura dei
dibattiti al senato, dovessero controllarne i membri per i primi tre
giorni della seduta, e alla fine di ogni giornata, tastando il polso
ad ogni senatore, considerando attentamente i sintomi e riunendosi a
consulto per stabilire la natura delle varie affezioni e i rimedi a
cui ricorrere. Il quarto giorno sarebbero dovuti ritornare al senato,
seguiti dai loro speziali stracarichi delle necessarie medicine, per
somministrare a ciascun membro, prima dell'inizio del dibattito,
lassativi, aperitivi, detergenti, corrosivi, astringenti, palliativi,
lassativi anticefalgici, itterici, apoflemmatici, acustici nelle dosi
richieste dai vari casi, ripetendo, variando o interrompendo la cura
alla seduta seguente a seconda degli effetti prodotti.
Si trattava di un progetto che avrebbe richiesto una modica spesa e,
secondo la mia modesta opinione, sarebbe stato di valido aiuto per
sbrigare gli affari di stato, specie in quei paesi dove i senatori
detengono il potere legislativo; avrebbe favorito l'unanimità,
abbreviato il dibattito, aperto bocche che stanno sempre chiuse, e
chiuso quelle che sono sempre aperte, moderato l'irruenza dei giovani,
svegliato la calma dei vecchi, animato gli addormentati e placato gli
irruenti.
Si sa inoltre che i favoriti dei sovrani sono di memoria corta, per
cui il nostro medico proponeva che si dovesse mettere qualcuno alle
costole del ministro in questione per suggerirgli, con parole semplici
e brevi, quello che doveva fare e quindi, al momento di andarsene,
dare al suddetto ministro una bella tirata di naso, o un calcio nel
ventre, o un pestone sui calli, o uno strappo d'orecchi, o infilargli
uno spillo nel sedere, o fargli un braccio nero di pizzichi, per
evitare che si dimenticasse; e alla fine di ogni giornata avrebbe
dovuto ripetere l'operazione, fino a quando avesse risolto o si fosse
deciso a rifiutare nettamente la faccenda.
Sosteneva inoltre che nelle assemblee ogni senatore dovesse non solo
manifestare la sua opinione e difenderla accanitamente, ma votare poi
contro di essa, perché solo in questo modo e seguendo questa procedura
si sarebbe potuto operare sicuramente in favore del pubblico bene.
Aveva escogitato un sistema meraviglioso per riconciliare le parti
avverse di una assemblea secondo il seguente metodo: si prendano un
centinaio di rappresentanti delle fazioni avverse e li si dispongano
due a due a seconda della misura della zucca, si faccia in modo che
valenti chirurghi taglino gli occipiti delle coppie
contemporaneamente, in modo da dividere equamente i cervelli; quindi
si scambino di posto gli occipiti ricucendo l'uno al posto dell'altro.
Si potrà obiettare che è un lavoretto che richiede una certa
precisione, tuttavia il medico sosteneva che, una volta presaci la
mano, avrebbe dato risultati indiscutibili. Suffragava la sua tesi con
le seguenti riflessioni per cui, se si lasciavano i due emisferi
cerebrali a combattersi nello spazio ristretto della calotta cranica,
avrebbero in breve tempo trovato il modo di accordarsi, dando luogo a
quella equità e moderazione del pensiero, tanto necessarie per le
teste di quanti credono di essere venuti al mondo solo per osservarne
e regolarne i movimenti. Per quanto poi riguardavava la reale
differenza di materia grigia, in qualità e in quantità, nelle teste
dei capipartito, il medico mi assicurò che era praticamente nulla.
Mi capitò poi di assistere ad una discussione animata fra due
professori sul modo e sui mezzi più agevoli ed efficaci per spillare
denaro senza opprimere la gente. Il primo sosteneva che il modo
migliore era quello di imporre una tassa sui vizi e sulle follie,
affidando ad una giuria di vicini di casa il compito di stabilire
l'imponibile per ciascuno. Il secondo era di parere opposto,
sostenendo di dover tassare quelle qualità della mente e del corpo
delle quali gli uomini vanno fieri, stabilendo l'imponibile
proporzionalmente all'eccellenza delle doti, da accertare su
dichiarazione del legittimo possessore. L'imponibile più alto sarebbe
toccato a quanti si ritengono favoriti dall'altro sesso e sarebbe
stato da stabilire di volta in volta su loro dichiarazione, a seconda
della natura e del numero dei favori che hanno ricevuto. Lo spirito,
il valore e l'educazione avrebbero dovuto nello stesso modo incorrere
in tasse pesanti, stabilite in maniera simile, attenendosi alla parola
del possessore tenuto a dichiarare il "quantum" posseduto. Onore,
giustizia, saggezza e cultura sarebbero stati invece indenni da tasse,
per la natura di quelle qualità che nessuno riconosce al proprio
vicino, né è capace di valutare in se stesso.
Le donne avrebbero dovuto pagare le tasse in proporzione alla loro
bellezza e al gusto nel vestire, di cui sarebbero state gli unici
giudici, secondo un privilegio già accordato all'altro sesso. Quanto
alla costanza, alla castità, al buon senso e alla dolcezza era inutile
stabilire tassazioni perché poi non sarebbe valso la pena
raccoglierle.
Affinché i senatori fossero fedeli alla corona, si proponeva che i
membri si giocassero i vari incarichi a dadi, facendoli tuttavia
giurare preventivamente che avrebbero votato in favore della corte,
indipendentemente dalla buona o cattiva fortuna; i perdenti avevano il
diritto di giocarsi gli incarichi via via vacanti. Era un modo
eccellente per tenere sveglia la speranza e per convincere i senatori
che ogni delusione andava imputata alla sfortuna, dea dalle spalle ben
più robuste di quelle di un ministero.
Un altro professore mi sottopose tutta una serie di proposte per
scoprire i complotti contro il governo, secondo le quali si
consigliava ai grandi statisti di tenere d'occhio i pasti delle
persone sospette, annotandone l'ora, osservando da che parte stavano
coricati, con quale mano si pulivano il sedere, e poi esaminarne gli
escrementi, il colore, l'odore, il sapore, la consistenza, la facilità
o la difficoltà della digestione, e quindi formarsi un'opinione dei
loro pensieri e dei loro progetti, perché gli uomini non sono mai
tanto seri, cogitabondi e concentrati come quando sono al gabinetto.
Aveva potuto notarlo da esperimenti vari, tanto è vero che in tali
momenti se uno di loro si metteva a pensare, per pura immaginazione,
quale sarebbe stato il modo migliore di assassinare il re, i suoi
escrementi prendevano un colore verde e una tinta completamente
diversa quando si limitava ad immaginare di provocare una rivolta o di
incendiare la capitale.
Il trattato era scritto con grande acutezza, con annotazioni utili e
preziose per i politici anche se ancora in stato di abbozzo, tanto è
vero che mi azzardai a dirlo all'autore, proponendogli alcune
aggiunte. Accolse i miei suggerimenti con una disposizione più aperta
di quanto in genere dimostrino gli scrittori, specie quelli che si
dedicano al settore dell'inventiva, dichiarandosi felice di ricevere
altre informazioni in proposito.
Gli dissi che nel regno di Tribnia, che gli indigeni chiamano Langden,
e dove avevo soggiornato a lungo, la gran massa della gente era
composta di spie, testimoni, informatori, accusatori, delatori,
querelanti, giurati falsi, tutti al servizio dei ministri e dei loro
rappresentanti. In quel regno i complotti vengono organizzati dagli
stessi ministri, allo scopo di dimostrare il proprio acume di uomini
politici, per ridare vigore ad amministrazioni fasulle, per soffocare
il malcontento o distrarre l'opinione pubblica, riempire i loro
forzieri con il frutto delle confische, alzare o abbassare il credito
pubblico, e in tutti questi casi per assicurarsi il più ampio
vantaggio personale. In primo luogo stabiliscono quale persona debba
essere accusata di sedizione, quindi mettono le mani sulle carte e le
lettere di ipotetici congiurati che vengono nel frattempo gettati in
prigione. Le carte confiscate sono affidate ad un gruppo di linguisti
abilissimi nello scoprire gli arcani significati di parole, lettere e
sillabe. Farò qualche esempio di questa loro abilità nel decodificare:
una latrina vuol dire consiglio privato, un branco di oche il senato,
un cane zoppo un invasore, la peste l'esercito stanziale, uno
scarafaggio un ministro, la gotta uno dell'alto clero, la forca un
segretario di stato, un orinale un comitato di nobili, uno staccio una
dama di corte, una scopa la rivoluzione, una trappola un impiego, un
pozzo senza fondo le finanze, una fogna la corte, un berretto a
sonagli un favorito, una canna rotta una corte di giustizia, una botte
vuota un generale, una piaga aperta il governo.
Se questo metodo fallisce, sono in grado di ricorrere ad altri due
veramente efficaci, che i saggi chiamano acrostici e anagrammi.
Cominciano col decodificare le lettere iniziali secondo il senso
politico: la N ad esempio vuol dire rivoluzione, la B un reggimento di
cavalleria, la L una flotta. Oppure, cambiando di posto alle lettere
alfabetiche, sono capaci di scoprire i disegni più nascosti della
congiura in qualsiasi scritto. Se scrivessi per esempio ad un amico:
"Mio fratello Tommaso ha le emorroidi", il sagace linguista scoprirà
che le lettere che compongono questa frase possono formare le seguenti
parole: "Resisti... la congiura è portata in patria... la torre;" e
questo è il metodo anagrammatico.
Il professore mi fu grato per questi esempi e promise che mi avrebbe
onorevolmente citato nel suo trattato.
In quel paese non c'era nient'altro che mi invitasse a restare e così
cominciai a pensare seriamente al mio ritorno in patria.













7 - L'AUTORE LASCIA LAGADO E ARRIVA A MALDONADA. NON TROVA BASTIMENTI
IN RADA. BREVE VIAGGIO A GLUBBDUBDRIB. COME VIENE RICEVUTO DAL
GOVERNATORE.

Questo stato fa parte di un continente che credo si estenda ad oriente
di quella zona sconosciuta dell'America, ad ovest della California e a
nord del Pacifico. Lagado non dista più di centocinquanta miglia dal
suo porto che dà su questo oceano, ove si svolgono floridi commerci
con la grande isola di Luggnagg, che si trova a nord-ovest a circa 29
gradi di latitudine nord e 140 di longitudine. Essa è dunque a sud-est
del Giappone, da cui dista un centinaio di leghe; fra i due sovrani,
di Luggnagg e del Giappone, c'è una stretta alleanza e spesso si
scambiano le visite. Decisi dunque di orientarmi in questa direzione,
come prima tappa del mio ritorno in Europa. Presi a nolo un paio di
muli ed una guida per farmi indicare la strada e trasportare i miei
pochi bagagli. Presi commiato dal mio protettore che mi aveva trattato
così squisitamente durante la permanenza in città e che volle farmi un
grosso regalo alla partenza.
Il viaggio si svolse senza incidenti o imprevisti di sorta. Quando
giunsi al porto di Maldonada (questo infatti è il suo nome) non
c'erano navi pronte a salpare per Luggnagg, né erano previste
nell'immediato futuro. Ebbi modo comunque di conoscere varie persone
in questa città portuale, grande più o meno quanto Portsmouth, dalle
quali fui ricevuto con grande cortesia. Un distinto gentiluomo mi
suggerì, visto che prima di un mese non ci sarebbero state navi per
Luggnagg, di fare una puntatina all'isoletta di Glubbdubdrib che dista
cinque leghe in direzione sud-ovest; lui ed un suo amico si offrirono
di accompagnarmi fornendomi anche una piccola imbarcazione.
Per quanto posso capire dal nome, credo che Glubbdubdrib voglia dire
l'isola dei maghi o degli stregoni: è grande circa un terzo dell'isola
di Wight, molto fertile, ed è governata dal Capo di una tribù di
maghi. I componenti di questa tribù si sposano fra loro e il più
vecchio copre la carica di principe o governatore. Questi vive in un
palazzo maestoso in mezzo ad un parco di circa tremila acri,
circondato da una muraglia di pietre squadrate alta sei metri. Nel
parco sono stati ricavati anche alcuni campi recintati per il
bestiame, il grano e i giardini.
Il governatore e i suoi familiari hanno servitori e domestici
veramente fuori dal comune; infatti, grazie alle sue arti
negromantiche, questi ha il potere di evocare qualunque persona dal
regno dei morti e tenerla al proprio servizio per ventiquattro ore ma
non di più; inoltre non può richiamare la stessa persona, salvo casi
straordinari, prima che siano trascorsi tre mesi.
Arrivammo all'isoletta verso le undici del mattino e uno dei
gentiluomini che mi accompagnavano si recò dal governatore per
chiedergli udienza per conto di uno straniero che avrebbe voluto
riverirlo. Ci venne immediatamente concessa e tutti e tre varcammo le
porte del palazzo fra due file di guardie, con armi e vesti di
antichissima foggia e un non so che nell'aspetto che mi fece
accapponare la pelle. Passammo attraverso numerose sale fra file di
domestici misteriosi, anch'essi dall'aspetto enigmatico, finché
giungemmo alla sala delle udienze dove, dopo tre riverenze profonde e
alcune domande generiche, ci fecero sedere su tre sgabelli vicino
all'ultimo gradino del trono di Sua Altezza. Lui capiva la lingua di
Balnibarbi, sebbene fosse diversa da quella dell'isola. Volle che gli
facessi un resoconto dei miei viaggi e quindi, per dimostrare che
intendeva trattarmi con familiarità, congedò tutti i suoi attendenti
con un lieve cenno del dito; quelli si dissolsero nell'aria con mio
grande stupore, come le immagini di un sogno al risveglio improvviso.
Non riuscii a riavermi finché il governatore mi assicuro che non mi
sarebbe stato fatto del male ed inoltre, visto che i miei compagni,
che già erano stati ospiti del governatore, erano del tutto
tranquilli, presi fiato e feci per Sua Altezza un riassunto delle mie
avventure, non senza qualche indugio e guardando di sottecchi dalla
parte in cui avevo visto quegli spettrali domestici. Ebbi l'onore di
sedere alla tavola del governatore, dove un'altra schiera di fantasmi
ci servì le pietanze o se ne stava impalata accanto alla tavola, ma
già sentivo di essere meno terrorizzato del mattino. Rimasi a palazzo
fino al tramonto e chiesi profondissime scuse al governatore per non
potere accettare la sua ospitalità. Coi miei due amici presi alloggio
nella vicina città che è anche la capitale dell'isola; il giorno
seguente tornammo a presentare i nostri omaggi al governatore.
Continuammo così per dieci giorni, trascorrendo la giornata col
governatore per tornare a sera nelle nostre camere. Mi ero ormai così
tanto familiarizzato alla vista degli spiriti, che già alla terza o
alla quarta volta non mi fecero più nessun effetto. Se un senso di
disagio comunque restava, questo venne ben presto superato dalla
curiosità. Sua Maestà infatti si disse disposto a evocare qualunque
persona avessi nominato e quante avessi voluto, dalla creazione del
mondo a oggi, e che avrebbe imposto loro di rispondere a qualunque mia
domanda, limitata naturalmente al periodo da loro vissuto. Avrei
potuto essere certo di una cosa, e cioè che non mi avrebbero mentito,
perché le menzogne sono un'arte di nessuna utilità nel regno degli
inferi.
Ringraziai sentitamente Sua Altezza per questo favore inusitato;
eravamo in un salone dal quale si poteva godere una vista stupenda del
parco e, quasi per impulso, desiderai di assistere a scene grandiose e
magnifiche: vedere Alessandro Magno alla testa del suo esercito subito
dopo la battaglia di Arbela. E così mi apparve, ad un lieve cenno del
dito del governatore, nel vasto campo sotto la finestra della scala.
Alessandro fu fatto salire di sopra, ma devo dire che capii a mala
pena il suo greco (io stesso ne so pochissimo). Mi dette la sua parola
d'onore che non era stato avvelenato, ma che era morto di febbri,
causate da sbornie solenni.
Poi mi fu possibile vedere Annibale che passava le Alpi, il quale mi
disse che non aveva nemmeno una goccia di aceto nel suo accampamento.
Vidi Cesare e Pompeo alla testa dei loro eserciti in procinto di
attaccare battaglia e poi il primo dei due nel suo ultimo, superbo
trionfo. Chiesi di vedere l'antico senato romano in un salone e in
un'altra stanza una moderna assemblea: il primo mi sembrò una riunione
di eroi e di semidei, il secondo un branco di merciai, borsaioli,
masnadieri e teppisti.
Su mia richiesta il governatore fece venire avanti Cesare e Bruto; la
vista di quest'ultimo provocò in me un senso di profonda venerazione,
affascinato com'ero dai tratti del suo viso che rivelavano virtù
intrepida, fermezza, amor patrio, sincero rispetto del prossimo. Notai
con piacere che questi due personaggi andavano d'accordo ed anzi fu lo
stesso Cesare a dirmi che le più grandi imprese della sua vita erano
molto inferiori alla gloria di chi gliele aveva sottratte. Ebbi
l'onore di conversare con Bruto il quale mi disse che era in compagnia
del suo antenato Giunio, di Socrate, Epaminonda, Catone il Giovane,
Tommaso Moro: un sestumvirato a cui tutte le epoche di questo mondo
non sono in grado di aggiungere un settimo.
Sarebbe un fastidio per il lettore se gli facessi l'elenco dei
personaggi illustri che furono evocati per soddisfare il mio desiderio
di vedere scorrere davanti ai miei occhi il mondo intero in ogni suo
periodo di storia. Volli saziarmi la vista soprattutto con quanti
ebbero il merito di cacciare tiranni e usurpatori e con chi seppe
restituire la libertà a popoli oppressi e scherniti. Ma come potrei
trasformare in piacevole racconto per il lettore le delizie che da
questi incontri vennero alla mia anima?











8 - ANCORA SU GLUBBDUBDRIB. ALCUNE CORREZIONI ALLA STORIA ANTICA E
MODERNA.

Dedicai un giorno intero all'evocazione di quegli antichi che
primeggiarono nel sapere e nell'ingegno. Chiesi infatti di fare
apparire Omero e Aristotele alla testa dei loro rispettivi
commentatori, ma questi erano una tale schiera che invasero l'intera
corte e in parte restarono fuori del palco. Riconobbi a prima vista
quei due grandi in mezzo alla folla e seppi distinguerli uno
dall'altro. Omero era più alto e più prestante del compagno, camminava
con un portamento eretto nonostante l'età e aveva gli occhi più mobili
e penetranti che mi sia mai capitato di vedere. Aristotele era curvo e
camminava appoggiandosi a un bastone, la faccia smunta, i capelli radi
e spioventi, la voce cavernosa. Mi accorsi che erano completamente
estranei con gli altri, dei quali non avevano mai sentito parlare. Un
fantasma, di cui non dirò il nome, mi bisbigliò all'orecchio che i
commentatori risiedevano nella zona più lontana degli inferi da quella
dove abitavano i due grandi, per un senso di vergogna e di colpa,
tipica di chi ha stravolto completamente il messaggio dei due saggi.
Presentai Didimo ed Eustazio a Omero e riuscii a convincerlo a
trattarli meglio di quanto meritassero, lui infatti si era subito
accorto che mancavano del genio necessario a penetrare lo spirito di
un poeta. Ma quando presentai Scoto e Ramo ad Aristotele con un breve
cenno alle loro idee, questi perse le staffe e mi chiese se gli altri
del gruppo erano altrettanto testoni.
Pregai il governatore di evocare Cartesio e Gassendi e li convinsi a
spiegare i loro sistemi ad Aristotele. Il grande filosofo riconobbe
apertamente gli errori che aveva commesso nella filosofia naturale,
perché per molti aspetti aveva proceduto basandosi su supposizioni,
come sono costretti a fare gli uomini, e osservò che Gassendi, il
quale aveva reso tanto gustosa la teoria dl Epicuro, e lo stesso
Cartesio dei "vortici" sarebbero stati messi da parte. Predisse lo
stesso destino alla teoria della gravitazione, di cui sono così
zelanti assertori i saggi di oggi. Disse che in fondo i vari sistemi
con i quali si cerca di spiegare la natura non sono che mode,
destinate a cambiare anno per anno; e perfino quanti fingono di
ricorrere a dimostrazioni matematiche andranno fuori moda dopo un
periodo di smagliante fortuna.
Passai cinque giorni a parlare con molti altri antichi saggi, vidi
molti fra i primi imperatori romani, infine riuscii a convincere il
governatore a farci preparare un pranzo dal cuoco di Eliogabalo; anche
se questi non fu in grado di dar prova della sua maestria culinaria a
causa di certi ingredienti, ormai introvabili. Un ilota di Agesilao ci
preparò una minestra spartana: me ne bastò un cucchiaio!
I due gentiluomini che mi avevano accompagnato mi comunicarono che
sarebbero dovuti ritornare entro tre giorni per i loro affari privati,
per cui occupai questo breve periodo per vedere alcuni defunti
dell'era moderna, che si fossero messi in luce negli ultimi due o
trecento anni nella nostra terra o in altri paesi europei, e poiché
sono un ammiratore appassionato delle illustri famiglie di antica
stirpe, chiesi al governatore di far apparire un paio di dozzine di
sovrani con tutti i loro antenati in fila, fino a nove o dieci
generazioni. Ricevetti una dolorosa sorpresa: invece di una lunga fila
di teste coronate, vidi in una famiglia due suonatori, tre cortigiani
azzimati e un prelato italiano. In un'altra un barbiere, un abate e
due cardinali. Avevo troppa venerazione per i sovrani, per insistere
in un argomento così delicato. Ma non nutrivo certo illusioni circa i
duchi, i conti, i marchesi, i baroni e via di seguito, tanto è vero
che mi divertii abbastanza a rintracciare negli antenati i segni
derivati dalle varie generazioni. Mi fu facile scoprire da dove una
famiglia prendeva il mento pronunciato, perché un'altra aveva avuto
tanti furfanti per un paio di generazioni, e per altre due dei pazzi;
perché in una terza c'erano tanti scervellati e in una quarta tanti
furbi; da dove derivava il motto di Polidoro Virgilio riferito ad un
grande casato: "Nec vir fortis, nec foemina casta". E quindi scoprire
perché certe famiglie si ornano della crudeltà, della falsità, della
viltà, come fossero altrettante armi araldiche; chi era stato il primo
ad immettere in famiglia la sifilide, chi avesse trasmesso in linea
diretta un tumore scrofoloso ai propri discendenti. Né certo mi
meravigliai al vedere certi alberi genealogici interrotti da paggi,
lacchè, valletti, cocchieri, biscazzieri, suonatori, attori, capitani,
borsaioli. La storia moderna mi dette il voltastomaco. Dopo avere
passato in rassegna gli uomini più famosi degli ultimi cento anni, mi
accorsi di quanto la gente era stata ingannata da scribacchini
venduti, capaci di assegnare meriti di gloria militare ai vigliacchi,
i più saggi consigli ai pazzi, la sincerità agli adulatori, la virtù
romana ai traditori della patria, la pietà agli atei, la castità ai
sodomiti, la verità ai delatori; e quante persone innocenti e di
grande valore erano state condannate a morte o all'esilio per i
raggiri dei ministri, la corruzione dei giudici, la malvagità delle
fazioni; quanti ribaldi erano stati elevati agli incarichi del più
grande prestigio, dignità, fiducia, profitto; quale grande importanza
nelle decisioni e negli eventi di corti, assemblee e senato avevano
avuto ruffiani, puttane, mezzani, parassiti e buffoni; e che opinione
mi feci della saggezza e della integrità dell'animo umano, quando fui
informato dei motivi reali che avevano provocato le più grandi imprese
e rivoluzioni e degli accidenti fortuiti che ne avevano decretato il
successo!
A questo proposito scoprii quanto siano in mala fede e nell'ignoranza
quegli storici che dicono di scrivere aneddoti o storie segrete, che
rivelano chi ha spedito al creatore tanti sovrani col veleno, che ti
fanno assistere ai colloqui di re e primi ministri svoltisi senza
testimoni, che ti aprono sotto gli occhi le casseforti e i cuori degli
ambasciatori senza poi indovinarne una! Inoltre scoprii le vere cause
di tanti grandiosi eventi che hanno sbalordito il mondo: come una
puttana sa manovrare il sottoscala, il sottoscala un'assemblea,
un'assemblea un intero senato. Un generale mi confessò candidamente di
aver vinto una battaglia campale grazie alla viltà e agli errori
madornali; un ammiraglio mi assicurò di aver sbaragliato il nemico al
quale, per mancanza di comunicazioni, voleva vendere la flotta; tre
Sovrani mi assicurarono di non aver mai scelto una persona per i suoi
meriti, se non per sbaglio o per tradimento di alcuni ministri nei
quali avevano riposto fiducia, e aggiunsero che, se fossero tornati a
vivere, avrebbero fatto lo stesso perché, come mi dimostrarono, un
trono reale non si regge se non sulla corruzione, mentre il carattere
serio, sobrio e aperto del virtuoso è una palla al piede per gli
affari di stato.
A questo punto mi venne la curiosità di sapere in quale modo e con
quali metodi tanta gente si era procurata alte onorificenze e grosse
fortune. Limitai la mia indagine ai tempi moderni, anche se non ai
giorni nostri, perché non avevo intenzione di offendere nessuno,
stranieri compresi (spero infatti di non dover ricordare al lettore
che in nessun senso alludo alla mia patria con questo esempio). Furono
evocate moltissime persone che si trovavano nella condizione sopra
accennata e fu sufficiente un esame superficiale per delinearci scene
di una tale infamia, che ogni volta che le ricordo mi riempiono di
tristezza: spergiuro, prevaricazione, seduzione, frode, ruffianeria e
simili erano le arti più pulite alle quali confessarono di essere
ricorsi e verso le quali dimostrai una certa comprensione. Ma quando
diversi ammisero di dovere poteri e ricchezze alla sodomia e
all'incesto, altri alla prostituzione alla quale avevano costretto
mogli e figlie, altri al tradimento del loro sovrano e della patria,
altri ancora al veleno, e i più alla corruzione della giustizia a
danno di innocenti, spero di essere perdonato se tutte queste
rivelazioni raffreddarono in me quella profonda venerazione che ho
istintivamente per le persone importanti, verso la cui dignità noi
inferiori dobbiamo il massimo rispetto.
Avevo sentito parlare spesso di grandi servigi resi a stati e a
sovrani e quindi espressi il desiderio di vedere alcune di queste
persone, ma mi fu risposto che di costoro si era persa ogni memoria ad
esclusione di pochi che la storia ci ha tramandato come ribaldi e
traditori. Quanto agli altri, non ne avevo mai sentito parlare: me li
vidi davanti con sguardi tristissimi, e poveri in canna; moltissimi
anzi mi riferirono di essere morti in disgrazia e in miseria, e quelli
che rimanevano di avere sputato l'anima sul patibolo o appesi alla
forca.
Tra gli altri c'era una persona che aveva avuto un destino abbastanza
singolare; lo accompagnava un giovane di circa diciotto anni. Mi disse
di essere stato per vari anni comandante di una nave e di avere avuto
la fortuna di infrangere le linee nemiche nella battaglia navale di
Azio, dove aveva affondato tre fra le più grosse navi avversarie e
catturata una quarta, costringendo Antonio alla fuga e diventando
artefice unico della vittoria, nella quale aveva tuttavia perduto suo
figlio, che ora aveva al fianco. Aggiunse che, dopo avere saputo che
la guerra era praticamente finita, si era recato a Roma chiedendo che
gli fosse affidata una nave più importante, il cui comandante era
stato ucciso; nave che, con totale disprezzo per i suoi meriti, venne
affidata ad un ragazzino che in vita sua non aveva nemmeno visto il
mare, ma che era figlio di Libertina, una donna al seguito di una
delle amanti dell'imperatore. Mentre si preparava a riprendere il suo
posto, fu accusato di negligenza e la nave fu affidata ad un paggio
favorito di Publicola, il vice ammiraglio. Non gli rimase che
ritirarsi in un suo piccolo poderetto lontano da Roma, dove finì i
suoi giorni. Curioso di sapere come fossero andate le cose, feci
evocare Publicola, che era ammiraglio al tempo della battaglia, il
quale confermò ogni cosa, dimostrando anzi che il comandante, per
modestia, aveva taciuto molti dei propri meriti.
Rimasi sorpreso nel vedere come il lusso, che pure vi era stato
introdotto molto tardi, avesse in così breve tempo devastato
quell'impero e ciò mi fece meravigliare molto meno della corruzione di
altri paesi dove vizi di tutte le specie hanno regnato più a lungo, e
dove lodi e ricchezze sono prerogativa unica di un capo, il quale è
probabilmente l'ultimo che le meriti.
Attraverso l'evocazione di varie persone, avevo avuto modo di
constatare l'aspetto fisico che avevano al loro tempo, e questa vista
mi aveva fatto malinconicamente riflettere su quanto fosse degenerata
la razza umana in questi ultimi cento anni, quanto la sifilide con
tutti i suoi nomi e le sue conseguenze avesse alterato l'aspetto degli
inglesi, rattrappito i corpi, spossato i nervi, rilassato muscoli e
tendini, resa esangue la carnagione, flaccida e corrotta la carne.
Allora chiesi umilmente che fosse evocato qualcuno di quei campagnoli
inglesi di vecchio stampo, un tempo famosi per la semplicità dei modi,
del mangiare e del vestire, per il loro senso della giustizia e della
libertà, per il loro coraggio e amor patrio. Non rimasi certo
insensibile dinanzi a questo paragone dei vivi coi morti, nel
considerare come quelle virtù antiche erano state prostituite per la
brama di denaro dai loro nipoti i quali, a furia di vendere i propri
voti e manipolare le elezioni, hanno contratto tutti i vizi di cui è
piena la corte.



















9 - L'AUTORE TORNA A MALDONADA. SI IMBARCA DIRETTO AL REGNO DI
LUGGNAGG. VIENE ARRESTATO E PORTATO A CORTE. SUO RICEVIMENTO. SOMMA
INDULGENZA DEL SOVRANO VERSO I SUOI SUDDITI.

Arrivato il giorno della partenza, presi commiato da Sua Altezza il
governatore di Glubbdubdrib e, con i miei due amici, tornai a
Maldonada dove, dopo una settimana di attesa, riuscii a trovare una
nave per Luggnagg. I due amici ed altri ancora vollero essere tanto
gentili, da riempirmi di provviste e accompagnarmi a bordo. Feci un
viaggio di un mese durante il quale fummo investiti da una violenta
tempesta, tanto da dover piegare verso occidente per trovare venti
favorevoli che qui spirano per oltre sessanta leghe. Il 21 aprile 1708
entrammo nel fiume che sfocia in mare a Cumegnig, città portuale a
sud-est di Luggnagg. Gettata l'ancora a due leghe dalla città,
segnalammo di inviare un pilota; ne vennero due che ci guidarono fra
scogli e fondali che costituiscono una pericolosissima barriera, oltre
la quale si apre un bacino dove può essere accolta un'intera flotta
proprio sotto le mura della città.
Non so se volontariamente o meno, fatto sta che alcuni marinai della
nave dissero ai piloti che ero uno straniero e un gran viaggiatore,
questi informarono subito un doganiere che mi perquisì allo sbarco.
L'ufficiale di dogana mi parlò nella lingua di Balnibarbi, che in
quella città tutti parlano, specialmente i marinai e gli addetti alla
dogana, per i traffici che si svolgono con quella terra. Gli raccontai
alcuni dei miei casi, cercando di rendere la mia storia credibile e
coerente, anche se gli nascosi la mia nazionalità. Volevo infatti
proseguire per il Giappone, e dato che gli olandesi sono i soli che
possono entrare in quel paese, dissi di essere appunto un olandese.
Raccontai dunque che avevo fatto naufragio sulle coste di Balnibarbi e
che ero stato gettato su uno scoglio da dove ero stato sollevato
nell'isola volante di Laputa e che ora cercavo un qualche modo per
raggiungere il Giappone, dove avrei potuto trovare un imbarco per
tornare in patria. L'ufficiale mi rispose che doveva trattenermi in
stato di fermo, fin tanto che non gli fossero giunte disposizioni
dalla corte, alla quale avrebbe segnalato immediatamente la mia
presenza, e che in ogni caso ci sarebbe voluta una settimana almeno
per la risposta. Mi portò a un alloggio comodo e sorvegliato da una
sentinella; avevo a disposizione un bel giardino e fui trattato con
mitezza, a spese del sovrano. Ricevetti la visita di molte persone che
desideravano vedere questo straniero che molti dicevano proveniente da
lontane terre a loro sconosciute.
Come interprete mi servii di un giovane che aveva fatto il viaggio con
me; era di Luggnagg ma, avendo risieduto per alcuni anni a Maldonada,
conosceva bene tutte e due le lingue. Grazie a lui potei conversare
con tutti i miei visitatori, anche se tutto si ridusse ad una sequenza
di domande e risposte.
Dopo una settimana arrivò dalla corte la sospirata risposta:
consisteva in un salvacondotto per farmi scortare a Traldragdubb o
Trildrogdrib (ricordo infatti che veniva pronunciata in entrambe i
modi) da dieci cavalli. Mi si concedeva di portare il seguito, anche
se questo si riduceva a quel povero ragazzo che mi faceva da
interprete e che ora, con una paga modesta, era entrato al mio
servizio. Chiesi umilmente che ci assegnassero due muli per il
viaggio; mentre costoro inviarono un messaggero con mezza giornata di
anticipo per avvertire il sovrano del mio arrivo e comunicargli di
concedermi graziosamente l'onore di "leccare la polvere ai piedi del
trono". Questa era una tipica espressione dell'etichetta di corte,
anche se potei verificare che era qualcosa di più di una questione
formale; tanto è vero che, quando fui ricevuto a due giorni dal mio
arrivo, dovetti strisciare sul ventre leccando il pavimento via via
che avanzavo, anche se, per riguardo a uno straniero, il pavimento era
pulitissimo e senza un granello di polvere. Ma era pur sempre un
trattamento particolare, riservato esclusivamente ai notabili che
chiedevano un'udienza; mentre se qualche poveraccio ha nemici a corte,
si trova davanti un pavimento dove la polvere è stata messa di
proposito; ricordo di aver visto un signore con la bocca talmente
impastata di sporcizia che, arrivato ai piedi del trono, era stato
incapace di pronunciare una parola. Gli espedienti non sono possibili,
perché sputare o pulirsi la bocca in presenza di Sua Maestà è
tassativamente proibito. C'era poi un'altra usanza che non trova certo
la mia approvazione: quando il sovrano intendeva infliggere una morte
indolore e pietosa ad un nobile, faceva cospargere il pavimento con
una polverina scura capace di dare la morte, a chi la leccava, nel
tempo di ventiquattro ore. A maggior gloria di questo sovrano clemente
e della assidua attenzione che mostrava per le vite dei suoi sudditi
(che i sovrani europei dovrebbero imitare) va aggiunto che faceva
pulire a specchio il pavimento dopo ogni esecuzione, arrabbiandosi con
i domestici trasandati. Lo sentii io stesso dare ordini di fustigare
un paggio che si era scordato di proposito di fare pulire il pavimento
dopo un'esecuzione capitale, un atto che era costato la vita di un
giovane gentiluomo di belle speranze il quale, introdotto ad
un'udienza, era finito avvelenato, sebbene il re non avesse avuto
nessuna intenzione, a quel tempo, di mandarlo all'altro mondo. Ma
tanta era la clemenza di questo principe, che risparmiò al paggio la
sua dose di frustate, dopo avergli fatto promettere che non avrebbe
commesso altre sciocchezze, perlomeno senza ordini speciali.
Ma per tornare in argomento, appena fui arrivato a pochi passi dal
trono, mi alzai sulle ginocchia e, battendo sette volte la fronte sul
pavimento, pronunciai le seguenti parole che mi erano state insegnate
la notte precedente: "Ickpling gloffthrobb squutserumm blhiop
mlashnalt Zwin tnodbalkguff slhiophad gurdlubh asht", che sono poi gli
ossequi che in questo paese si pronunciano quando si è ammessi alla
presenza del re e che in inglese suonano più o meno in questo modo:
"Possa Sua Maestà celestiale sopravvivere al sole undici lune e
mezzo". Il sovrano replicò qualcosa che non capii, a cui risposi come
mi era stato detto: "Fluft drin yalerick dwuldutn prastrad mirplush",
che vuol dire esattamente: "La mia lingua è nella bocca dell'amico",
col che volevo dire che desideravo essere assistito dal mio
interprete. Il giovane venne subito fatto entrare e grazie a lui
risposi a tutte le domande che il sovrano mi rivolse nel giro di
un'ora. Rispondevo nella lingua di Balnibarbi che veniva
immediatamente tradotta dal mio interprete in quella di Luggnagg.
La mia presenza fu molto gradita a Sua Maestà il quale ordinò al suo
"bliffmarklub", o gran ciambellano, di preparare un alloggio per me e
il mio interprete a corte e di fornirci di una somma giornaliera per i
pasti e una borsa di denaro per le spese correnti.
Rimasi tre mesi in questa terra a totale disposizione del sovrano, il
quale mi aveva preso a benvolere e mi aveva rivolto offerte
vantaggiosissime. Ma coscienza e prudenza mi ricordavano che dovevo
passare il resto dei miei giorni con mia moglie e con la famiglia.
10 - ELOGIO DEGLI ABITANTI DI LUGGNAGG. DESCRIZIONE DEGLI STRULDBRUGGS
E RESOCONTO DELLE CONVERSAZIONI SU QUESTO ARGOMENTO FRA L'AUTORE ED
ALCUNE EMINENTI PERSONE.

I Luggnaggiani sono un popolo cortese e generoso e, sebbene non privi
di quell'orgoglio tipico dei paesi d'oriente, si dimostrano ospitali
con gli stranieri, specialmente con quelli benvoluti dalla corte.
Avevo fatto conoscenza con diverse persone della migliore società e,
con l'aiuto dell'interprete, mi intrattenni con loro in conversazioni
piacevoli.
Mi trovavo un giorno in loro compagnia, quando uno di quei notabili mi
chiese se avevo mai visto gli "struldbruggs" o Immortali. Risposi di
no, chiedendo a mia volta cosa intendevano con quella definizione
riferita a creature mortali. Mi rispose che di tanto in tanto nasceva
un bambino con un neo rosso sulla fronte, proprio sopra il
sopracciglio sinistro e che questo segno indicava che non sarebbe
morto mai. Aggiunse che la macchia era larga come una monetina
d'argento ma che col tempo tendeva ad ingrandirsi e a cambiare colore;
a dodici anni diventava verde e tale rimaneva fino a venticinque, poi
si faceva blu notte e a quarantacinque anni diventava nera e grande
come uno scellino e così sarebbe rimasta per sempre. Queste nascite
erano tanto rare che, in tutto il regno, pensava che non ci fossero
più di millecento "struldbruggs" di entrambi i sessi, una cinquantina
dei quali si trovavano nella capitale, e fra gli altri una bambina di
tre anni. Non era una prerogativa di certe famiglie generare
Struldbruggs, ma solo del caso, mentre gli stessi figli degli
"struldbruggs" erano mortali come il resto degli uomini.
Come nascondere la meraviglia e la gioia a sentire questo racconto,
quando col mio stesso interlocutore, che capiva la lingua di
Balnibarbi, mi ero lasciato andare ad espressioni a dir poco eccessive
ed estatiche: "O terra felice, dove ogni bambino ha la probabilità di
diventare immortale! O popolo fortunato che gode della vista di tanti
esemplari delle antiche virtù e di maestri capaci di insegnargli la
saggezza dei tempi antichi! Ma più felici di tutti i venerabili
"struldbruggs" i quali, nati liberi dal principale vincolo della vita
umana, hanno liberi animi che ignorano la malinconia che l'ombra della
morte genera in noi!". Mi resi conto allora, con stupore, che non
avevo visto nessuno di questi immortali a corte; d'altronde una
macchia nera sulla fronte è un segno che non poteva essermi sfuggito e
poi, come poteva essere che il sovrano, da quella persona giudiziosa
che era, non avesse al suo fianco consiglieri tanto saggi e preziosi?
O forse la virtù di quei reverendi saggi era troppo severa per i
costumi dissoluti della corte? Ci insegna infatti l'esperienza che i
giovani sono troppo volubili e leggeri per sottostare alle ferree
ragioni dei vecchi. E siccome Sua Maestà mi aveva lasciato libero
accesso alla sua augusta persona, decisi di chiedergliene il motivo,
con l'aiuto dell'interprete, alla prima occasione; che poi, sia che
avesse seguito il mio consiglio o meno, gli avrei comunque chiesto,
visto che mi aveva più volte offerto di stabilirmi a corte, di passare
il resto della vita a conversare con quegli esseri superiori che sono
gli "struldbruggs", se naturalmente mi avessero accolto fra loro.
Il signore al quale avevo rivolto queste parole e che mi comprese
benissimo perché parlava la lingua di Balnibarbi (come ho già
riferito), mi rispose, con un sorriso sulle labbra, tipico di chi ha
un moto di commiserazione per l'ignorante, che era felice di portarmi
fra costoro in ogni momento, chiedendomi se poteva riferire agli altri
che ci attorniavano quello che gli avevo detto. Appena ebbe riferito
il contenuto del colloquio, si misero a parlottare fra loro, ma non
capii una sillaba, né riuscii a cogliere dal loro atteggiamento quale
impressione avessero suscitato in loro le mie parole. Dopo un momento
di pausa il mio interlocutore mi disse che i suoi e i miei amici (così
volle chiamarli) avevano apprezzato moltissimo le mie giudiziose
osservazioni sulla inestimabile felicità e sui vantaggi di una vita
immortale, che anzi desideravano conoscere come avrei preordinato la
vita, se mi fosse capitato di nascere "struldbrugg".
Risposi che non mi sarebbe di certo mancata la parola davanti a un
argomento tanto attraente e generoso, specie per uno come me, portato
a fantasticare su cosa avrei fatto se fossi stato un generale, un re,
un nobile prestigioso; ed infatti avevo spesso passato in rassegna
tutti i modi possibili di passare il tempo, se fossi stato sicuro di
vivere per sempre.
Se il caso mi avesse fatto venire al mondo "struldbrugg", una volta
scoperta la mia fortuna e abbattuto il muro fra vita e morte, mi sarei
dedicato con mezzi e arti di ogni tipo a radunare ricchezze fin tanto
da diventare, in duecento anni di sagacia e di parsimonia, l'uomo più
ricco della mia terra. In secondo luogo mi sarei dedicato fin dalla
giovinezza allo studio delle arti e delle scienze, fino a superare col
tempo tutti gli altri in sapienza. Infine mi sarei dedicato a
registrare eventi memorabili e avvenimenti pubblici, e a delineare con
imparzialità la natura di prìncipi e di statisti man mano che si
succedevano, accompagnando ogni capoverso di questo registro con le
mie chiose personali. Avrei inoltre tenuto una cronaca veritiera dei
vari cambiamenti dei costumi, della lingua, della moda,
dell'alimentazione e dei passatempi. Sarei diventato per tutto il
regno un pozzo di scienza e un oracolo vivente.
Dopo la sessantina non mi sarei più sposato e avrei vissuto con una
certa larghezza di mezzi, ma senza spreco. Mi sarei dedicato alla
formazione di giovani promettenti, forte della mia esperienza, delle
memorie e delle osservazioni, cementate da innumerevoli esempi,
insegnando loro la virtù nella vita pubblica e privata. Ma i miei
amici più cari sarebbero stati gli altri immortali, fra i quali ne
avrei preferito una dozzina, dai più antichi fino ad arrivare ad
alcuni miei coetanei. Se mai qualcuno di loro si fosse trovato in
stato di necessità, gli avrei procurato un alloggio dignitoso nei
dintorni della mia proprietà, e avrei voluto sempre alla mia tavola
qualcuno di loro, insieme ai migliori di voi mortali, di cui avrei
sopportato la morte senza pena, grazie all'interminabile tempo,
volgendomi con lo stesso animo ai posteri, nello stesso modo in cui un
mortale si diletta a coltivare rose e tulipani nel suo giardino, senza
rimpiangere quelli che appassirono l'anno precedente.
Gli "struldbruggs" ed io ci saremmo comunicati le nostre osservazioni
nel corso del tempo; avremmo preso nota di come la corruzione si
insinua subdolamente nel mondo, opponendoci ad ogni suo passo,
mettendo in guardia l'umanità, corroborandone le difese, fino a
prevenire, con l'efficace testimonianza del nostro esempio vivente, la
degenerazione progressiva della natura umana, lamento costante di
tutte le epoche.
Si aggiunga ancora il piacere di assistere a vari sconvolgimenti in
stati ed imperi, ai cambiamenti nelle classi sociali, a nobili città
cadute in rovina e sordidi villaggi assunti al rango di sedi
imperiali, fiumi famosi ridotti a ruscelli, oceani che si ritirano da
una costa per sommergerne un'altra, la scoperta di terre sconosciute,
la barbarie che dilaga nei paesi più progrediti e quelli primitivi
diventare civili. Potrei assistere alla scoperta della longitudine,
del moto perpetuo, della panacea universale e al perfezionamento di
molte altre grandi invenzioni.
Quali prodigiose scoperte potremmo fare nell'astronomia, sopravvivendo
alle nostre stesse predizioni e confermandole, osservando il corso
delle comete e il loro ritorno, e i moti del sole, della luna e delle
stelle!
Arrivai quindi alla trattazione di molti altri argomenti che mi
venivano in mente, sollecitati dal desiderio di una vita e di una
felicità sublunare.
Appena ebbi finito la mia tirata, che fu tradotta dall'interprete, i
presenti si misero quasi tutti a parlottare tra di loro, non senza
certe risatine di scherno nei miei confronti. Alla fine lo stesso
gentiluomo che mi aveva fatto da interprete mi comunicò, anche a nome
degli altri, che avrebbe corretto alcuni errori in cui ero caduto per
la ristrettezza della mente umana, un limite naturale che mi rendeva
meno responsabile di certe ingenuità. Disse dunque che gli
"struldbruggs" erano una caratteristica unica di quella terra, che a
Balnibarbi e in Giappone, dove aveva risieduto come ambasciatore,
aveva trovato la gente incredula nei confronti di questo fenomeno; che
d'altronde io stesso, con il mio stupore, quando avevo sentito parlare
degli immortali, avevo dimostrato chiaramente che si trattava di una
cosa mai sentita prima e addirittura incredibile. Oltretutto, quando
aveva soggiornato nei due regni detti prima, aveva capito da molti
colloqui, che una lunga vita era il massimo desiderio dell'umanità e
che chiunque fosse già con un piede nella fossa, teneva ben saldo il
secondo per non caderci dentro; gli stessi centenari speravano ancora
nella vita. Guardavano alla morte come al più grande dei mali, spinti
in questo da un istinto naturale. Solo nel paese di Luggnag si poteva
registrare un tiepido desiderio per la vita e questo perché i suoi
abitanti avevano davanti agli occhi l'esempio degli "struldbruggs".
Gli avevo prospettato un sistema di vita degli immortali, il quale,
secondo lui, era contro ragione e contro giustizia perché si fondava
sulla certezza di una gioventù perenne e di altrettanto perenni salute
e vigore: una speranza che non trova posto nemmeno nel cuore dei
pazzi, per quanto folli possano essere i loro desideri. La domanda che
mi era stata rivolta non poneva il problema se l'uomo avesse accettato
di essere sempre nel rigoglio della giovinezza, dotato di ricchezze ed
assistito dalla salute fisica; viceversa in che modo avrebbe
affrontato una vita perennemente sottoposta ai malanni che
accompagnano sempre la vecchiaia. E se anche fossero stati ben pochi
gli uomini disposti ad accettare l'immortalità a quelle condizioni,
tuttavia aveva notato che la gente a Balnibarbi e in Giappone faceva
di tutto per rimandare la morte, per quanto arrivasse in età tarda, e
gli era capitato raramente di sentire persone che morivano volentieri,
eccetto quelle tormentate dal dolore e dalle pene. Mi chiese poi se
nella mia patria e nelle terre nelle quali avevo viaggiato non avevo
forse notato uguali tendenze. Dopo questo preambolo, mi diede alcune
notizie sugli "struldbruggs". Fino all'età di trent'anni si
comportavano come comuni mortali, dopo di che entravano in uno stato
di malinconia e di prostrazione che tendeva ad aumentare gradatamente
fino agli ottanta anni. Glielo avevano confessato loro stessi, ed
infatti, poiché ne nascevano solo due o tre in una generazione,
sarebbe stato difficile farsene un'opinione generale. Arrivavano alla
soglia dei sessanta, che è il limite medio dei mortali, non solo con
quelle malattie della mente e infermità del corpo che affliggono gli
uomini in generale, ma con ben altre ancora, dovute alla terribile
prospettiva di non morire mai. Non erano soltanto individui testardi,
noiosi, avidi, bisbetici, leggeri, chiacchieroni, ma anche incapaci di
intrecciare amicizie e immuni da ogni forma di affetto che si fermava,
in ogni caso, a quello per i figli dei figli. Lew loro uniche passioni
erano l'invidia e il desiderio impotente: invidia per i vizi dei
giovani e la morte dei vecchi; si sentono esclusi dalla possibilità di
assaporare il piacere e nello stesso tempo, quando vedono un funerale,
si lamentano e si disperano per quel porto di quiete dove gli altri si
dirigono e che a loro rimane negato per sempre. Non ricordano niente
ad eccezione di quello che hanno imparato e osservato in gioventù e
nella mezza età e anche questo in maniera confusa. Per quanto riguarda
la verità ed i particolari di un certo avvenimento, è molto più sicuro
affidarsi alle cronache tradizionali che alla loro memoria. I meno
sciagurati fra loro, sono quelli che rimbambiscono e perdono del tutto
la memoria, perché almeno sono in qualche modo oggetto di cure e di
assistenza, avendo perduto quei pessimi difetti che hanno gli altri.
Se uno "struldbrugg" sposa una donna della sua specie, il matrimonio
viene sciolto per la clemenza della legge statale non appena il più
giovane dei due arriva agli ottanta anni; la legge ritiene infatti che
sia un atto di doverosa pietà il non raddoppiare, con il peso della
moglie, la sciagura di un uomo, condannato senza alcuna colpa ad una
vita perenne su questo mondo.
Allo scadere dell'ottantesimo anno, per la legge sono morti e gli
eredi subentrano nelle proprietà, mentre loro possono usufruire di una
misera pensione per il sostentamento; i poveri sono mantenuti a spese
dello stato. Inoltre vengono esonerati per supposta incapacità da ogni
impiego di fiducia o di profitto; non possono acquistare terre né
prenderle in affitto, non sono ammessi come testimoni nelle cause
civili e penali e nemmeno nelle controversie sui confini delle
proprietà.
A novanta anni perdono i denti e i capelli, non hanno più il senso del
gusto, mangiano o bevono quello che capita, senza appetito e senza
piacere. Rimangono perennemente sofferenti delle malattie già
contratte, senza migliorare né peggiorare. Dimenticano i nomi delle
cose e delle persone, anche quando si tratta degli amici più intimi e
dei parenti. Né trovano svago nella lettura, perché quando sono
arrivati in fondo a una frase, hanno già dimenticato l'inizio; e così
vengono a perdere anche l'ultimo passatempo possibile.
Inoltre la nostra lingua cambia con una certa rapidità, per cui uno
"struldbrugg" nato in una certa epoca non capisce quelli nati in
altre; dopo duecento anni, se si escludono poche parole, sono tagliati
fuori anche dalla possibilità di conversare con i mortali e si trovano
a vivere come stranieri in patria.
Per quanto posso ricordare, queste furono le notizie che mi dettero
riguardo agli "struldbruggs". Alcuni mi mostrarono molte volte
parecchi di questi immortali, il più giovane dei quali non superava i
duecento anni; e quando dissero loro che ero un grande viaggiatore e
che avevo visto tutte le parti del mondo, non diedero il minimo segno
di curiosità, né mi fecero alcuna domanda; mi chiesero solo di
lasciare loro uno "slumskudask", un ricordino, che è un modo di
chiedere l'elemosina ed eludere la legge che lo vieta severamente,
poiché sono mantenuti a spese pubbliche, anche se si tratta di una
pensione più che scarsa.
La gente comune li odia e li disprezza, la loro nascita è per tutti un
funesto presagio e viene ricordata per molto tempo; tanto che per
conoscere la loro età è necessario ricorrere ai registri di nascita,
che tuttavia non vanno oltre i mille anni, mentre gli altri sono
andati perduti in incendi o durante disordini. Il modo più comune per
sapere la loro età, è quello di chiedere loro quali re o grandi
personaggi ricordano e quindi consultare gli annali di storia, poiché
senza dubbio l'ultimo re di cui hanno memoria era salito al trono
prima che loro avessero compiuto ottanta anni.
Costituivano la vista più mortificante che si possa concepire e le
donne erano più orribili degli uomini. Non si portano addosso soltanto
le deformità della estrema vecchiaia: un che di spettrale, veramente
indescrivibile, si impossessa di loro aumentando con gli anni; fra una
dozzina riconobbi il più vecchio, sebbene tra loro non corressero più
di un secolo o due.
Il lettore comprenderà bene come, con quanto avevo visto e ascoltato,
il mio tanto vantato desiderio di una vita eterna si fosse affievolito
e come mi vergognassi delle arcadiche scene che avevo prospettato.
Nessun tiranno avrebbe potuto escogitare una morte più atroce, in
braccio alla quale non mi sarei gettato pur di sfuggire ad una simile
vita. Il re, che era venuto a sapere ciò che era successo, non mi
risparmiò le più divertite canzonature, dicendomi che magari mi
avrebbe prestato una coppia di "struldbruggs" da portare in patria per
fare passare alla gente la paura della morte. Ma le leggi fondamentali
del regno lo impedivano, altrimenti avrei accettato ben volentieri il
fastidio e la spesa di portarmeli dietro.
Dovevo ormai riconoscere che tutta la legislazione del regno
riguardante gli Struldbruggs poggiava su ragioni concrete e ogni altra
nazione si sarebbe comportata, a parità di condizioni, in modo
analogo; altrimenti, poiché l'avarizia è la conseguenza naturale della
vecchiaia, gli immortali sarebbero diventati col tempo gli unici
proprietari dell'intero paese, impadronendosi dello stesso potere
politico; e constatata la loro incapacità, avrebbero causato la rovina
di un popolo intero.







11 - L'AUTORE LASCIA LUGGNAGG E SI IMBARCA PER IL GIAPPONE DA DOVE, SU
UNA NAVE OLANDESE, ARRIVA AD AMSTERDAM E DA QUI IN INGHILTERRA.

Spero che questa mia descrizione degli "struldbruggs" abbia
interessato il lettore, perché è abbastanza inconsueta o almeno non
ricordo di avere incontrato qualcosa di simile nei libri di viaggio
che mi sono capitati fra le mani. Se ho torto, spero di essere
perdonato, perché molto spesso capita che i viaggiatori di uno stesso
luogo finiscano per descrivere gli stessi fenomeni, senza per questo
essere accusati di averli copiati da coloro che hanno scritto prima di
loro.
Dato che fra questo paese e il Giappone si svolge un intenso traffico
commerciale, può darsi che qualche autore giapponese abbia dato
notizia degli "struldbruggs"; ma rimasi così poco tempo in quella
terra, nella più completa ignoranza della lingua, che non mi fu
possibile svolgere indagini. Spero che gli olandesi vorranno
interessarsi e colmare autorevolmente le mie lacune.
Sua Maestà, che pure mi aveva offerto diverse volte degli incarichi a
corte, visto che ero ormai deciso a tornare in patria, si degnò di
concedermi il suo consenso, facendomi anche l'onore di consegnarmi una
lettera di presentazione, scritta di proprio pugno, indirizzata
all'imperatore del Giappone. Mi regalò anche 444 monete d'oro (questo
popolo predilige i numeri pari) e un diamante rosso che vendetti in
Inghilterra per 1100 sterline.
Il 6 maggio 1709 mi congedai con grande solennità dal sovrano e dai
miei amici. Il re volle farmi scortare dalle sue guardie a
Glanguenstald, che è il porto più grande nella sponda sud-occidentale
dell'isola. In sei giorni trovai una nave che andava in Giappone e in
quindici di viaggio arrivai in quella terra. Approdammo in un
porticciolo chiamato Xamoschi, nella costa sud-orientale del Giappone.
La cità si sviluppa verso occidente lungo uno stretto angusto che
porta verso nord in un lungo braccio di mare, sulla cui sponda nord-
occidentale sorge la capitale di Yedo.
Sbarcando mostrai ai doganieri la lettera del sovrano di Luggnagg
diretta a Sua Maestà imperiale; riconobbero il sigillo, largo come il
palmo della mia mano, con il calco del re che solleva da terra un
mendicante sciancato. Saputo della lettera, i magistrati mi
ricevettero come un ministro, mi assegnarono carrozze e servitori e mi
portarono a Yedo. Qui fui ammesso a una udienza durante la quale fu
aperta la lettera con grandi cerimonie e tradotta all'imperatore da un
interprete il quale, a sua volta, mi riferì di comunicare al sovrano
le mie richieste. Queste sarebbero state accolte comunque, in
considerazione del suo reale fratello di Luggnagg. L'interprete, che
trattava affari con gli olandesi, aveva capito subito dal mio aspetto
che ero europeo, per cui tradusse le parole dell'imperatore in
olandese lingua che parlava benissimo. Come avevo già pensato fra me,
risposi che ero un mercante olandese che aveva fatto naufragio in una
terra lontana e dalla quale, per terra e per mare, era giunto a
Luggnagg e da qui in Giappone con una nave. Siccome sapevo che molti
miei compatrioti commerciavano con quel paese, nella speranza di
trovare un'occasione per tornare in Europa, rivolgevo umile istanza
perché mi fosse concesso il favore di essere accompagnato a Nangasac.
Rivolsi anche un'altra petizione in nome dell'amicizia che legava Sua
Maestà al re di Luggnagg, che cioè mi fosse risparmiata la cerimonia
imposta ai miei compatrioti di calpestare il crocefisso, perché ero
stato condotto in quel regno soltanto dalle mie sciagure, senza avere
il minimo desiderio di impiantare traffici commerciali. Questa ultima
richiesta sembrò sorprenderlo ed infatti disse che ero il primo fra i
miei compatrioti che si faceva scrupoli di compiere quell'azione,
tanto da far immaginare che fossi un cristiano. Sia per le ragioni che
avevo addotto, ma soprattutto per riguardo al re di Luggnagg, avrebbe
accolto quella mia bizzarra richiesta come un favore eccezionale,
purché la cosa avvenisse con molta riservatezza e gli ufficiali ci
fossero passati sopra come se se ne fossero dimenticati. Volle
assicurarmi, infatti, che se i miei compatrioti olandesi avessero
scoperto il segreto, mi avrebbero sgozzato durante il viaggio. Feci
ringraziare l'imperatore dall'interprete per questo favore inconsueto
e quindi fui aggregato ad una guarnigione che si recava a Nangasac,
non senza che venisse ordinato al comandante di avere cura di me e gli
fossero date particolari istruzioni per la faccenda del crocefisso.
Arrivai a Nangasac il 9 giugno 1709, dopo un viaggio interminabile e
faticosissimo, ma qui feci presto conoscenza con alcuni marinai
olandesi della "Amboyna", un poderoso legno di quattrocentocinquanta
tonnellate. Parlavo bene l'olandese perché avevo vissuto a lungo in
quella terra, frequentando un corso a Leida, e così loro, appena
seppero quale era stata la mia ultima tappa di viaggio, vollero sapere
in quali terre ero stato e qualcosa della mia vita. Imbastii una
storia piuttosto breve e in qualche modo credibile, passando sotto
silenzio la maggior parte delle mie avventure. Siccome avevo diverse
conoscenze in Olanda, non mi fu difficile inventare i nomi dei miei
genitori, che feci passare per povera gente della provincia di
Guelderland. Avrei voluto pagare al capitano, certo Theodorus
Vangrult, il prezzo del viaggio per l'Olanda, ma lui, sentito che ero
un medico, volle solo metà del prezzo, a patto che fossi disposto a
prestare la mia opera. Prima dell'imbarco, molti marinai mi chiesero
come avevo adempiuto alla cerimonia di cui ho parlato sopra. Risposi
evasivamente che avevo adempiuto a tutti i riti richiesti dalla corte
imperiale. Non mancò un maligno di un mozzo che mi additò ad un
ufficiale, sostenendo che non avevo ancora calpestato il crocefisso;
ma l'altro, a cui era stato ordinato di farmi passare, affibbiò a quel
furfante venti vergate di bambù sulle spalle; dopo di che nessun altro
mi infastidì con altre domande.
Non accadde nulla di particolare durante questo viaggio.
Navigammo con vento favorevole fino al Capo di Buona Speranza, dove
facemmo una sosta per imbarcare acqua. Il 6 aprile arrivammo sani e
salvi ad Amsterdam con la sola perdita di tre marinai, morti di
malattia e di un altro caduto in mare dall'albero maestro non lontano
dalle coste della Guinea. Da Amsterdam mi imbarcai subito su di una
piccola nave olandese per l'Inghilterra.
Il 10 aprile 1710 entrammo ai Downs. Sbarcai la mattina dopo e vidi
ancora una volta la mia terra natale dopo un'assenza di cinque anni e
sei mesi. Corsi di gran carriera a Redriff, dove arrivai alle due del
pomeriggio dello stesso giorno e trovai mia moglie e la famiglia in
buona salute.






PARTE QUARTA.
VIAGGIO NEL PAESE DEGLI HOUYHNHNM.


1 - L'AUTORE IN VIAGGIO COME COMANDANTE Dl UNA NAVE. AMMUTINAMENTO
DELL'EQUIPAGGIO. IL COMANDANTE VIENE RINCHIUSO NELLA CABINA E SBARCATO
IN UNA TERRA SCONOSCIUTA. S'INOLTRA NEL PAESE. DESCRIZIONE DELLA
STRANA SPECIE DI ANIMALI DETTI YAHOO. L'AUTORE INCONTRA DUE HOUYHNHNM.

Se avessi imparato allora che cosa sia la felicità, mi sarei reso
conto che i cinque mesi trascorsi con mia moglie e i bambini erano
stati i più belli della mia vita. Lasciai invece mia moglie incinta ed
accettai la vantaggiosa offerta di comandare l'"Avventura", un solido
mercantile di trecentocinquanta tonnellate, perché ormai avevo una
grande esperienza di navigazione ed ero stanco di fare il medico di
bordo, attività alla quale mi sarei potuto dedicare al bisogno: per
questo assoldai un abile e giovane chirurgo, certo Robert Purefoy. Il
7 settembre 1710 salpammo da Portsmouth e il 14 incrociammo il
capitano Pocock di Bristol presso l'isola di Teneriffe, diretto a
Campeche per tagliare legno indiano. Due giorni dopo una tempesta
separò le nostre navi e al mio ritorno seppi che la sua era colata a
picco con tutto l'equipaggio ad eccezione di un mozzo. Era un bravo
uomo ed un valoroso marinaio, anche se la sua testardaggine provocò la
sua morte come quella di tanti altri. Se avesse seguito i miei
consigli, a quest'ora sarebbe sano e salvo come me, a casa con i suoi
familiari.
Mi morirono parecchi uomini di febbri maligne, tanto che dovetti
reclutare nuova ciurma alle isole Barbado e Sottovento, dove approdai
secondo gli ordini dei mercanti per i quali lavoravo. Mi sarei ben
presto pentito di questo ingaggio di nuovi marinai, perché scoprii che
la maggior parte di loro erano stati bucanieri in passato. Avevo un
equipaggio di cinquanta uomini e il mio compito era di commerciare con
gli indiani dei Mari del Sud e aprire nuove vie commerciali. Ma quei
delinquenti che avevo ingaggiato demoralizzarono il resto
dell'equipaggio e tutti insieme ordirono una congiura per impadronirsi
della nave e farmi prigioniero. Attuarono il loro piano uno dei giorni
seguenti: irruppero nella mia cabina, mi legarono mani e piedi e
minacciarono di gettarmi in mare al minimo tentativo di ribellione.
Dissi che ero loro prigioniero e che accettavo la mia sorte; me lo
fecero giurare e quindi mi slegarono limitandosi a incatenarmi una
gamba al letto e a mettermi sotto il tiro di una sentinella armata,
con l'ordine di spararmi se tentavo di fuggire. Mi mandarono da bere e
da mangiare e loro presero il comando della nave. Avevano in mente di
trasformarsi in una banda di pirati e depredare i galeoni spagnoli,
anche se per far questo avevano bisogno di imbarcare altri uomini.
Decisero quindi di vendere le mercanzie che erano a bordo della nave e
dirigersi a Madagascar per assoldare altra ciurma, tanto più che
diversi marinai nel frattempo erano morti. Continuarono la navigazione
per diverse settimane e quindi cominciarono a commerciare con gli
indiani; ma ero all'oscuro della rotta, perché mi tenevano rinchiuso
in cabina sotto continua minaccia di morte.
Il 9 maggio 1711 un tal Giacomo Welch scese in cabina, per dirmi che
il capitano aveva deciso di sbarcarmi. Feci le mie rimostranze e
cercai di sapere chi fosse il nuovo capitano, ma fu tutto inutile. Mi
infilarono a forza dentro una scialuppa permettendomi di portare con
me gli abiti migliori, che erano come nuovi, e un pacco di biancheria,
ma niente armi, salvo la spada; anche se poi ebbero la generosità di
non frugarmi le tasche nelle quali avevo infilato i soldi e altri
oggetti di prima necessità. Remarono per circa una lega e quindi mi
lasciarono su una spiaggia. Chiesi loro che terra fosse quella, ma
giurarono che ne sapevano quanto me e aggiunsero solo che il capitano
(come lo chiamarono) aveva stabilito di liberarsi di me dopo aver
venduto il carico, sulla prima terra che fosse stata avvistata.
Ripresero il mare in tutta fretta e mi urlarono di non fermarmi lì per
non essere travolto dalla marea, poi mi dissero addio.
Andai verso la riva in queste misere condizioni e presto raggiunsi la
terra ferma; mi accasciai su un rialzo del terreno per riposarmi e per
riflettere sul da farsi. Appena mi fui ripreso, mi inoltrai nel paese
deciso a consegnarmi ai primi selvaggi che avessi incontrato, cercando
di contrattare la mia vita con braccialetti, anelli di vetro ed altre
cianfrusaglie che avevo nelle tasche e che i marinai portano sempre
dietro. Lunghi filari di alberi, non piantati dall'uomo ma disposti
così dalla natura, segnavano quella pianura ricca di praterie e campi
di avena. Avanzavo con prudenza perché temevo di essere preso alla
sprovvista e magari di buscarmi qualche freccia alle spalle o di
fianco, finché mi immisi in un sentiero con molte impronte umane, di
mucche e tantissime di cavalli. Vidi alla fine parecchi animali in un
campo e un paio su un albero, tutti della stessa razza. Erano di
aspetto sconcertante, deforme, tanto che ne rimasi impressionato e mi
nascosi dietro un cespuglio per osservarli. Alcuni vennero vicino al
cespuglio ed ebbi modo di vederli meglio. Avevano la testa e il petto
coperti di pelo folto, alcuni arricciato, altri liscio; barbuti come
caproni, avevano una striscia di pelo che correva lungo tutta la
schiena ed ancora pelo sugli stinchi e sui piedi. Il resto del corpo
era scoperto, di una pelle scura come quella dei bufali. Non avevano
coda né peli sul posteriore salvo che intorno all'ano; suppongo che ce
li abbia fatti crescere la natura come difesa per quando si accosciano
per terra. Questa è infatti la loro posizione abituale, anche se si
sdraiavano o stavano dritti sulle zampe posteriori. Si arrampicavano
sugli alberi con l'agilità degli scoiattoli, perché avevano lunghi
artigli apuuntiti e ricurvi su tutte e quattro le zampe. Inoltre erano
capaci di saltare e fare balzi con una agilità sorprendente. Le
femmine erano più piccole rispetto ai maschi, avevano peli lunghi e
lisci sulla testa e una peluria sottile sul resto del corpo salvo che
intorno all'ano e alle pudende. Mentre camminavano, le mammelle
penzolavano fra le zampe anteriori fin quasi a strusciare per terra.
Entrambi i sessi avevano capelli di vari colori, castani, rossi, neri,
gialli. Nel complesso devo dire di non aver mai visto durante i miei
viaggi animali così ripugnantii o almeno esseri che abbiano suscitato
in me un simile senso di repulsione.
Credendo di avere visto abbastanza, nauseato e sprezzante, mi alzai e
ripresi il sentiero battuto, nella speranza che mi portasse alla
capanna di qualche indigeno. Avevo fatto pochi passi quando mi trovai
uno di questi animali che mi sbarrava la strada venendomi incontro.
Appena quel mostro orrendo mi vide fece mille smorfie, fissandomi come
fossi qualcosa di assurdo per lui, poi si avvicinò alzando una delle
zampe anteriori, non so se per curiosità o per aggredirmi: sguainai la
sciabola dandogli un colpo di piatto, non osando colpirlo col filo
della lama, per non attirarmi contro gli abitanti del posto inferociti
per la mutilazione o l'uccisione di un loro capo di bestiame.
L'animale sentì il colpo, saltò indietro e si mise a ululare così
forte, che una mandria di almeno quaranta suoi simili si raggruppò
intorno a me, mugolando con le loro facce repellenti; corsi allora ai
piedi di un albero e, con le spalle al tronco, li tenni a distanza
mulinando la sciabola. Molti di quei maledetti si afferrarono alle
fronde e salirono sull'albero, da dove si misero a farmi piovere
addosso i loro escrementi: mi salvai abbastanza bene stringendomi il
più possibile al ceppo, nonostante fossi comunque asfissiato dallo
sterco che mi cadeva tutto intorno.
Ero ormai senza via d'uscita, quando all'improvviso li vidi fuggire
precipitosamente; mi azzardai a lasciare l'albero e a proseguire per
il sentiero, pensando tra di me che cosa li avesse tanto terrorizzati,
quando a sinistra vidi un cavallo che, con la sua molle andatura, era
stato la causa della fuga improvvisa di quegli animali che mi avevano
aggredito. Il cavallo scartò appena quando mi fu vicino, ma si riprese
subito e mi guardò in faccia dando segni di meraviglia, poi, girandomi
intorno, mi osservò mani e piedi. Avrei voluto proseguire il cammino,
ma lui si piantò in mezzo al sentiero, anche se con un aspetto
mansueto e senza il minimo segno ostile. Ci guardammo l'un l'altro per
qualche minuto, poi mi azzardai ad allungare una mano per
accarezzargli la criniera, zufolando come fanno i fantini quando hanno
a che fare con una bestia nuova. L'animale dette segno di non gradire
il mio gesto cortese, perché scosse la testa e, aggrottando la fronte,
sollevò lentamente la zampa anteriore sinistra per allontanare la mia
mano. Poi nitrì a più riprese e con diverse modulazioni, tanto che mi
sembrò che articolasse un suo linguaggio.
Eravamo presi in questo strano confronto, quando ecco arrivare un
altro cavallo che si diresse verso il primo con un fare cortese, si
toccarono lo zoccolo anteriore destro con molto garbo, nitrendo
diverse volte a turno, variando i suoni che sembravano articolati. Si
allontanarono di qualche passo come volessero discutere in disparte
tra loro, camminando fianco a fianco avanti e indietro, come persone
intente a considerare qualche importante decisione, pur girandosi di
tanto in tanto verso di me, per assicurarsi che non fuggivo. Sbalordii
a vedere un simile comportamento in animali privi di ragione, pensando
fra me e me che se gli abitanti di questa terra erano dotati di
ragione in proporzione ai loro cavalli, dovevano essere il popolo più
saggio di questo mondo. Rincuorato da questo pensiero, decisi di
rimettermi in cammino fino a scoprire una casa o un villaggio, o
incontrare qualcuno degli indigeni. Ma il primo dei due cavalli, che
era un grigio pomellato, accortosi che sgattaiolavo via, mi nitrì
dietro in maniera così espressiva che mi sembrò quasi di capire il
significato: mi volsi e gli andai accanto come per aspettare i suoi
ordini, cercando in tutte i modi di nascondere i miei timori; non nego
che mi sentivo abbastanza a disagio pensando a come sarebbe andata a
finire questa avventura e il lettore non faticherà a credere che
questa mia situazione non mi piaceva affatto.
I due cavalli mi si avvicinarono e cominciarono a ispezionarmi il viso
e le mani con grande attenzione: quello grigio cominciò a strofinarmi
il cappello con lo zoccolo mettendomelo di traverso tanto da
costringermi a toglierlo per riaggiustarmelo in testa; questo sorprese
visibilmente lui e il suo compagno, che era un baio; quest'ultimo si
mise a considerare le falde della mia giacca e, visto che mi
scendevano tutt'intorno alla persona, si guardarono ancora con un
senso di meraviglia. Mi accarezzò la mano come se ammirasse il colore
della pelle e la sua morbidezza, ma me la strinse così forte fra lo
zoccolo e il garretto che non riuscii a trattenere un gemito, dopo di
che mi toccarono con la massima delicatezza. Rimasero perplessi al
vedermi calze e scarpe, anzi le tastarono più volte, rivolgendosi l'un
l'altro dei nitriti e assumendo un atteggiamento simile a quello di un
filosofo che si appresta a risolvere un qualche fenomeno nuovo e pieno
di difficoltà.
Nel complesso questi animali si comportavano in maniera tanto
razionale e conseguente, piena di giudizio e di acume, che dovevano
essere dei maghi che avevano assunto quell'aspetto equino per qualche
loro scopo nascosto finché, imbattutisi in un estraneo, avevano deciso
di continuare con lui nello scherzo; o forse erano veramente
meravigliati nello scorgere un uomo tanto differente negli
atteggiamenti, nel fisico, nell'aspetto da quelli che probabilmente
vivevano in quelle terre lontane. Seguendo questo mio ragionamento, mi
decisi a rivolgere loro queste parole: "Signori, se siete degli
stregoni, e tutto sta a dimostrarlo, sappiate che sono uno sciagurato
inglese gettato dalla sfortuna sulle vostre coste, per cui prego uno
di voi di portarmi in groppa, come un vero cavallo, al villaggio più
vicino dove possa trovare ospitalità. Come ricompensa vi darò questo
coltellino e questo braccialetto", e così dicendo tirai fuori quegli
oggetti di tasca.
Quelle due creature mi guardarono in silenzio mentre parlavo e
sembravano ascoltarmi con la massima attenzione. Quando ebbi finito,
nitrirono più volte, come se stessero conversando fra loro su un
argomento importante. Ebbi modo di notare che la loro lingua dava
corpo ed espressione ai loro sentimenti e che dalle parole si sarebbe
potuto ricavare un alfabeto più semplice di quello cinese.
Riuscii a distinguere, ripetuta più volte da entrambi, la parola
"yahoo" e sebbene non ne conoscessi il significato, provai a
pronunciarla mentre i cavalli parlavano tra loro; profittando di una
loro pausa, ripetei "yahoo" a voce alta imitando, per quanto mi fu
possibile, il nitrito del cavallo. Rimasero visibilmente sorpresi e il
grigio ripeté due volte la stessa parola, come per insegnarmi
l'accento giusto ed io gli andai dietro con la voce riuscendo a
migliorare ogni volta la pronuncia, anche se rimasi lontano dalla
perfezione. Il baio a sua volta provò con un'altra parola molto più
difficile da pronunciare e che, secondo l'ortografia inglese, si
potrebbe scrivere nel modo seguente: "houyhnhnm". Non mi fu facile
come con la prima, anche se dopo due o tre prove migliorai
notevolmente, accrescendo ancora di più la loro sorpresa.
Dopo che ebbero parlato un altro po' di tempo, sempre di me, i due
compagni si salutarono gentilmente come prima, strofinandosi lo
zoccolo ed il grigio mi fece segno di camminare dietro di lui; pensai
di obbedirgli almeno fino a quando non avessi trovato una guida
migliore. Quando provai ad rallentare il passo, si mise a fare "hhuun,
hhuun"; capii cosa voleva dire e a mia volta cercai di fargli capire
che ero stanco e non ce la facevo ad andare più in fretta. Allora si
fermò per farmi riposare un po'.






2 - UN HOUYHNHNM PORTA L'AUTORE A CASA SUA. DESCRIZIONE DELLA DIMORA E
ACCOGLIENZA RISERVATA ALL'AUTORE. IL CIBO DEGLI HOUYHNHNM. ANGUSTIE
DELL'AUTORE PER LA MANCANZA DEL VITTO. INFINE SI RISTORA. DESCRIZIONE
DEI SUOI PASTI.

Dopo avere camminato per un tre miglia, arrivammo a una specie di
lungo edificio la cui struttura era formata da pali di legno
conficcati al suolo, con le pareti formate da graticci e coperte da un
basso tetto di paglia. Mi sentii riavere e tirai fuori di tasca alcune
di quelle cianfrusaglie, che i viaggiatori si portano dietro per
regalarle agli indiani selvaggi dell'America o di altri paesi,
sperando di ingraziarmi gli abitanti del villaggio.
Il cavallo mi fece entrare per primo: era un ambiente molto vasto con
il pavimento di argilla ben battuta, lungo tutta una parete correvano
un trogolo ed una mangiatoia. C'erano due giumente e tre puledri, ma
non in piedi a mangiare, bensì accosciati per terra; questo mi
meravigliò moltissimo, ma ancora di più quando li vidi accudire alle
faccende domestiche. Anche questi sembravano dei comuni animali, ma il
loro atteggiamento mi confermò nella supposizione per cui il popolo
che era riuscito ad addomesticare in questo modo degli animali, doveva
essere senza meno tanto saggio da superare ogni altra nazione di
questo mondo. Dopo di me entrò subito il grigio, come se mi volesse
proteggere da eventuali rimostranze degli altri, ai quali nitrì varie
volte con tono autorevole, ricevendone risposte.
C'erano altre tre stanze, oltre a quella dove ero entrato, che
completavano l'edificio; comunicavano tramite tre porte in fila che
costituivano una vera e propria fuga prospettica. Passammo nella
seconda stanza e sulla soglia della terza il grigio, entrando, mi fece
cenno di aspettare. Ne approfittai per riempirmi le mani di tutti quei
gingilli che avevo destinato ai padroni di casa: due coltellini, tre
braccialetti di perle false, uno specchietto e una collanina di chiodi
di vetro. Il cavallo nitrì due o tre volte dalla soglia ed io mi
aspettavo una qualche voce umana in risposta, ma udii solo dei nitriti
venire dal di dentro, magari un po' più acuti dei precedenti. Pensai
che si trattasse della casa di qualche notabile del posto, tante erano
le cerimonie da espletare prima di essere ricevuti in udienza, anche
se non riuscivo a capire come una persona di alto rango avesse come
unici servitori dei cavalli. Temetti anche di vaneggiare per le
sofferenze e le sciagure degli ultimi tempi; cercai di scuotermi e mi
misi ad osservare la stanza in cui mi avevano lasciato, ammobiliata
come la precedente, sebbene in maniera più elegante. Mi strofinai gli
occhi più volte, ma eccoli davanti a me, sempre gli stessi oggetti; mi
detti dei pizzichi sulle braccia e sui fianchi per svegliarmi,
sperando di essere in sogno, e non mi restò che concludere che tutto
doveva essere opera di negromanzia e di magia. Non ebbi altro tempo
per riflettere, perché il grigio comparve sulla soglia e mi fece cenno
di seguirlo nella terza stanza: c'era una bella giumenta con due
puledrini accosciati su stuoie di paglia ben intrecciata, ben disposte
e pulitissime.
Dopo che fui entrato, la puledra si sollevò dalla stuoia, mi venne
accanto e, dopo avermi scrutato attentamente il viso e le mani, mi
rivolse uno sguardo sprezzante; poi si volse al cavallo e sentii che
si ripetevano diverse volte la parola "yahoo", di cui non sapevo il
significato, anche se era stata la prima che avevo imparato. Avrei
dovuto saperlo ben presto, a mia eterna umiliazione, perché il
cavallo, facendomi cenno con la testa e ripetendo la parola "hhunn,
hhunn", come aveva fatto sulla strada, volle che lo seguissi e mi
guidò in una specie di cortile dove c'era un altro edificio non
lontano dal primo. Quando entrammo, vidi tre di quegli esseri
abominevoli che avevo incontrato subito dopo lo sbarco, che si
cibavano di radici, di carne di asino e di cane, come seppi poi, e di
qualche mucca morta di malattia o per qualche disgrazia. Erano legati
per il collo ad un palo con robusti rampicanti, si portavano il cibo
alla bocca con le zampe e lo sbranavano con i denti.
Il cavallo, padrone di casa, ordinò ad un puledro sauro, che era uno
dei suoi inservienti, di slegare il più grosso di quegli animali per
portarlo nel cortile. Mi misero di fianco a quella bestiaccia, mentre
servo e padrone, che ripetevano sovente la stessa parola "yahoo", si
misero a fare confronti fra le nostre membra. E' impossibile
descrivere il misto di orrore e sorpresa quando scoprii in
quell'essere abominevole le sembianze di una creatura umana; certo con
la faccia appiattita, il naso schiacciato, le labbra prominenti, la
bocca larga; ma queste sono caratteristiche tipiche di tutti i paesi
selvaggi, dove si lasciano dormire i bambini bocconi per terra o
vengono trasportati dietro le spalle, con la faccia premuta contro le
spalle della madre. Le zampe anteriori degli "yahoo" erano come le mie
braccia solo che avevano unghie lunghe, la pelle delle palme nera e
ruvida, il dorso della mano coperto di peli. Lo stesso poteva dirsi
per i piedi, anche se il rapporto sfuggiva al cavallo a causa delle
mie calzature, e per tutto il resto del corpo, esclusi, come ho già
detto, il pelame e il colore della pelle.
Quello che imbarazzava i cavalli era il resto del mio corpo, tanto
diverso da quello di uno "yahoo", proprio per gli abiti di cui non
avevano nessuna conoscenza. Il sauro mi offrì una radice che teneva
(come vedremo a suo tempo) fra lo zoccolo e il garretto: la presi, la
odorai e gliela restituii molto cortesemente. Allora tirò fuori dalla
tana degli "yahoo" un brandello di carne di asino, ma quella mandava
un tanfo così nauseante che mi fece girare con disgusto. La ributtò
agli "yahoo" che la divorarono in un lampo. Allora mi mostrò un ciuffo
di fieno ed un garretto d'avena, ma scossi la testa per dire che non
era cibo per me. Ormai mi rendevo conto che, se non trovavo un mio
simile, sarei morto di fame e d'altronde, per ciò che riguardava
quegli sconci "yahoo", anche se a quel tempo erano pochi quelli che
amavanoo più di me il genere umano, devo confessare di non avere mai
provato tanto ribrezzo per degli esseri viventi; e per tutto il
periodo che restai laggiù, più li avevo vicino e più aumentava la mia
repulsione. Il cavallo lo capì subito ed infatti fece riportare lo
"yahoo" nel covile. Quindi si portò alla bocca lo zoccolo, con mia
somma sorpresa, anche se il gesto non aveva nulla di forzato ed era
anzi il più naturale di questo mondo, facendomi altri segni per sapere
cosa avrei voluto mangiare; purtroppo non potevo dargli una risposta
comprensibile, e anche se poi mi avesse capito, non sapevo dove avrei
trovato del cibo adatto a me. Nel frattempo vidi passare una mucca;
allora indicandola, feci capire al cavallo che avrei voluto mungerla.
L'idea ebbe il suo effetto ed infatti il cavallo mi ricondusse
nell'edificio e ordinò ad una serva giumenta di aprire una stanza che
fungeva da deposito per il latte, contenuto in secchie di legno e
recipienti di creta, straordinariamente linda e ordinata. Me ne dette
una bella tazza che bevetti avidamente e mi sentii ristorato.
Verso mezzogiorno vidi arrivare davanti a casa un veicolo, come una
treggia, trascinata da quattro "yahoo". C'era un vecchio destriero,
che sembrava distinto, il quale ne scese con le zampe posteriori,
perché si era ferito la zampa anteriore: veniva a pranzo dal mio
cavallo che lo ricevette con gentilezza.
Pranzarono nella stanza più bella; la seconda portata era a base di
avena bollita nel latte che tutti mangiarono fredda ad esclusione del
vecchio. Le mangiatoie erano poste nel mezzo della stanza, in cerchio,
divise in vari scomparti, mentre tutto intorno stavano seduti i
cavalli su fasci di paglia. Al centro c'era una rastrelliera con
divisioni corrispondenti ai vari settori della mangiatoia, cosìcché
ogni cavallo potesse mangiare il proprio fieno e il proprio beverone
di latte e avena, con grande ordine e decenza. I puledri, maschio e
femmina, si comportarono bene, mentre il padrone e la padrona di casa
erano festosi e pieni di riguardo per il loro ospite. Il grigio mi
ordinò di mettermi accanto a lui e certamente lui e il suo ospite
parlarono molto di me, come potei capire dalle occhiate che mi dava
quest'ultimo e dalla parola "yahoo" che ricorreva nei loro discorsi.
Intanto mi ero infilato i guanti; questo gesto lasciò perplesso il
grigio, il quale non nascose il proprio stupore nel vedere cosa avevo
fatto alle mie zampe anteriori, anzi ci posò due o tre volte di
seguito i propri zoccoli, come per farmi capire che avrei dovuto farle
ritornare come prima; lo accontentai sfilandomi i guanti e
mettendomeli in tasca. Questo aumentò i loro commenti e mi accorsi che
stavo conquistando la loro simpatia, e ne avrei presto sentito gli
effetti. Mi dissero di pronunciare le poche parole che avevo imparato
e, mentre erano a tavola, il padrone mi insegnò il nome dell'avena,
del latte, del fuoco, dell'acqua e di altre sostanze. Imparai questi
termini alla svelta, grazie alla mia predisposizione per le lingue
straniere.
Finito il pranzo, il padrone mi portò in un angolo e, con segni e
parole, cercò di farmi capire tutto il suo imbarazzo perché non sapeva
cosa darmi da mangiare. Loro chiamano l'avena "hlunnh"; pronunciai
questa parola due o tre volte perché, se all'inizio l'avevo scartata,
in un secondo tempoo pensai che avrei potuto farci una specie di pane
che, con il latte, mi avrebbe almeno sostentato fino al momento in cui
fossi riuscito ad andare in altri paesi, fra gente della mia razza. Il
cavallo allora mi fece portare dalla serva giumenta un bel mucchio
d'avena su un vassoio di legno. Feci abbrustolire sopra il fuoco
l'avena, la sfregai ben bene per liberare i grani che passai in una
specie di setaccio e che infine tritai fra due pietre. Poi, impastando
questa specie di farina con acqua, ne ottenni una focaccia che cossi
al fuoco. La mangiai ancora calda inzuppata nel latte. A prima vista
questo cibo, che oltre tutto è assai comune in diversi paesi europei,
mi sembrò insipido, ma col tempo sarebbe migliorato; e poi non era
certo la prima volta che tiravo la cinghia e che constatavo come la
natura si accontenti di poco. Ed inoltre non posso fare a meno di
riconoscere che, per tutto il periodo che rimasi in quell'isola, non
ebbi il minimo malanno. A volte riuscii a catturare un coniglio o un
uccellino con laccioli fatti con peli di "yahoo", a raccogliere erbe
aromatiche che lessavo e mangiavo col pane, come l'insalata, e di
quando in quando mi concessi un po' di burro e di siero come bevanda.
Da principio sentivo la mancanza del sale, ma presto mi abituai a
mangiare insipido e sono convinto che l'uso indiscriminato del sale è
più che altro frutto del benessere, perché esso fu introdotto da
principio come uno stimolo al bere, eccetto quando si debba preservare
la carne in lunghi viaggi o in luoghi lontani dai grandi mercati. Fra
tutti gli animali, l'unico a farne uso è l'uomo, tanto è vero che,
dopo avere lasciato quest'isola mi ci volle molto tempo prima di
riabituarmi al sapore di cibi salati.
Per quanto riguarda la mia alimentazione, credo di essermi dilungato
abbastanza, anche se altri scrittori di viaggi scrivono pagine e
pagine sull'argomento, come se poi al lettore interessasse
personalmente sapere se mangiavano bene o male. Era comunque
necessario soffermarsi, anche se brevemente, su questo argomento,
perché non si pensasse che era impossibile vivere in questo paese e
con simili abitanti.
A sera il padrone mi fece preparare un posto dove dormire, a sei metri
dalla casa, ma separato dal covile degli "yahoo". Mi gettai sulla
paglia e, copertomi con i miei stessi abiti, feci una bella dormita.
In seguito mi sarei sistemato molto meglio, come il lettore saprà fra
breve, quando descriverò in maniera più particolareggiata le mie
abitudini in quel paese.
















3 - IL PADRONE HOUYHNHNM INSEGNA LA LINGUA ALL'AUTORE, DESIDEROSO DI
APPRENDERE. DESCRIZIONE DELLA LINGUA. VENGONO MOLTI NOTABILI HOUYHNHNM
PER VEDERLO. L'AUTORE RACCONTA AL PADRONE I SUOI VIAGGI.

Il mio sforzo principale era puntato a imparare la lingua che il mio
padrone (come da ora in poi lo chiamerò), i puledri e tutta la servitù
equina volevano insegnarmi. Consideravano un prodigio che un essere
bruto desse segni evidenti di ragione; infatti indicavo ogni oggetto e
ne chiedevo il nome che poi trascrivevo, quando ero solo, nel mio
diario; cercavo di correggere l'accento, facendo ripetere a quelli
della famiglia la stessa parola. In questa attività mi fu di grande
aiuto un puledro sauro che aveva le mansioni più umili.
Siccome i cavalli parlano attraverso il naso e la gola, la loro lingua
assomiglia, fra tutte le lingue europee, all'alto olandese o tedesco,
ma è più espressiva e meno ruvida. L'imperatore Carlo Quinto aveva
fatto la stessa osservazione quando affermò che, se avesse dovuto
parlare al suo cavallo, gli si sarebbe rivolto in tedesco.
Anche il mio maestro era impaziente e curioso e dedicò la maggior
parte del suo tempo libero a insegnarmi. In seguito mi avrebbe detto
di essere convinto che fossi uno "yahoo", anche se la docilità
nell'imparare, il garbo e la pulizia che dimostravo, lo lasciavano
perplesso, proprio perché erano qualità letteralmente opposte alla
natura di quegli animali. I miei vestiti erano per lui un problema,
perché non sapeva se facevano parte del corpo, tanto più che non me li
toglievo mai prima di andare a letto e mi rivestivo prima di uscire
all'aperto. Il suo desiderio più grande era quello di sapere da dove
venivo, dove avevo imparato a ragionare, di sentirmi raccontare la mia
storia. Sperava infatti che, visti i progressi che facevo nella loro
lingua, sarei stato ben presto in grado di raccontare la mia vita. Per
aiutare la memoria, scrivevo tutte le parole che via via imparavo
secondo l'ortografia inglese, con accanto la traduzione. Dopo qualche
tempo facevo questa computazione alla presenza del mio padrone. Mi ci
volle del bello e del buono per fargli capire quel che stavo facendo,
perché loro non hanno la minima idea di libri e letteratura.
Nel giro di poco più di due mesi ero in grado di capire le sue domande
e dopo tre mesi potevo dargli anche qualche accettabile risposta. La
cosa che più lo incuriosiva era sapere da quale parte del paese venivo
e come avevo imparato ad imitare un essere razionale, perché gli
"yahoo", ai quali assomigliavo nelle parti scoperte dai vestiti, come
la testa, il viso, le mani, malgrado qualche guizzo di furbizia
istintiva e una spiccata disposizione al male, erano gli esseri più
refrattari ad imparare qualsiasi cosa. Risposi che venivo dal mare, da
una terra lontana; che ero stato in compagnia di molti miei simili in
un grande recipiente vuoto e ricavato dal tronco di parecchi alberi;
che i miei compagni mi avevano costretto a sbarcare su quella costa,
lasciandomi solo. Riuscii a farmi capire a furia di segni e con grande
difficoltà. Lui mi rispose che dovevo essermi sbagliato o che gli
avevo detto "una cosa che non era" (nella loro lingua non esistono
parole che esprimano bugie o falsità); perché sapeva che oltre il mare
non poteva esserci altra terra, né che un'accozzaglia di esseri bruti
potesse guidare un recipiente di legno in mare. E poi non c'era
"houyhnhnm" che sapesse costruire un tale aggeggio, né in ogni caso lo
avrebbe affidato ad uno "yahoo".
Nella loro lingua "houyhnhnm" significa cavallo e, secondo
l'etimologia, perfezione della natura. Dissi al padrone che per il
momento avevo grandi difficoltà nell'esprimermi perché mi mancavano le
parole, ma che in breve tempo gli avrei raccontato cose meravigliose.
Si compiacque allora di fare in modo che la giumenta, i puledrini, e
tutta la servitù si dedicassero in ogni modo a istruirmi e ogni giorno
se ne prendeva cura lui stesso per due o tre ore. Diversi cavalli e
giumente di rango vennero a farci visita, perché si era sparsa la
notizia nei dintorni di uno "yahoo" straordinario, capace di parlare
come un "houyhnhnm" e che addirittura faceva intravedere nelle parole
e nelle azioni qualche barlume di ragione. Questi signori cavalli si
compiacquero non poco di parlare con me, di farmi domande alle quali
rispondevo come potevo. Questo esercizio mi fece fare progressi così
grandi, che a cinque mesi dal mio approdo capivo tutto e mi esprimevo
con sufficiente chiarezza.
Gli "houyhnhnm" che vennero a far visita al mio padrone per vedermi e
parlare con me, erano poco convinti che fossi un vero "yahoo", perché
il mio corpo aveva un rivestimento diverso. Quello che li frastornava
era la mancanza di pelle scura e di pelame, esclusa la testa, il viso
e le mani. Ma avevo già rivelato il segreto al mio padrone casualmente
un quindici giorni prima.
Ho già raccontato che tutte le sere, quando gli altri se n'erano
andati a dormire, mi spogliavo degli abiti che poi mi facevano da
coperta. Una mattina capitò che il mio padrone mandasse il suo
valletto, il puledro sauro, a chiamarmi di buon'ora. Quando entrò il
sauro, dormivo saporitamente, con le vesti che erano scivolate da un
lato e la camicia che mi era salita sul petto. Mi svegliai per il
rumore e lui, impacciatissimo, farfugliò l'ambasciata alla meglio.
Dopo di che corse terrorizzato dal padrone per riferirgli confusamente
la scena intravista. Avevo capito subito quello che era successo
perché, recatomi dal padrone appena vestito, mi sentii chiedere il
senso di quello che aveva raccontato il servitore, secondo il quale
quando dormivo ero un essere diverso, che ero in parte di colore
bianco, in parte giallo, o almeno non proprio bianco, in parte bruno.
Fino a quel momento avevo tenuto nascosta la faccenda dei vestiti per
distinguermi il più possibile da quei maledetti "yahoo", ma ormai era
inutile continuare. E poi le mie vesti già mal ridotte, prima o poi
sarebbero cadute a pezzi e a quel punto avrei dovuto ricorrere alla
pelle degli "yahoo" o di qualche altro animale, rivelando naturalmente
il segreto. Per cui informai il mio padrone che nella terra dalla
quale provenivo quelli della mia razza avevano l'abitudine di coprirsi
con pelli o lane di animali, conciate ed elaborate, sia per decenza
che per ripararsi dal rigore del clima; gliene avrei dato un esempio
spogliandomi dinanzi a lui, riservandomi solo di non scoprire quelle
parti che la natura ci ha insegnato a nascondere. Lui rispose che il
mio era uno strano discorso, specie nell'ultima parte, perché non
riusciva a capire come la natura ci avesse insegnato a nascondere ciò
che essa stessa ci ha dato; che né lui né gli altri della sua famiglia
provavano vergogna per alcuna parte del corpo, ma che mi lasciava
libero di fare secondo i miei gusti. Innanzi tutto mi sbottonai la
giacca e me la sfilai, poi continuai con il panciotto, le scarpe, le
calze, i pantaloni, mi feci scendere la camicia alla vita
attorcigliandomela intorno alle anche per coprire le mie nudità.
Il cavallo assistette pieno di curiosità e di stupore all'intera
esibizione, raccolse con la zampa i vari indumenti, uno per uno,
esaminandoli con attenzione, mi passò la zampa sul corpo senza farmi
male e mi girò intorno più volte. Disse che dovevo essere senza dubbio
uno "yahoo", anche se poteva notare molte differenze rispetto agli
altri della mia razza nella pelle bianca e liscia, nella mancanza di
peli in molte parti del corpo, nella forma e nella dimensione delle
unghie, in quel mio modo di camminare sempre sulle zampe posteriori.
Non volle vedere altro e mi permise di indossare gli indumenti, perché
già tremavo di freddo.
Allora gli feci capire come mi trovassi a disagio a sentirmi chiamare
con il nome di quell'animale ripugnante e spregevole che è lo "yahoo",
lo pregai di risparmiarmi quell'appellativo e di impedire che fosse
usato dai membri della sua famiglia e dagli amici ai quali mi avrebbe
mostrato. Inoltre gli chiesi di non rivelare il segreto dei vestiti,
fino a quando mi fossero durati; in quanto al sauro che aveva
assistito alla scena, Suo Onore gli avrebbe potuto benissimo ordinare
di non farne parola.
Il padrone si compiacque di accontentarmi e così non fu svelato il
segreto degli abiti, almeno finché non cominciarono a lacerarsi e fui
costretto a ricorrere a vari espedienti di cui avrò modo di parlare.
Intanto volevo a tutti i costi migliorare la conoscenza della lingua,
perché il cavallo si stupiva molto di più a sentirmi parlare e
ragionare, che a osservare il mio corpo, nudo o vestito che fosse.
Inoltre pareva impaziente di sentire le meraviglie che gli avevo
promesso.
Da questo momento in poi raddoppiò l'impegno nell'istruirmi; mi portò
spesso in mezzo agli altri dopo averli pregati, in separata sede, di
trattarmi con cortesia, perché questo atteggiamento mi avrebbe messo
di buon umore. Non passava giorno che, oltre a insegnarmi la lingua,
non mi chiedesse notizie di me, alle quali rispondevo meglio che
potevo. In questo modo gli avevo già fornito, anche se in maniera
inesatta, alcune informazioni sommarie e d'altronde sarebbe noioso
mettersi qui a passare in rassegna i vari stadi attraverso i quali
giunsi a una conversazione più fluida. E' importante però ricordare
che la prima notizia particolareggiata e completa che gli detti di me
fu la seguente.
Gli dissi dunque che, come avevo già provato altre volte a spiegargli,
ero venuto da una terra lontanissima insieme a una cinquantina di
esseri della mia stessa razza; che avevamo viaggiato per mare in una
grande tinozza di legno, più grande della sua casa. Cercai di
descrivergli nel modo migliore il vascello e di fargli capire, con
l'aiuto del mio fazzoletto aperto, come potesse essere sospinto dal
vento; che poi era avvenuta una lite e ero stato abbandonato in una
spiaggia del suo paese e che mi ero inoltrato nella campagna senza
sapere dove andavo, fino al momento in cui mi aveva liberato da quegli
orrendi "yahoo".
Allora mi chiese chi aveva costruito la nave e come fosse stato
possibile che gli "houyhnhnm" del mio paese lo avessero lasciato fare
a degli esseri privi di ragione. Gli risposi che sarei andato avanti
nel racconto solo ad un patto: che non avrebbe dovuto offendersi di
quanto avrei raccontato; solo dopo avere avuto la sua promessa gli
avrei riferito le meraviglie che da tanto gli avevo promesso.
Acconsentì e allora gli dissi che la nave era stata costruita da
esseri come me i quali, nel mio paese come in tutti gli altri che
avevo visitato, erano gli unici esseri razionali e quindi gli unici a
governare; che anzi, quando ero approdato nel suo paese, la prima cosa
che mi aveva stupito era stato vedere dei cavalli che si comportavano
come creature dotate di ragione, tanto quanto potevano esserlo lui e i
suoi compagni nello scoprire segni di intelletto in un essere che
avevano chiamato "yahoo". Riconoscevo di assomigliare in molte parti
del corpo a questi bruti, ma non certo alla loro natura di esseri
degenerati. Aggiunsi che, se mai la fortuna mi avesse concesso di far
ritorno in patria, dove avevo intenzione di raccontare i miei viaggi,
chi avesse ascoltato il mio racconto mi avrebbe accusato di dire cose
che non esistevano, di essermi inventata tutta questa storia. E poi,
con tutto il rispetto per lui, la sua famiglia, i suoi amici e dopo
avergli ricordato la promessa di non prendersela a male, dovetti
aggiungere che sarebbe sembrato impossibile agli occhi dei miei
compatrioti che un "houyhnhnm" potesse essere la creatura che comanda
una nazione e lo "yahoo" una bestia.





















4 - CONCETTI DI VERITA' E DI MENZOGNA SECONDO GLI HOUYHNHNM. IL
DISCORSO DELL'AUTORE INCONTRA LA DISAPPROVAZIONE DEL SUO PADRONE.
L'AUTORE FORNISCE ULTERIORI PARTICOLARI SU SE STESSO E SUI SUOI VIAGGI
PERICOLOSI.

Mentre mi ascoltava, sembrava che il padrone avesse il disagio dipinto
sul viso. In questa terra, infatti, dubitare e non credere sono così
estranei alla mente, che gli abitanti non sanno come comportarsi in
tali occasioni. Più di una volta, lo ricordo bene, argomento di
conversazione con il mio padrone era stato la natura dell'uomo nelle
altri parti del mondo, e avendo dovuto parlargli di falsità e di
menzogne, mi ci era voluto del bello e del buono per fargli capire
cosa intendevo, per quanto avesse un ingegno acutissimo. Secondo lui
infatti il fine del linguaggio è renderci comprensibili a vicenda e di
essere informati dei fatti, ma se ognuno dice una cosa che non è viene
meno lo scopo della comunicazione, perché da un lato non posso dire di
capire il mio interlocutore, dall'altro sono così lontano dal ricevere
un'informazione, che mi trovo peggio che nell'ignoranza, portato come
sono a credere che una cosa sia nera quando è bianca, o corta quando è
lunga. Questo era tutto quello che sapeva sulla facoltà della
menzogna, così bene capita e messa in pratica da tutte le creature
umane del mondo.
Ma per ritornare alla nostra discussione, quando affermai che gli
"yahoo" erano i soli a dominare nel mio paese, gli sembrò una cosa
incomprensibile e mi chiese se avevamo degli "houyhnhnm" e quali
compiti erano loro affidati. Gli risposi che ne avevamo moltissimi,
che in estate pascolavano nei campi e d'inverno venivano tenuti nelle
stalle alimentati con fieno ed avena, dove un servitore "yahoo" li
strigliava, pettinava loro la criniera, lavava loro le zampe, dava
loro da mangiare e rifaceva i giacigli. "Capisco, capisco," rispose il
mio maestro. "Da quanto mi dici, sebbene gli "yahoo" pretendano di
essere creature razionali, sono pur sempre schiavi degli "houyhnhnm";
magari i nostri "yahoo" fossero altrettanto docili!". Scongiurai Suo
Onore di non farmi proseguire, perché ero sicuro che quanto avrei
potuto dire sull'argomento gli sarebbe dispiaciuto moltissimo. Lui
invece volle sapere tutto, buono e cattivo che fosse, e a me non
rimase che obbedirgli. Dissi dunque che gli "houyhnhnm", da noi
chiamati cavalli, erano senz'altro i più generosi e i più affezionati
fra gli animali domestici, apprezzati soprattutto per la forza e per
la velocità, impiegati dalle persone benestanti che li possedevano per
viaggiare, per correre, per trasportare carrozze; aggiunsi che
venivano trattati con cura e affetto finché non si ammalavano o si
azzoppavano, perché allora venivano venduti per essere impiegati nei
servizi più umili prima di morire, dopo di che si scuoiavano e si
vendeva la pelle per quello che poteva valere, mentre il corpo veniva
lasciato in preda ai cani e agli uccelli. Quelli di razza più comune
avevano un trattamento molto diverso, perché venivano impiegati dai
contadini, dai carrettieri e dalla plebaglia in lavori faticosissimi
ricompensati da cibo peggiore. Poi cercai di spiegargli il nostro modo
di viaggiare, la forma e l'uso delle briglie, della sella, degli
speroni e della frusta, dei finimenti e delle ruote. Poi gli dissi che
applicavamo delle piastre di una materia durissima, detta ferro, sotto
gli zoccoli, per impedire che si spaccassero nei terreni accidentati
sui quali capitava di viaggiare.
Con profonda indignazione, il padrone mi chiese come osavamo montare
sulla groppa di uno "houyhnhnm", poiché non c'erano dubbi che anche il
più debole fra i suoi servi sarebbe stato capace di scrollarsi di
dosso il più forte degli "yahoo" o di rotolarsi per terra per
schiacciarlo sotto il suo peso. Risposi che avevamo l'abitudine di
addestrare i nostri cavalli da quando avevano tre o quattro anni; che
se poi qualcuno si dimostrava restio finiva per fare il cavallo da
tiro; che erano battuti da giovani al minimo capriccio e infine che i
maschi, destinati alla sella o alla carrozza, a due anni venivano
castrati per sbollire i loro spiriti e renderli docili e mansueti.
Erano senza dubbio sensibili alle punizioni e alle ricompense, anche
se non davano segni di ragione più di quanto accade agli "yahoo" in
questa terra.
Per essere il più possibile chiaro con il mio padrone, dovetti
ricorrere a vari giri di parole, perché la loro lingua non ha certo
una grande varietà di termini, visto che i loro bisogni e le loro
passioni sono molto minori rispetto ai nostri. Eppure è impossibile
esprimere tutto il suo risentimento di fronte al modo barbaro in cui
trattiamo gli "houyhnhnm", soprattutto dopo che gli ebbi riferito il
nostro uso di castrare i cavalli, per impedire che si riproducano e
per renderli più mansueti. Disse che se esisteva un paese dove gli
"yahoo" erano i soli ad essere dotati di ragione, spettava certamente
a loro governare, perché con il tempo la ragione vince sempre la forza
bruta. Tuttavia, considerando la forza dei nostri corpi, specialmente
del mio, gli pareva che non ci fossero esseri della nostra dimensione
più disadatti all'uso della ragione nelle comuni attività della vita.
Volle sapere infatti se le persone fra le quali vivevo assomigliavano
più a me o agli "yahoo". Gli risposi che più o meno quelle della mia
età erano come me, ma la pelle di quelli più giovani e delle femmine
era più soffice e morbida, in queste ultime anzi era bianca come il
latte. Riconobbe che ero differente dagli "yahoo", senza dubbio più
pulito di loro e senza deformità fisiche, anche se nella vita pratica
queste differenze risultavano degli svantaggi: le unghie dei piedi
anteriori e posteriori non mi servivano a niente, i piedi davanti poi
non sapeva nemmeno come chiamarli, perché non mi aveva mai visto
camminare a quattro zampe, inoltre erano troppo delicati per il
terreno, così scoperti come in genere li portavo. Se anche li coprivo
con quei rivestimenti strani, questi non erano né della stessa forma,
né ugualmente forti dei piedi posteriori. Inoltre il mio modo di
camminare era tra i più insicuri, perché se scivolavo con una delle
due zampe, inevitabilmente ruzzolavo per terra. Poi passò ad elencare
i difetti delle altre parti del corpo: la faccia piatta, il naso
sporgente, gli occhi sul davanti del corpo che mi costringevano a
girarmi quando volevo guardare di lato, l'incapacità di mangiare senza
portarmi una zampa alla bocca, e un gran numero di giunture che
servivano solo a questo scopo. Non capiva a cosa servissero tutte
quelle fessure e spaccature nei piedi posteriori, incapaci di
procedere su sassi acuti e taglienti senza la protezione della pelle
di qualche altro animale, così come accadeva per l'intero mio corpo,
costretto a ripararsi contro il caldo e il freddo con qualche difesa
che ogni giorno mi mettevo addosso e mi toglievo, con grande fastidio.
Infine aveva notato che nel suo paese non c'era animale che non
dimostrasse odio istintivo per gli "yahoo", sfuggiti dai deboli e
ignorati dai forti. Per cui, anche ammesso che fossimo dotati di
ragione, gli sembrava impossibile vincere quel senso di repulsione che
tutti provavano nei nostri confronti, né d'altra parte capiva come
avessimo potuto addomesticarli per porli al nostro servizio. In ogni
caso, disse che non voleva discutere oltre di questa faccenda, perché
gli interessava molto di più sapere la mia storia, conoscere il paese
dove ero nato e le avventure della mia vita, fino al momento in cui
ero capitato in quel paese.
Lo rassicurai che avrei desiderato ardentemente di soddisfare ogni suo
desiderio, anche se avevo molti dubbi di riuscire a spiegare
compiutamente concetti di cui Suo Onore non aveva la più pallida idea,
perché non c'era niente di analogo in quella terra. Avrei in ogni caso
fatto del mio meglio, ricorrendo a delle similitudini e chiedendogli
aiuto quando avessi avuto bisogno di parole precise; aiuto che lui mi
promise senz'altro.
Dissi dunque che ero nato da un'onesta famiglia, in un'isola chiamata
Inghilterra, che era lontana dalla sua terra quanto il cammino che
poteva percorrere il più robusto dei suoi servi nel corso di un anno
solare; avevo imparato l'arte del medico il cui compito è quello di
curare le ferite e i malanni del corpo causati da incidenti o atti di
violenza. Il mio paese era governato da un uomo-femmina della nostra
razza che chiamavamo regina; da esso ero partito per accumulare una
certa ricchezza per mezzo della quale sarei vissuto con la famiglia al
mio ritorno. Nel mio ultimo viaggio avevo il comando della nave e di
un equipaggio di una cinquantina di "yahoo", molti dei quali erano
morti in viaggio, tanto che ero stato costretto ad assoldarne altri di
diversa nazionalità. La nostra nave era stata sul punto di affondare
un paio di volte, la prima a causa di una violenta tempesta, la
seconda perché aveva rischiato di fracassarsi sugli scogli.
A questo punto il padrone mi aveva interrotto per chiedermi come avevo
fatto a convincere degli stranieri, provenienti da diversi paesi, ad
avventurarsi in mare al mio servizio, dopo le perdite che avevo subito
e i rischi che avevo corso. Gli risposi che erano degli sciagurati
senza arte né parte, costretti ad abbandonare i loro paesi per la
miseria o per qualche delitto; alcuni erano stati rovinati dai
processi, altri avevano speso fino all'ultimo centesimo nel bere, in
baldracche, nel gioco; c'erano dei traditori e molti assassini, ladri,
avvelenatori, truffatori, spergiuri, masnadieri, falsari, stupratori e
sodomiti, disertori e transfughi in campo nemico, moltissimi evasi
dalle galere. Nessuno di loro sarebbe più ritornato in patria, dove lo
aspettava la forca o la prigione a vita, perciò erano costretti a
tirare avanti in paesi stranieri.
Durante questo mio resoconto, il padrone mi interruppe parecchie
volte. Infatti per descrivere molti dei crimini commessi da questa
accozzaglia apolide di marinai, ero stato costretto a ricorrere a giri
di parole, tanto è vero che ci vollero parecchi giorni di discussione
prima che potesse capirmi. Lui non riusciva a comprendere come e
perché la gente dovesse perseguire quei vizi. Cercai di chiarirgli la
faccenda, dandogli qualche idea del desiderio di potenza e di
ricchezza, degli effetti disastrosi che la lussuria, l'intemperanza,
la malvagità e l'invidia sono capaci di provocare, procedendo di volta
in volta con esempi ed ipotesi. Come uno che sia improvvisamente
colpito nell'immaginazione da una storia mai sentita prima, lui alzava
gli occhi pieni di stupore e di indignazione. Nella loro lingua non
esistevano parole per esprimere governo, guerra, legge, punizione ed
altri mille concetti; ma era un essere intelligentissimo, e a forza di
riflettere e di conversare, alla fine raggiunse una perfetta
conoscenza di quanto la natura umana è capace di fare dalle nostre
parti, per cui volle che gli fornissi ulteriori particolari su quella
terra chiamata Europa e sul mio paese in particolare.









5 - SU RICHIESTA DEL PADRONE, L'AUTORE LO INFORMA DELLE CONDIZIONI
DELL'INGHILTERRA. CAUSE DI GUERRA FRA I SOVRANI EUROPEI. L'AUTORE
COMINCIA A SPIEGARE LA COSTITUZIONE INGLESE.

Sappia il lettore che il seguente riassunto delle conversazioni che
ebbi con il mio padrone tocca, anche se per sommi capi, i punti più
importanti da noi discussi nel giro di un paio d'anni, poiché Suo
Onore desiderava tanti più chiarimenti quanto più progredivo nella
lingua "houyhnhnm". Gli descrissi meglio che potei le condizioni
dell'Europa parlando di commerci e di produzione, di arti e di scienze
e le risposte che davo alle sue domande, che prendevano spunto da vari
argomenti, fornivano materia inesauribile di conversazione. Cercherò
comunque di offrire il succo di quanto avemmo modo di dire sulla mia
patria, trattando gli argomenti con ordine e con assoluto rispetto del
vero, indipendentemente dal momento in cui i vari argomenti vennero
discussi. Il mio unico problema è di rendere con fedeltà e
imparzialità i ragionamenti del mio padrone, sia per mia incapacità,
sia per la difficoltà di tradurli nel nostro barbaro inglese.
Obbedendo a quanto mi aveva chiesto Suo Onore, gli esposi la
rivoluzione che aveva portato sul trono d'Inghilterra il principe di
Orange, la lunga guerra con la Francia intrapresa da quel sovrano e
proseguita con la regina che gli è succeduta, i suoi sviluppi fino ad
oggi con il concorso di tutte le grandi potenze della cristianità. Su
sua richiesta, calcolai che durante il corso di quella guerra erano
stati uccisi un milione circa di "yahoo", prese un centinaio di città
e colate a picco o date alle fiamme non meno di cinquecento navi.
Mi chiese quali fossero le cause che portano un paese a scendere in
guerra contro un altro; gliene elencai solo alcune: a volte è
l'ambizione di un principe che non si sente sazio delle terre e del
popolo che governa, altre è la corruzione di qualche ministro che
spinge il sovrano ad una guerra allo scopo di soffocare o di distrarre
il malcontento dei sudditi contro la pessima amministrazione Le
differenze di opinione sono costate milioni di vite umane: se, per
esempio la carne sia pane, o il pane carne, se il succo di un certo
frutto sia vino o sia sangue, se fischiare sia un vizio o un nobile
atto; se sia meglio baciare un legno o gettarlo sul fuoco; se il
colore più bello per un vestito sia il nero, il bianco, il rosso o il
grigio; se debba essere lungo o corto, largo o stretto, pulito o
sporco e mille altre ancora. Senza contare che le guerre causate da
divergenze di opinioni, soprattutto su cose di nessuna importanza,
sono quelle più micidiali e più lunghe.
A volte nasce una lite fra due sovrani per dividersi i possedimenti di
un terzo ai quali non hanno alcun diritto. Altre è un principe che
litiga con un altro, per paura che l'altro litighi con lui. Ora si
intraprende una guerra perché il nemico è troppo potente, ora perché
è troppo debole. Si dà il caso che i nostri vicini vogliano ciò che
noi possediamo, o abbiano loro le cose che a noi fanno gola; allora ci
azzuffiamo fino a che ci prendono le nostre cose o ci danno le loro.
Giusto pretesto di guerra è invadere un paese dopo che è stato
decimato da pestilenze e carestie, dilaniato da lotte intestine.
Altrettanto giusto è muovere guerra al nostro alleato vicino, quando
questi possieda una città o una regione che arrotonderebbe e farebbe
compatti i nostri territori. Se un sovrano invia il proprio esercito
in un paese povero e sprovveduto, è perfettamente legale che si mandi
a morte almeno una metà degli abitanti, riducendo gli altri in stato
di schiavitù, per portare loro la fiaccola della civiltà e illuminare
le tenebre della barbarie. Se un sovrano chiede l'aiuto di un altro
per proteggersi contro un'invasione, la più regale, onorevole e
frequente forma di aiuto consiste nell'accaparrarsi le terre che
abbiamo difeso dall'invasione uccidendo, gettando in prigione o in
esilio il sovrano che dovevamo liberare. Le parentele di
consanguineità o di matrimonio sono cause sufficienti di guerra, e
quanto più sono strette le parentele fra sovrani, tanto più sono
disposti a litigare. I paesi poveri sono affamati, quelli ricchi sono
prepotenti e fame e orgoglio sono sempre in lite. E' per queste
ragioni che il mestiere più nobile è quello del soldato; un soldato
infatti è uno "yahoo" pagato per uccidere a sangue freddo quanti più
simili gli è possibile, senza che questi gli abbiano fatto nulla.
Ci sono in Europa dei re straccioni i quali, non potendo intraprendere
guerre coi loro mezzi, noleggiano i loro soldati alle nazioni più
ricche, un tanto al giorno per uomo; tre quarti del ricavato lo
intascano e questo costituisce il grosso delle loro rendite. Di questi
sovrani ce ne sono molti nell'Europa del nord.
"Le tue spiegazioni sulla guerra," mi disse il padrone, "sono
l'illustrazione più efficace della vostra pretesa ragione e per
fortuna è più la vergogna che vi tirate addosso del danno che siete in
grado di provocare. Infatti la natura ha fatto in modo da evitare che
vi facciate male sul serio, poiché con quella vostra bocca piatta che
si apre in mezzo al viso, non siete in grado di mordervi a vicenda, se
uno dei due non lo consente. E poi avete delle unghie così tenere e
delicate nelle zampe anteriori e posteriori, che basterebbe uno solo
dei nostri "yahoo" a mettere in fuga una dozzina dei vostri. Credo che
quando hai calcolato il numero dei morti in guerra, tu mi abbia detto
una cosa che non è."
Non potei fare altro che scuotere la testa e sorridere della sua
ingenuità, e poiché ho una certa dimestichezza con l'arte della guerra
gli descrissi cannoni, colubrine, moschetti, carabine, pistole,
pallottole, polvere da sparo, spade, baionette, assedi, attacchi,
ritirate, mine, contromine, bombardamenti, battaglie navali, vascelli
colati a picco con mille uomini, ventimila morti per parte ; gemiti
dei morenti e membra che volano per aria e fumo, frastuono,
confusione; soldati schiacciati dagli zoccoli dei cavalli e poi fughe,
inseguimenti, vittorie; campi disseminati di cadaveri lasciati in
pasto ai cani, ai lupi, agli uccelli da preda e saccheggi, rapine
stupri, incendi e distruzioni. E per far risplendere il valore dei
miei compatrioti, gli dissi che li avevo visti, con questi miei occhi,
far saltare in aria cento nemici alla volta durante un assedio e
altrettanti in un combattimento navale e di aver vistoo quei corpi
senza vita ricadere a brandelli dal cielo, fra gli applausi degli
spettatori.
Stavo per dargli altri particolari, quando il padrone mi ordinò di
tacere e mi disse che, chiunque aveva familiarità con la natura degli
"yahoo", li riteneva degli esseri così abbietti, da essere capaci di
compiere le azioni che gli avevo descritto, se niente niente la loro
forza e la loro astuzia fossero state pari alla loro malvagità. Ma se
da un lato le mie parole gli avevano riattizzato il naturale disgusto
che nutriva per quegli esseri, dall'altro gli avevano provocato un
vero sconvolgimento dell'animo, mai provato prima. Forse una volta che
si fosse abituato ad ascoltare quelle orrende parole, le avrebbe
accolte con minore ripugnanza. Perché, per quanto provasse odio per
gli "yahoo" del suo paese, non li odiava per questo più di un "gnnayh"
(un uccello da preda) per la sua crudeltà o di un sasso aguzzo che gli
avesse scheggiato lo zoccolo. Eppure, quando una creatura che pretende
di essere razionale, è capace di simili azioni abominevoli, c'è da
temere che la corruzione della ragione sia peggiore della brutalità in
se stessa. Pensava infatti che invece della ragione, fossimo dotati
soltanto di qualche altra qualità capace di aumentare la nostra
predisposizione al vizio, così come uno specchio d'acqua mossa
riflette di un corpo mal fatto l'immagine non solo ingigantita, ma
ancora più distorta.
Di guerra ne aveva dunque sentito abbastanza, sia in questa che in
altre discussioni; ma c'era un altro argomento che gli era rimasto
poco chiaro. Aveva sentito da me che alcuni membri dell'equipaggio
avevano abbandonato la loro terra perché erano stati rovinati dalla
legge; il significato di questa parola gli era stato già spiegato, ma
allora non riusciva a capire come la legge, il cui fine è di rendere
giustizia a ognuno, potesse essere anche la sua rovina. Per cui mi
pregò di spiegargli esattamente cosa intendevo con la parola legge,
visto che la natura e la ragione erano delle guide sicure per quanti,
come noi, ci ritenevamo esseri razionali, capaci di indicare il lecito
e l'illecito.
Risposi a Suo Onore che la giurisprudenza era una scienza di cui
sapevo ben poco, a parte l'esperienza negativa che avevo avuto, quando
mi ero rivolto a un avvocato per certe ingiustizie subite. In ogni
caso avrei cercato di soddisfare i suoi desideri.
Gli dissi che nel nostro paese c'erano delle persone istruite fin da
giovani nell'arte di dimostrare, attraverso la moltiplicazione delle
parole inutili, che il bianco è nero o il nero è bianco, a seconda del
desiderio di chi li paga: tutti gli altri sono al loro confronto degli
schiavi.
Facciamo un esempio: se il mio vicino ha messo gli occhi sulla mia
mucca, paga un avvocato perché dimostri che ha diritto di
impossessarsene. A questo punto non mi resta che pagare un altro
avvocato per difendere i miei diritti, tanto più che è contro ogni
principio di legge che un individuo possa difendersi da solo. Ora,
proprio io, che sono il vero ppossessore della mucca, mi trovo in una
situazione svantaggiosa per due motivi: per prima cosa il mio
avvocato, abituato fin da quando era nella culla a difendere il falso,
si trova come un pesce fuor d'acqua a dover difendere il vero, un
compito innaturale per lui e che affronta in modo goffo e di mala
voglia. In secondo luogo dovrà procedere con la massima cautela per
non incorrere nelle ire del giudice e nel disprezzo dei colleghi, come
uno che abbia svilito la professione. Non mi restano quindi che due
modi per non perdere la mucca: il primo è di passare sottobanco
all'avvocato del mio avversario una doppia parcella; lui allora potrà
tradire il suo cliente facendo capire che ha la giustizia dalla sua
parte. Oppure il mio avvocato dovrà fare apparire la flagrante
ingiustizia della mia pretesa, riconoscendo che la mucca appartiene al
mio avversario; e se ci saprà fare, si guadagnerà indubbiamente il
favore della corte.
Ora, Suo Onore deve sapere che questi giudici sono persone incaricate
di risolvere le controversie sulla proprietà o di giudicare i
criminali; essi sono scelti fra quegli avvocati, una volta abili, ma
ormai diventati vecchi e fannulloni, che, abituati per tutta la vita a
andare contro la verità e la giustizia, sono fatalmente portati a
favorire la frode, lo spergiuro e la prepotenza. Ne ho conosciuti
alcuni che hanno rifiutato laute offerte da chi aveva la giustizia
dalla sua parte, piuttosto che offendere la corporazione con un'azione
contraria alla natura del loro ufficio.
Fra questi avvocati vige una massima, secondo la quale quanto è stato
fatto in precedenza deve essere preso come regola per i casi futuri;
per questo raccolgono tutte le sentenze emesse contro il comune senso
della giustizia e la ragione umana. Queste citazioni, che vanno sotto
il nome di "precedenti", valgono come veri e propri principi di
autorità per giustificare le opinioni più inique, principi ai quali i
giudici si attengono inesorabilmente.
Nella difesa gli avvocati evitano accuratamente di entrare nel merito,
soffermandosi invece con tirate insolenti, iraconde e noiose su
circostanze che con il caso non hanno nessun rapporto. Ritorniamo
all'esempio di prima: loro non si sognano neppure di accertare a quale
titolo il mio avversario pretenda di avere la mucca; invece vogliono
sapere se la mucca è rossa o nera, se ha le corna lunghe o corte, se
il campo dove pascola è tondo o quadrato, se è munta nella stalla o
all'aperto, a quali malattie è soggetta e così via. Dopo di che
consultano i "precedenti", aggiornano la causa a altre sedute e dopo
dieci, venti o trenta anni emettono la sentenza.
E' interessante notare che questa corporazione si è creata un proprio
gergo incomprensibile ai comuni mortali, nel quale redige le proprie
leggi, che cerca in tutti i modi di moltiplicare, fino al punto che il
vero è indistinguibile dal falso, il giusto dall'ingiusto, e che
magari ci vogliono trenta anni per decidere se il campo avuto in
eredità da sei generazioni appartiene a me o a uno straniero lontano
trecento miglia.
Nei processi per delitti contro lo stato si adotta un procedimento più
rapido e lodevole: il giudice manda a sentire quel che ne pensa chi
comanda e poi spedisce alla forca o mette in libertà l'accusato, col
rispetto formale della legge.
A questo punto il padrone mi interruppe osservando che, se questi
avvocati erano uomini tanto abili e ingegnosi come li avevo descritti,
era un peccato che invece di fare quella professione non insegnassero
agli altri la loro saggezza e la loro cultura. Ma dovetti assicurarlo
che, al di fuori della loro professione commerciale, erano gli esseri
più stupidi ed ignoranti che esistano, i conversatori più vuoti,
nemici giurati della cultura e del sapere, sempre disposti a tradire
la ragione umana nella loro professione, come in ogni altra occasione.















6 - CONTINUA LA DESCRIZIONE DELL'INGHILTERRA SOTTO LA REGINA ANNA. LA
FIGURA DEL PRIMO MINISTRO EUROPEO.

Il cavallo mio padrone non arrivava a concepire per quali motivi
questa genìa di avvocati si fosse messa ad intrigare e a imbrogliare a
quel modo le carte, fino a costituire una vera e propria associazione
a favore dell'ingiustizia, con l'unico scopo di danneggiare i propri
simili; né aveva la minima idea di cosa volessi dire quando parlavo di
"guadagno". A questo punto si presentò il problema spinosissimo di
spiegargli l'uso del denaro, la materia di cui era fatto, il valore
dei metalli e quindi che quando uno "yahoo" aveva fatto incetta di una
buona scorta di questa preziosa sostanza, era in grado di comprarsi
qualsiasi cosa, dai vestiti più costosi alle case più lussuose, dai
vasti appezzamenti di terreno a tavole imbandite con i cibi più
succulenti, oltre a poter scegliere le femmine più belle. E poiché il
denaro era l'unico dio in grado di concedere tutte queste grazie, i
nostri "yahoo" erano convinti di non averne mai abbastanza, sia che
volessero sperperarlo o accumularlo, a seconda della loro inclinazione
naturale all'avarizia o alla prodigalità. Da noi il ricco si gode i
frutti della fatica dei poveri, i quali stanno al primo nella
proporzione di mille a uno; anzi la quasi totalità della gente tira
avanti fra gli stenti, faticando dalla mattina alla sera per mantenere
nel lusso quel piccolo numero di fortunati.
Per chiarire questi concetti mi dilungai abbastanza sull'argomento e
su altri particolari collaterali, ma il cavallo mi interrompeva
continuamente per avere lumi, poiché lui partiva dal presupposto che
tutti gli animali avessero diritto alla loro parte di prodotti della
terra, specialmente quelli che dominavano gli altri; per cui volle
sapere cosa fossero questi cibi tanto costosi e perché ne fossimo così
ghiotti. Gli presentai un elenco di ricette così come mi venivano in
mente, spiegandogli il modo di preparare i vari piatti con ingredienti
che le nostre navi ci portavano dalle terre più lontane e quindi
passai ai vini, alle salse e a altre infinite leccornie. Lo informai
che per preparare una degna colazione per certe nostre femmine "yahoo"
e per trovare il vasellame adatto su cui servirla, bisognava
percorrere non meno di tre volte il giro della terra. A lui il nostro
sembrò un paese sciagurato, visto che non produceva cibo sufficiente
per gli abitanti; e soprattutto era sorpreso che la mancanza di acqua
potabile in un territorio così grande ci costringeva a procurarcela
oltre il mare con le nostre navi.
Gli risposi che la mia dolce patria, l'Inghilterra, produceva cibo tre
volte superiore al fabbisogno dei suoi abitanti e lo stesso poteva
dirsi per vini e liquori, estratti da grani o da vari frutti, così
come per altri generi di prima necessità. Tuttavia gli dissi che
esportavamo in altri paesi la maggior parte dei prodotti primari, per
avere in cambio altre cose che diffondevano e accrescevano sempre più
le malattie, il vizio, la follia, e tutto questo allo scopo di
alimentare il lusso e l'intemperanza dei maschi e la vanità delle
femmine. Per questo molta gente era costretta a mantenersi chiedendo
l'elemosina, depredando, rubando, imbrogliando, ruffianeggiando,
spergiurando, adulando, subornando, falsando, giocando, mentendo,
alterando, lusingando, prepotenteggiando, vendendo il voto,
scribacchiando, astrologando, avvelenando, puttaneggiando,
prezioseggiando, diffamando, facendo i liberi pensatori e così di
seguito, sebbene mi fosse assai difficile fargli capire il significato
di ogni termine.
Poi gli dissi che importavamo vino dall'estero non per mancanza di
acqua, ma perché ci rendeva allegri, intorpidiva i nostri sensi, ci
liberava dalla malinconia, faceva nascere nel cervello le fantasie più
strane e bizzarre, sollevava gii spiriti, cacciava i timori, zittiva
la ragione per un certo tempo, ci toglieva l'uso delle membra
sprofondandoci nel sonno, anche se poi ci risvegliavamo in uno stato
di malessere e di prostrazione, perché l'abuso di questa bevanda
genera malattie e ci rende la vita corta e piena di acciacchi.
Proprio per questo la maggior parte della nostra gente si arrabbatta e
tira avanti cercando prodotti voluttuari per i ricchi e necessità
primarie per i propri simili. Quando per esempio sono ben vestito e
calzato nella mia terra, mi porto indosso il lavoro di un centinaio di
operai e da un numero ancora maggiore sono prodotti i mobili di casa
mia; per vestire mia moglie poi, ci vuole il lavoro di un numero
cinque volte maggiore.
Poi cominciai a parlargli di tutta un'altra banda di persone che si
guadagnavano da vivere curando i malati, prendendo spunto per questo
nuovo argomento dall'accenno che avevo fatto più volte ai marinai che
si erano ammalati nella mia nave. Non nascondo le enormi difficoltà
che incontrai per farlo entrare in questo nuovo argomento. Lui si
rendeva perfettamente conto che uno "houyhnhnm" potesse perdere le
forze a pochi giorni dalla morte o ferirsi gravemente in qualche
incidente; ma gli pareva impossibile che la natura, che concepisce
ogni suo atto in maniera perfetta, potesse permettere che malattie di
ogni tipo si insinuassero nei nostri corpi e per questo voleva
conoscere le ragioni d tanta sciagura. Gli spiegai che ci nutrivamo di
mille cose che provocavano effetti contrastanti, che mangiavamo quando
non avevamo fame, che bevevamo senza avere sete, che magari stavamo in
piedi tutta la notte a bere liquori fortissimi senza mandare giù un
solo boccone: questa condotta d vita ci disponeva alla pigrizia,
infiammava i visceri accelerando o bloccando la digestione. Inoltre
certe femmine "yahoo" contraevano una malattia capace di corrodere
sino al midollo le ossa di quanti avevano contatti con loro. Questa ed
altre malattie venivano trasmesse di padre in figlio, così che c'era
un gran numero di bambini che venivano mondo portandosi dietro
malattie complicatissime. Gli dissi che sarebbe stato impossibile
fargli un elenco delle infermità che affliggono il corpo umano, in
ogni suo membro o giuntura e che sono non meno di cinque o seicento,
che per farla breve ogni sua parte interna ed esterna aveva la
malattia corrispondente. Contro queste malattie poteva ricorrere ad
una categoria di persone istruite per curare, o far finta di curare, i
malati. E poiché sono un po' addentro al mestiere dissi a Suo Onore
che speravo di fargli cosa gradita spiegandogli il metodo segreto
della loro cura. I medici partono dal presupposto che tutti i mali
derivano dalla indigestione, per cui la migliore cura è un'evacuazione
potente che può avere luogo sia attraverso l'orifizio naturale, sia
dalla bocca. Per prima cosa, dunque, fanno una pozione con erbe,
minerali, resine, olii, conchiglie, sali, succhi, alghe, escrementi,
corteccia, rettili, rospi, ranocchi, ragni, ossa e carne di cadavere e
di uccelli, bestie e pesci; si tratta della mistura più ripugnante e
schifosa che si possa immaginare, capace di sconvolgere all'istante lo
stomaco; questo infatti lo chiamano un emetico. Oppure aggiungono alla
pozione altri ingredienti velenosi pescati nello stesso fondo di
farmacia e fanno introdurre questa medicina ugualmente disgustosa e
repugnante per le viscere, dall'orifizio superiore o inferiore, a
seconda del pallino del medico; il composto rilassa le budella
tirandone fuori il contenuto, e questo è quello che loro chiamano
purga o clistere. I medici sostengono che l'orifizio superiore
anteriore serve all'intromissione di solidi e di liquidi, mentre
quello inferiore posteriore è adibito all'evacuazione; ma poiché
questi grandi ingegni hanno pensato con il massimo acume che durante
le malattie la natura sia estromessa dalla sua sede naturale, per
rimettercela pensano di sottoporla ad un trattamento opposto,
scambiando le funzioni dei due buchi e cioè introducendo solidi e
liquidi per via anale e facendo evacuare dalla bocca.
Oltre alle malattie reali ne abbiamo anche di immaginarie, per le
quali i medici hanno inventato cure altrettanto immaginarie; mali e
cure di questo genere hanno nomi vari e sono diffusissimi tra le
femmine "yahoo".
Ma la qualità più grande di questa banda di medici è la loro abilità
nel fare pronostici; quando una malattia seria si aggrava loro sono
favorevoli a predire la morte, una soluzione che hanno sempre a
portata di mano, cosa che non avviene con la guarigione. Se per caso
si presentano segni di miglioramento, dopo che loro hanno emesso il
verdetto, piuttosto che passare per falsi profeti, sono capacissimi di
dimostrare alla gente la loro abilità professionale aumentando la dose
per questo scopo. In questo modo sanno rendersi utili a mogli e mariti
stanchi l'uno dell'altro, ai primogeniti, ai ministri e molto spesso
ai principi.
Avevo già avuto occasione di parlare al mio padrone dei caratteri
generali del nostro governo e in particolare della nostra eccellente
costituzione che suscitava la meraviglia e l'invidia del mondo intero.
Ma poiché avevo nominato un ministro, lui volle sapere poco dopo a che
genere di "yahoo" mi riferivo.
Gli dissi che un primo ministro è un essere che non conosce gioie o
dolori, amore o odio, rabbia o pietà, che è capace di appassionarsi
solo per la brama di ricchezze, potere e titoli. Una tale persona sa
usare la lingua per ogni cosa, meno che per esprimere ciò che pensa.
Non dice mai la verità o se la dice la fa passare per una menzogna,
così come spaccia per vere le bugie più incredibili. Quelli alle cui
spalle dice male sono senz'altro prossimi a qualche promozione, mentre
se dice bene di te, agli altri o in tua presenza, puoi stare sicuro
che sei perduto. Una sua promessa, soprattutto se accompagnata da
giuramento, è un pessimo segno e chi ha un briciolo di senno batte in
ritirata e abbandona ogni speranza.
Un uomo può arrivare a essere ministro in tre modi: il primo consiste
nel saper valorizzare con abilità la moglie, la figlia o la sorella;
il secondo nel tradire o nel soppiantare il predecessore; il terzo nel
dimostrare durante i pubblici dibattiti il massimo dello zelo contro
la corruzione della corte.
Un principe scaltro saprà sempre scegliere quelli che hanno seguito
quest'ultima strada, perché questi zelanti si dimostrano sempre i più
ossequiosi e servizievoli nel soddisfare i desideri dei loro padroni.
Una volta che hanno mano libera su tutti gli impieghi, questi ministri
si mantengono al potere corrompendo la maggioranza del senato o del
parlamento, finché, con una legge chiamata Atto di Immunità (di cui
gli descrissi il contenuto), si sottraggono ad ogni resa dei conti e
si ritirano a vita privata, sazi delle spoglie del paese.
La residenza di un primo ministro è un vero e proprio collegio dove si
educano gli alunni nel suo stesso mestiere: paggi, servitori, portieri
a furia di imitare il padrone diventano loro stessi ministri nei
rispettivi settori ed imparano alla perfezione le tre arti
fondamentali dell'insolenza, della menzogna e della corruzione. Come
il loro maestro, hanno la loro piccola corte stipendiata da persone
altolocate e non è raro che riescano ad imporsi, con raggiri e la
massima sfrontatezza, quali degni successori del loro signore.
Quanto a quest'ultimo, in genere è manovrato da una bagascia in
pensione o dal lacchè favorito, che diventano il tramite per ottenere
favori, tanto che, in ultima analisi, possono essere considerati a
buon diritto i veri governanti del regno.
Un giorno il padrone, che mi aveva sentito parlare di nobiltà, volle
farmi un complimento che in realtà non meritavo affatto. Era sicuro
che fossi il rampollo di un qualche nobile casato, perché ero troppo
differente dagli "yahoo" del suo paese nel colore della pelle, nelle
membra e nella conformazione generale del corpo, anche se non si
poteva fare un paragone con la loro forza ed agilità. Ma queste ultime
deficienze erano probabilmente da imputare al mio diverso stile di
vita; e poi, oltre alla facoltà di parola, ero dotato di qualche
sprazzo di ragione che mi aveva fatto passare per un prodigio presso i
suoi conoscenti.
Mi fece osservare che nella sua razza il bianco, il grigio e il sauro
non avevano membra proporzionate come il baio, il nero e il grigio
pomellato, né erano dotati dello stesso grado di intelligenza, né
della capacità di svilupparla; di conseguenza rimanevano sempre dei
servitori, senza aspirare ad accoppiarsi con cavalli che non fossero
della loro condizione, perché un atto del genere sarebbe sembrato
nella sua terra mostruoso e contro natura.
Rivolsi al padrone i miei più umili ringraziamenti per l'ottima
opinione che si era fatta di me, ma gli assicurai che discendevo da
una famiglia umile e onesta che era stata appena in grado di darmi
un'educazione discreta a furia di sacrifici. Quanto alla nobiltà del
nostro paese, era assai differente da come lui la concepiva. I nostri
giovani nobilotti sono allevati fin da piccoli nel lusso e nell'ozio;
con l'adolescenza cominciano a dissipare il loro vigore con femmine
viziose e contraggono malattie repellenti. Quando il loro capitale è
agli sgoccioli, sposano una donna di bassa condizione, brutta,
malaticcia, solo perché ha qualche soldo, e non importa se la
disprezzano e la odiano. Da questi matrimoni nascono figli scrofolosi,
deformi e rachitici; la stessa famiglia è destinata a estinguersi nel
breve giro di tre generazioni, a meno che la moglie si dia da fare per
continuare la razza, scegliendo il padre fra qualche servitore. I veri
segni di sangue blu sono corpo malaticcio, aspetto esangue, colorito
giallognolo; mentre un nobile robusto e sanguigno passa subito agli
occhi di tutti per il figlio di un mozzo di stalla o di un cocchiere.
Alle tare del corpo corrispondono quelle della mente, che è un
miscuglio di umor nero, torpore, ignoranza, capriccio, sensualità e
superbia.
Nessuna legge può essere fatta, modificata o abolita senza il consenso
di questa classe illustre di nobili, i quali hanno il potere di
decidere senza appello di tutte le nostre proprietà.




7 - IL GRANDE AMOR PATRIO DELL'AUTORE. OSSERVAZIONI DEL CAVALLO, SUO
PADRONE, SULLA COSTITUZIONE E SUL GOVERNO INGLESE. PARALLELI E
CONFRONTI. ALCUNE RIFLESSIONI DEL CAVALLO SULLA NATURA UMANA.

Il lettore si meraviglierà di certo nel sentirmi parlare così
francamente dei miei simili ad una razza di mortali, i quali avevano
già una pessima opinione del genere umano, per avere colto la
somiglianza che c'era fra me e gli "yahoo".
Eppure devo confessare che le tante virtù di quegli eccellenti
quadrupedi, confrontate con le corruzioni umane, mi avevano aperto gli
occhi e il pensiero così tanto che ormai cominciavo a guardare sotto
una luce diversa le azioni e le passioni umane. Sapevo ormai che
l'onore dei miei simili non meritava tanti riguardi, tanto più che era
difficile sostenerne il prestigio davanti all'acuto giudizio del mio
padrone, capace ogni giorno di farmi scoprire in me stesso mille
magagne di cui non avevo avuto prima la più pallida idea e che da noi
non verrebbero considerate nemmeno fra le debolezze umane.
E poi, se devo essere franco con il lettore, confesso che c'era una
ragione anche più profonda in quel mio rappresentare le cose in
maniera cruda, per come vanno realmente. Mi trovavo in questa terra da
meno di un anno, e già provavo un amore ed una venerazione tale per i
suoi abitanti, che ero fermamente deciso a non ritornare fra gli
uomini, bensì a passare il resto della vita fra questi ammirabili
"houyhnhnm", a contemplare e a praticare ogni virtù senza avere
incitamenti né esempi viziosi. Purtroppo il fato, mio eterno nemico,
volle sottrarmi a questa felice esperienza. Oggi mi conforta pensare
che ho sempre cercato di attenuare le colpe e i difetti dei miei
simili, pur avendo a che fare con un esaminatore avveduto,
prospettando le cose sotto la luce più favorevole. E dopo tutto, chi
non avrebbe peccato di parzialità verso la propria terra natìa?
Tutto ciò che ho raccontato fu materia di discussione con il padrone
per gran parte del tempo in cui ebbi l'onore di essere al suo
servizio, anche se ho dovuto sintetizzare non poco per non dilungarmi
eccessivamente.
Avevo ormai risposto a tutte le sue domande e mi sembrava di avere
soddisfatto completamente la sua curiosità, quando un mattino di
buon'ora mi mandò a chiamare facendomi sedere accanto a lui (un onore
che non mi aveva mai concesso fino a quel momento); poi cominciò
dicendo che aveva soppesato attentamente il mio racconto, sia per ciò
che riguardava la mia persona che la mia patria; ci considerava
senz'altro una specie animale alla quale era toccata in sorte, chissà
mai per quale caso fortuito, qualche briciolo di ragione che,
tuttavia, impiegavamo solo per rendere più perniciosa la nostra
naturale inclinazione al male e per acquisire nuove forme di
corruzione dalle quali eravamo esenti per natura. Così facendo,
avevamo distrutto anche quelle poche qualità positive che avevamo
avuto in dote, tutti tesi come eravamo a centuplicare i bisogni
originali e a consumare la vita nell'inutile sforzo di soddisfarli con
le nostre invenzioni. Quanto a me, gli sembrava ormai chiaro che non
avevo né la forza né l'agilità di uno "yahoo", camminavo malfermo
sulle zampe posteriori, sembravo aver fatto di tutto per neutralizzare
gli artigli, inutili alla mia difesa, e per togliermi il pelame dal
muso, che pure era un ottimo riparo dal freddo e dal caldo. Infine,
non sapevo né correre velocemente, né arrampicarmi con agilità sugli
alberi come facevano gli "yahoo" miei fratelli (come volle chiamarli)
di quella terra.
Secondo lui, i difetti delle nostre leggi e del governo derivavano
dalla grave carenza di ragione e, di conseguenza, di virtù; perché la
ragione è di per sé sufficiente a guidare una creatura razionale: ma
purtroppo, da quanto gli avevo raccontato della nostra gente, capiva
che eravamo tutt'altro che ragionevoli, anche se si era accorto che
avevo nascosto molti particolari per non svilire del tutto i miei
compatrioti, e che spesso avevo detto cose che non sono.
Aveva la conferma di questa sua opinione nel fatto che, mentre
rassomigliavo in ogni parte del corpo agli "yahoo", ad eccezione della
forza, dell'agilità, della lunghezza delle unghie e di altri caratteri
non certo prodotti dalla natura, che pure costituivano uno svantaggio
per la mia difesa, questa somiglianza era altrettanto netta per ciò
che riguarda la nostra mentalità, così come aveva potuto capire da
quanto gli avevo detto sul nostro modo di vivere, sui notri costumi e
sulle nostre azioni. Era risaputo che gli "yahoo" si odiavano a
vicenda come nessun'altra specie animale; la ragione di questo
comportamento sta nel fatto che essi sono in grado di sentire la
ripugnanza che suscita la loro razza negli altri meno che in se
stessi. Per questo lui era convinto che ci coprissimo il corpo con
l'unico scopo di nascondere agli occhi degli altri la nostra
deformità, altrimenti insopportabile. Ora si accorgeva che non era
così e che le liti furibonde fra gli esseri abominevoli della sua
terra erano scatenate dalle stesse cause che provocavano le nostre.
"Infatti," aggiunse, "se getti a un branco di cinque "yahoo" tanto
cibo quanto basterebbe per cinquanta di quei mostri, invece di
mettersi tranquillamente a divorare il loro pasto, si azzuffano
ferocemente perché ognuno vorrebbe averlo tutto per sé. Infatti,
quando venivano fatti mangiare all'aperto, ci voleva sempre un
guardiano alle loro costole e quando erano nella stalla dovevano
essere legati uno lontano dall'altro."
Continuò dicendo che, se una vacca moriva per vecchiaia o per qualche
incidente, prima ancora che uno "houyhnhnmn" potesse metterla al
sicuro dai suoi "yahoo", scendevano a branchi dal vicinato per
agguantarla e si gettavano in una orribile mischia, facendosi con gli
artigli delle ferite spaventose, sebbene difficilmente fossero in
grado di uccidersi, non avendo a disposizione quegli strumenti di
morte che sono una nostra esclusiva invenzione. Altre volte erano
branchi di "yahoo" di diversi luoghi che ingaggiavano zuffe simili
senza un apparente motivo; quelli di una località si mettevano a
spiare gli altri per coglierli di sorpresa. Ma se l'impresa falliva,
tornavano ai loro covili e, per mancanza di un nemico esterno,
ingaggiavano fra di loro quella che definirei una guerra civile.
Mi raccontò inoltre che in certi campi si potevano trovare dei
ciottoli splendenti di vari colori, di cui gli "yahoo" andavano matti.
Come spesso capita, queste pietre erano incassate nel terreno e allora
gli "yahoo" erano capaci di scavare con le unghie per giorni e giorni,
finché riuscivano a estrarle e a nasconderle a mucchi nelle loro tane,
guardandosi di sbieco, per paura che i loro compagni scoprissero
l'ubicazione del loro tesoro. Il mio padrone non era mai riuscito a
scoprire la ragione di questa loro brama maniaca né se queste pietre
servissero a qualche cosa per gli "yahoo", ma ora era convinto che
corrispondevano a quella avarizia umana che gli avevo descritto. Un
giorno infatti aveva provato a togliere un mucchio di questi ciottoli
dal luogo dove erano stati nascosti da uno "yahoo"; quel sordido
animale, che aveva perduto il tesoro, a forza di ululare attirò sul
posto l'intero branco, poi si mise a urlare come un disperato e a
gettarsi sui suoi compagni prendendoli a morsi e unghiate, quindi
cominciò a struggersi, a smettere di mangiare e di lavorare, finché il
mio padrone aveva ordinato ad un servo di rimettere le pietre nello
stesso buco, nascondendole come prima. Appena lo "yahoo" le ebbe
ritrovate, ritornò ad essere come prima, pieno di forze e di
buonumore, ma si mise subito a spostarle in un nascondiglio più sicuro
e da allora in poi diventò una bestia molto docile.
Il cavallo mi confermò poi un'osservazione che mi era già capitato di
fare e che cioè le zuffe più violente fra questi animali avvenivano
proprio in quei campi dove si trovavano ciottoli lucidi, specie per le
continue incursioni di "yahoo" provenienti dai posti vicini.
Capitava spesso che, mentre due "yahoo" si litigavano una di queste
pietre, arrivasse un terzo il quale, approfittando del momento, si
portava via il ciottolo; il padrone vedeva una certa affinità fra
questo e i nostri processi. Pensai bene di non deluderlo, almeno per
salvarci la faccia, perché la soluzione da lui presentata era molto
più giusta di tante sentenze dei nostri tribunali. In fondo, in quel
caso, i due pretendenti non perdono altro al di là della pietra per
cui si combattono, mentre le nostre corti di giustizia non portano a
soluzione una causa prima di avere spogliato i contendenti.
Continuando nella sua descrizione, il padrone mi disse che niente
rendeva schifosi questi animali, quanto la loro voracità insaziabile,
capace di divorare tutto senza distinzione, erbe, radici, bacche,
carne in decomposizione e magari tutto insieme; inoltre la loro natura
li portava a gustare con maggiore avidità tutto quello che riuscivano
a rapinare lontano piuttosto che quello che trovavano nei covili già
pronto per loro. Se catturavano prede spropositate, continuavano a
ingozzarsi fino al punto di scoppiare, poi si mettevano a rodere certe
radici che avevano il potere di farli evacuare abbondantemente.
Ma c'era un'altra radice, succosissima, di cui andavano matti gli
"yahoo" e che si mettevano a succhiare avidamente; piuttosto rara e
difficile da dissotterrare, produceva gli stessi effetti che il vino
ha nell'uomo: ora li spingeva ad abbracciarsi a vicenda, ora a
sbranarsi ed a urlare, a sghignazzare, a chiacchierare di continuo, a
barcollare qua e là finché incespicavano e cadevano addormentandosi
per terra come ghiri.
Ebbi modo di osservare che in questa terra gli "yahoo" sono gli unici
animali che si ammalano, per quanto più raramente dei cavalli dalle
nostre parti; e si ammalano non per il cattivo trattamento, ma
unicamente per la sporcizia e l'ingordigia. Nella loro lingua queste
malattie vengono classificate sotto una denominazione unica derivata
dal nome stesso di quelle bestie: "hnea yahoo" o "male dello yahoo" e
viene curato facendo loro ingoiare un miscuglio dei loro escrementi
solidi e liquidi. I risultati sono, come ho potuto vedere, eccellenti,
e pertanto raccomando caldamente questa terapia ai miei compatrioti,
per il bene di tutti, come rimedio specifico dei malanni da
indigestione.
Per quanto riguarda la cultura, il governo della cosa pubb]ica, le
arti, le industrie ed simili attività, il padrone ammise che non
esisteva somiglianza fra gli "yahoo" di quella terra e noi, anche se
si era soffermato a riflettere soprattutto sulle analogie di carattere
naturale. Eppure aveva sentito qualche "houyhnhnm" più curioso e
attento degli altri parlare di certi branchi che avevano per capo uno
"yahoo", così come i cervi dei parchi seguono uno che li guida, e che
era sempre quello più deforme, malvagio e attaccabrighe degli altri.
Questo capomandria era sempre seguito da un favorito, a lui molto
simile, che aveva il compito di leccargli i piedi e il deretano e di
portargli al covile le femmine "yahoo"; in compenso di questi servigi
riceveva qualche brandello di carne d'asino. Odiato da tutto il
branco, questo favorito stava sempre attaccato alle costole del capo e
continuava nei suoi uffici, finché veniva rimpiazzato da uno ancora
più ripugnante. Nel momento in cui cadeva in disgrazia, si formava un
vero e proprio corteo degli "yahoo" della zona, maschi e femmine,
giovani e vecchi, che, con il successore in testa, si precipitava su
di lui come un solo uomo e lo ricopriva di escrementi dalla testa ai
piedi. A questo punto il padrone lasciò a me decidere fino a che punto
questo esempio potesse essere calzante per corti, favoriti e ministri
dei nostri paesi.
Non raccolsi questa insinuazione maligna che degradava l'intelletto
umano al di sotto dell'istintiva sagacia di un bracco, che riconosce e
segue sempre il latrato del cane più intelligente della muta.
Il padrone mi disse poi che gli "yahoo" avevano delle caratteristiche
particolari di cui non avevo fatto alcun cenno, o quasi, quando gli
avevo descritto il genere umano. Come tutti gli altri animali, gli
"yahoo" avevano le femmine in comune, con la sola differenza che la
femmina "yahoo" continuava ad accoppiarsi anche in stato di
gravidanza; inoltre i maschi si azzuffavano con le femmine con la
stessa ferocia con cui si combattono i maschi tra di loro: due
abitudini che dimostrano un tale grado di abiezione, mai raggiunta da
nessun altro genere di animali.
Un'altro aspetto degli "yahoo" che non finiva mai di stupirlo, era il
loro indulgere alla sporcizia e all'oscenità, caratteristiche che li
distinguevano da tutti gli altri animali, portati naturalmente alla
pulizia. Non fui in grado di controbattere le prime accuse, perché non
avevo argomenti per difendere la mia razza; altrimenti l'avrei fatto
senz'altro, spinto magari dalla mia stessa natura. Forse avrei potuto
dimostrare che gli uomini non sono i soli a meritare l'accusa di
sporcizia, se in quella terra ci fossero stati dei maiali, i quali,
per quanto più docili degli "yahoo", non possono pretendere certamente
di essere anche più puliti. Purtroppo non ce n'erano e solo in teoria
pensai che Suo Onore ne avrebbe convenuto, se li avesse visti
grufolare e rovesciarsi nella mota.
Il padrone accennò anche ad un altro atteggiamento degli "yahoo",
notato diverse volte dai suoi servitori e del quale non riusciva a
capire il motivo. A volte a qualche "yahoo" saltava il pallino di
acquattarsi in un angolo dove si metteva a guaire, a strepitare, a
scalciare contro tutti quelli che gli si avvicinavano e a rifiutare il
cibo, mentre i servi non capivano che cosa gli fosse successo. L'unico
rimedio era quello di assegnarlo ad un lavoro faticosissimo, dopo di
che rinsaviva completamente. Ancora una volta non dissi parola contro
la mia razza, anche se avevo riconosciuto senza ombra di dubbio, in
questo atteggiamento, i germi dell'ipocondria che attecchiscono nel
ricco, infiacchito dai vizi e dall'ozio. Se certi individui potessero
essere sottoposti allo stesso trattamento, mi assumerei l'incarico di
curarli.
Suo Onore aveva notato inoltre che la femmina "yahoo" si metteva
dietro cespugli o rialzi del terreno per guardare i giovani maschi che
passavano, facendo capolino e mille altre smorfie bizzarre, emanando
allo stesso tempo un tanfo insopportabile; se qualche maschio si
avvicinava, lei indietreggiava piano piano, voltandosi a guardarlo
fingendo timore e poi andava in qualche posto più sicuro, dove sapeva
che il maschio l'avrebbe seguita.
Se una femmina straniera capitava nel gruppo, le si facevano attorno
tre o quattro femmine che cominciavano a fissarla, sghignazzando e
facendo mille smorfie e ad annusarla tutta quanta; poi si
allontanavano con gesti che sembravano di disgusto e disprezzo.
Può darsi che il padrone fosse stato un po' troppo sofistico nel
considerare questi atteggiamenti, che lui stesso o altri dei suoi
avevano osservato; eppure dovetti constatare con stupore e gran pena
che i germi della lascivia, della civetteria, della malevolenza, dello
scandalo sono un istinto naturale per le donne.
Stavo sulle spine perché mi aspettavo che il padrone accusasse da un
momento all'altro gli "yahoo" di quei desideri contro natura, tanto
comuni da noi. Ma la natura non sembra essere stata una maestra molto
esperta, poiché dalle nostre parti questi piaceri più raffinati sono
il prodotto esclusivo dell'arte e della ragione.




8 - L'AUTORE RIFERISCE DIVERSE CARATTERISTICHE DEGLI YAHOO. NOBILI
VIRTU' DEGLI HOUYHNHNM. EDUCAZIONE ED ESERCIZI DEI LORO FIGLI.
L'ASSEMBLEA GENERALE.

Conoscevo la natura umana molto meglio di quanto fosse possibile al
mio padrone, per cui non mi fu difficile riconoscere nella descrizione
degli "yahoo" me stesso e i miei simili; ero anzi sicuro di poter fare
altre scoperte anche da solo. Per questo chiesi al cavallo il permesso
di andare fra gli "yahoo" del circondario, permesso che mi fu concesso
perché Suo Onore, conoscendo la mia ripugnanza per quegli esseri, era
sicuro che non mi sarei lasciato corrompere. Volle anzi che andassi
sempre sotto la protezione di un puledro sauro, molto robusto e di
indole buona, senza la cui scorta non mi sarei mai azzardato a
affrontare un'avventura simile. Ho già avuto modo di narrare come, fin
dall'arrivo, fossi stato importunato da quegli animali repellenti,
tanto è vero che, due o tre volte che mi ero allontanato senza la
sciabola, avevo rischiato di assaggiare i loro artigli. Tra l'altro ho
motivo di credere che loro avessero intuito che appartenevo alla loro
specie, infatti se mi capitava di rimboccarmi le maniche o di
scoprirmi il petto, con il mio protettore vicino, mi si accostavano il
più possibile, poi si mettevano ad imitare i miei gesti in maniera
goffa, come fanno le scimmie, ma sempre con intenzioni ostili, così
come una bertuccia con calze e berretto diventa il capro espiatorio se
capita in un branco di scimmie selvatiche.
Fin dalla più tenera infanzia dimostrano un'agilità sorprendente. Una
volta acchiappai un piccolo maschio di tre anni e cercai di farlo
stare buono con i gesti più affettuosi di questo mondo, ma quel
folletto cominciò a strillare, a graffiare e a mordere con una tale
violenza, che fui costretto a lasciarlo andare giusto in tempo, perché
un'intera banda di adulti era accorsa al trambusto; anche se, trovato
sano e salvo il cucciolo, e il puledro al mio fianco, non avevano
osato avvicinarsi. Quel piccolo "yahoo" emanava una puzza terribile,
qualcosa fra la donnola e la volpe, ma persino più intensa. Mi ero
dimenticato di un altro particolare, che forse il lettore avrebbe
preferito che lo avessi omesso del tutto: mentre lo tenevo in braccio,
quel mostriciattolo mi imbrattò i vestiti con una scarica dei suoi
escrementi liquidi e giallastri. Per fortuna lì vicino c'era un
ruscello nel quale mi lavai meglio che potei, anche se osai
presentarmi al mio padrone solo dopo essere rimasto un bel pezzo
all'aria aperta.
Gli "yahoo" sono gli esseri più refrattari che esistano a qualsiasi
insegnamento e tutta la loro capacità non va oltre il saper tirare o
portare dei carichi. Eppure sono sicuro che questa caratteristica
deriva soprattutto dalla loro indole perversa e ribelle. Sono infatti
astuti, maliziosi, traditori e vendicativi; sebbene robusti e
resistenti, sono dei vigliacchi e di conseguenza insolenti, abietti e
crudeli. Quelli di pelo rosso, sono in genere i più maligni e i più
libidinosi del gruppo ed anche quelli più forti e attivi.
Gli "houyhnhnm" tengono un certo numero di "yahoo" in capanne non
lontano dalle loro tettoie e li impiegano in vari servizi, mentre ne
impiegano la maggior parte nei campi dove si mettono a estrarre radici
o vanno in cerca di carogne e, qualche volta, acchiappano una donnola
o dei "luhimuhs" (una specie di topi selvatici) che divorano
avidamente. L'istinto li porta a scavarsi con le unghie buche profonde
lungo i dirupi, nelle quali si rintanano da soli, mentre le tane delle
femmine sono un po' più larghe per accogliere due o tre cuccioli.
Fin da piccoli nuotano come rane e riescono a rimanere sott'acqua per
molto tempo in cerca di pesci, che le femmine danno poi ai loro
piccoli. A questo proposito chiedo scusa al lettore se gli racconto
un'avventura grottesca.
Mi trovavo un giorno con il mio protettore lontano da casa; c'era un
caldo torrido, per cui gli chiesi il permesso di fare un bagno in un
fiume che scorreva vicino. Col suo consenso mi spogliai e mi immersi
lentamente nell'acqua. Una femmina "yahoo", che era nelle vicinanze,
assistette alla scena e, come sembrò a me e al cavallo, presa da un
desiderio incontenibile, si precipitò verso di me, fece un gran tuffo
in acqua e mi piombò a pochi metri di distanza. Non mi sono mai
spaventato tanto in vita mia; il cavallo pascolava lì intorno senza
sospettare nessun pericolo, mentre lei mi abbracciava in maniera
oscena; mi misi a urlare con quanta voce avevo in gola finché arrivò
il puledro al galoppo. Lei lasciò la presa a malincuore e saltò
sull'altra riva continuando a fissarmi e a guaire per tutto il tempo
che mi rivestivo.
Questo episodio fece ridere il padrone e la sua famiglia, ma per me fu
una grande mortificazione. Ormai non potevo più negare di essere uno
"yahoo" in tutto e per tutto, se costituivo un'attrattiva per le
femmine, come fossi uno dei loro maschi. Questa femmina non era di
pelo rosso, cosa che avrebbe in qualche modo giustificato un desiderio
un po' troppo smodato, anzi era nera come una prugna e nel complesso
meno ripugnante delle altre, perché credo non avesse più di undici
anni.
Poiché vivevo ormai da tre anni in quel paese, il lettore si aspetterà
un resoconto dei costumi degli abitanti, come fanno i viaggiatori, e
infatti mi ero dedicato a studiarli attentamente.
Queste nobili creature, gli "houyhnhnm", praticano per istinto
naturale la virtù e non hanno la minima idea di cosa sia il male; la
ragione è la loro massima quotidiana e la guida di ogni loro azione.
Per loro la ragione non ha nulla di problematico come accade da noi,
dove gli uomini possono dimostrare che tutti e due gli aspetti di una
questione sono giusti, ma ti folgora come una convinzione intuitiva ed
immediata, non corrotta dalla passione e dall'interesse. Ricordo
quanto mi fu difficile far comprendere al mio padrone la parola
opinione, o in quanti modi si potesse affrontare un argomento, perché
la ragione, secondo lui, ci aveva insegnato ad affermare o a negare
solo quelle cose di cui siamo sicuri, essendo incapaci di giudicare
ciò che non conosciamo. Di conseguenza gli "houyhnhnm" ignorano mali
come le controversie, i litigi, le dispute, le argomentazioni su
principi falsi o dubbi. E fu così che, quando cercavo di spiegargli i
nostri vari sistemi di filosofia naturale, non riusciva a trattenere
le risate davanti a un essere che si diceva razionale e dimostrava il
proprio valore nella conoscenza delle congetture fatte da altri e per
di più in cose la cui conoscenza, ammesso che fosse tale, non sarebbe
servita a niente. In questo concordava perfettamente con le idee di
Socrate, come ce le ha tramandate Platone, e lo dico a maggior gloria
di quel principe dei filosofi. Da allora in poi mi è capitato molto
spesso di pensare che una dottrina come quella avrebbe fatto piazza
pulita delle biblioteche europee, e che molte di quelle strade che
portano i saggi alla fama si sarebbero dimostrate dei vicoli ciechi.
Le due virtù cardinali degli "houyhnhnm" sono amicizia e benevolenza,
virtù che non brillano soltanto in momenti particolari, ma sono
esercitate dall'intera specie. Lo straniero proveniente dalla parte
più lontana del paese è trattato né più né meno come il vicino di casa
e si sente a suo agio come a casa sua. Hanno in gran conto il decoro e
la cortesia, mentre ignorano le cerimonie. Per i loro piccoli non
hanno un affetto cieco, bensì li educano secondo i principi della
ragione, tanto è vero che il mio padrone si dimostra affettuoso con i
figli del vicino non meno che con i propri. Per loro amare l'intera
specie è un insegnamento che proviene dalla natura, mentre la ragione
aiuta a distinguere le persone e a riconoscere dove brilli un grado
superiore di virtù.
Quando una madre "houyhnhnm" ha dato alla luce due figli, maschi e
femmina, non si accoppia più, a meno che perda uno dei due figli, il
che succede raramente. Si accoppiano di nuovo solo in questo caso; se
tuttavia una coppia, in cui la femmina non può più concepire, perde un
figlio, una più giovane cede il proprio ed è questo l'unico altro caso
in cui due cavalli si accoppiano ancora finché la femmina abbia
concepito. Questo controllo è necessario per impedire che la terra sia
sovrappopolata, anche se la razza inferiore degli "houyhnhnm",
destinata a svolgere mansioni subalterne, non è sottoposta ad un così
severo regime e ogni coppia può generare tre figli dello stesso sesso
che saranno domestici presso le famiglie nobili.
I matrimoni avvengono tenendo conto dei colori degli sposi e quindi
delle mescolanze che potranno risultare nei figli. Nel maschio si
ricerca soprattutto la forza e nella femmina la bellezza, ma non per
l'amore, quanto per evitare la degenerazione della specie; tanto è
vero che se è la femmina a eccellere nella forza, il maschio adatto
dovrà essere prestante. Non hanno la più pallida idea di
corteggiamenti, amore, regali, doti, capitali matrimoniali, tutte
parole inesistenti nella loro lingua. Le giovani coppie si incontrano
e si uniscono secondo la decisione di genitori e amici; è quanto
vedono ogni giorno e la considerano una delle azioni di un essere
ragionevole. Non si è mai sentito parlare di adulteri o di altre forme
di impudicizia, mentre le coppie unite in matrimonio trascorrono la
vita in quell'amicizia e benevolenza reciproche che hanno per tutti
gli altri della loro specie, senza ombra di gelosia, passione,
discordia o stanchezza.
Ammirevoli e degni di essere imitati sono i loro sistemi educativi per
i giovani di entrambi i sessi. Finché non hanno raggiunto l'età di
diciotto anni hanno il permesso di assaggiare i chicchi d'avena solo
nei giorni prescritti e il latte molto di rado; in estate pascolano un
paio d'ore al mattino e al pomeriggio, secondo un orario che viene
rispettato anche dai genitori, mentre ai servi viene concessa solo
metà del tempo. La pastura viene in genere portata a casa dove possono
mangiarla tranquillamente nelle ore libere.
I giovani di entrambi i sessi vengono educati alla laboriosità, alla
temperanza, al movimento, alla pulizia; al mio padrone sembrò una cosa
abnorme che si potesse dare un'educazione diversa ai maschi e alle
femmine, se si esclude l'insegnamento dell'economia domestica, ed
infatti osservò giustamente che presso di noi metà della popolazione,
quella femminile, è capace soltanto di mettere al mondo i figli; di
conseguenza affidare l'educazione di questi figli ad animali buoni a
nulla era già dimostrazione di barbarie.
Gli "houyhnhnm" invece educano i figli alla resistenza fisica, alla
velocità e alla forza facendoli esercitare in gare di corsa su
percorsi scoscesi o accidentati; quando sono ricoperti di sudore
devono tuffarsi con tutto il corpo nell'acqua di uno stagno o di un
fiume. Quattro volte all'anno i puledri di varie località si
incontrano per disputare gare di abilità nella corsa, nel salto o in
altri esercizi di agilità e di forza; il premio consiste in un canto
corale, che viene intonato in onore del puledro o della puledra
vincente. Durante questi festeggiamenti, i servitori conducono nello
spiazzo un'orda di "yahoo" carichi di fieno, avena e latte per il
banchetto degli "houyhnhnm", dopo di che questi bruti vengono
immediatamente portati via per non disturbare l'assemblea.
Ogni quattro anni, nel giorno dell'equinozio d'inverno, si svolge la
riunione del consiglio di rappresentanza dell'intero popolo. Il raduno
avviene in una pianura a un venti miglia dalla nostra casa e si
protrae per più di cinque giorni. Vi si discutono vari argomenti, fra
i quali le condizioni e lo stato dei vari distretti, se vi sia
abbondanza o scarsità di foraggio, di mucche e di "yahoo". Se si
scopre che in qualche zona c'è penuria dei beni e dei prodotti, cosa
che accade raramente, la comunità supplisce con unanime spontaneità.
Vi si discute anche la regolamentazione delle nascite; così, per fare
un esempio, se uno "houyhnhnm" ha due maschi e un altro due femmine,
uno dà il proprio maschio in cambio di una femmina; se una famiglia,
in cui la madre non può più concepire, ha perso un figlio, l'assemblea
decide quale altra coppia debba supplire alla perdita.











9 - GRANDE DIBATTITO NELL'ASSEMBLEA GENERALE DEGLI HOUYHNHNM.
PROVVEDIMENTI ADOTTATI. CULTURA DEGLI HOUYHNHNM, L'ARCHITETTURA E I
CULTI FUNEBRI. LIMITI DELLA LINGUA.

Una di queste assemblee si svolse durante la mia permanenza in quel
paese, un tre mesi prima della partenza e il padrone ci andò in
rappresentanza del suo distretto. All'ordine del giorno c'era la
ripresa del dibattito già affrontato altre volte, che era poi il loro
unico argomento controverso e di cui il padrone mi fece un resoconto
al suo ritorno.
La questione dibattuta era se si dovessero sterminare o meno gli
"yahoo" dalla faccia della terra. Uno dei rappresentanti della mozione
a favore dello sterminio aveva portato prove efficaci e ragionate,
secondo le quali gli "yahoo" erano gli esseri più osceni, rumorosi e
deformi che fossero stati creati dalla natura e i più refrattari,
cocciuti, ribelli e maligni; non facevano altro che attaccarsi di
nascosto ai capezzoli delle mucche degli "houyhnhnm", uccidere e
divorare i loro gatti, calpestare l'erba e l'avena appena venivano
persi d'occhio ed altre nefandezze. Ricordò anche un'antica leggenda,
secondo la quale gli "yahoo" non sarebbero originari di quella terra:
anni e anni prima due o tre di quei mostri sarebbero comparsi in cima
a una montagna, forse generati dalle esalazioni del fango a contatto
con i raggi del sole, o forse dalla schiuma del mare. Questi "yahoo"
si erano moltiplicati e in breve tempo la loro razza era diventata
così prolifica da inondare e infestare l'intero paese. Per liberarsi
di questo flagello, gli "houyhnhnm" avevano promosso una caccia su
tutto il territorio, avevano circondato il branco e dopo avere ucciso
il più vecchio, ogni "houyhnhnm" si era preso un paio dei più giovani,
li aveva rinchiusi in covili riducendoli a quel grado di docilità
compatibile con esseri tanto selvaggi per natura, e se ne era servito
per il trasporto dei carichi pesanti. Secondo il mio padrone c'era
molta verità in questa leggenda, perché se quegli esseri fossero stati
degli "ylnhniamshy" (o aborigeni del luogo) non avrebbero suscitato
tanto odio negli "houyhnhnm" e in tutti gli altri animali; e anche se
la loro natura malvagia lo meritava, questo odio non sarebbe arrivato
a quelle vette se si fosse trattato di aborigeni, altrimenti sarebbero
stati già da tempo estromessi dal paese. Inoltre quello che proponeva
il loro sterminio sosteneva che il fatto di averli adibiti ai servizi
più pesanti aveva fatto sì che i cavalli avessero commesso
l'imprudenza di trascurare l'allevamento degli asini, animali
mansueti, docili, parsimoniosi, pronti a tutte le fatiche, privi di
quella puzza pestilenziale, anche se molto meno agili degli "yahoo"; e
poi, anche se il loro raglio non era certo una musica per le orecchie,
era comunque preferibile all'ululato degli "yahoo".
Molti altri espressero la stessa opinione; poi il mio padrone propose
all'assemblea una soluzione per la quale aveva preso lo spunto da me.
Riteneva veritiera la tradizione, ricordata dall'onorevole membro che
lo aveva preceduto, secondo la quale i due primi "yahoo" apparsi in
quelle contrade sarebbero stati portati dal mare; ma una volta
approdati, dopo essere stati abbandonati dai compagni, si erano
ritirati sulle montagne, dove la specie era gradualmente degenerata
fino ad inselvatichirsi, molto più della specie originaria dalla quale
discendeva quella coppia primitiva. A sostegno di questa sua tesi
disse di possedere uno straordinario "yahoo" (alludeva a me,
naturalmente) di cui molti avevano già sentito parlare e che altri
avevano già visto. Raccontò loro come mi aveva trovato e che il mio
corpo era protetto da un manufatto di pelo e di pelli di altri
animali; poi continuò dicendo che parlavo un lingua straniera, ma che
avevo già imparato la loro, che avevo raccontato le avventure che mi
avevano portato a quei lidi e infine che, quando mi aveva visto senza
tutte quelle pelli addosso, ero un vero e proprio "yahoo", con l'unica
differenza di una pelle più chiara, di meno peli e di unghie più
corte.
Poi passò a raccontare come avessi cercato di convincerlo che gli
"yahoo" della mia terra ne erano anche i governanti, che venivano
considerati esseri razionali e tenevano in stato di servitù gli
"houyhnhnm"; che aveva riconosciuto in me uno "yahoo", solo un po' più
civile per qualche barlume di ragione, la quale, in ogni caso, stava
alla loro come quella degli "yahoo" stava alla mia. Fra le altre cose
che gli avevo raccontato, ricordò all'assemblea l'abitudine
occidentale di castrare gli "houyhnhnm" per renderli più docili; e
visto che si trattava di un'operazione facile e sicura, pensava che
non ci sarebbe stato da vergognarsi a imparare la saggezza dai bruti,
così come si impara la laboriosità dalle formiche e l'arte della
costruzione dalle rondini (ho tradotto così la parola "lyhannh",
sebbene sia un volatile più grosso); per cui riteneva che questa
pratica potesse essere applicata ai giovani "yahoo", col doppio
vantaggio di renderli più mansueti e di estinguere col tempo l'intera
specie, senza spargimenti di sangue. Nel frattempo si sarebbe potuto
stimolare l'incremento della razza degli asini, che non sono solamente
più utili sotto tutti gli aspetti, ma presentano il vantaggio di
essere adatti al lavoro all'età di cinque anni, mentre gli altri lo
sono a quella di dodici.
Questo fu quanto il padrone ritenne opportuno riferirmi di ciò che era
stato discusso in consiglio, eppure si era compiaciuto di tacere un
particolare che mi riguardava direttamente e di cui avrei sentito ben
presto gli amari effetti. Al momento opportuno ne parlerò al lettore,
il quale sappia che da quel particolare derivarono tutte le sfortune
che mi capitarono nella vita.
Gli "houyhnhnm" non conoscono la scrittura, perciò la loro conoscenza
si fonda esclusivamente sulla tradizione. D'altronde accadono così
pochi avvenimenti di rilievo in un popolo tanto virtuoso, interamente
governato dalla ragione ed escluso dal contatto con altri popoli, che
la loro storia può essere ricordata a memoria senza stancare la mente.
Ho già detto che non sono soggetti a malattie, per cui non hanno
bisogno di medici, anche se possiedono un'eccellente farmacopea a base
di erbe per la cura di contusioni o abrasioni ai garretti, alle
giunture o in altre parti del corpo.
Calcolano l'anno dal cammino del sole e della luna, ma non usano la
suddivisione in settimane. Hanno notevole dimestichezza con i moti di
questi due astri e sanno comprendere la natura delle eclissi: questa
infatti è la massima conoscenza a cui è pervenuta la loro astronomia.
Devo riconoscere che in poesia sono superiori a tutti gli altri
mortali; come potrà essere imitata, infatti, l'esattezza delle loro
similitudini o la minuzia e la precisione delle loro descrizioni?
Entrambe queste doti abbondano nei loro versi, che elogiano sempre la
benevolenza e l'amicizia, esaltano i vincitori dei tornei e dei giochi
ginnici. Hanno case rustiche ed semplici al massimo, anche se
costruite con perizia e adattissime a difenderli dai rigori del clima.
In quella terra cresce un albero strano che, all'età di quarant'anni,
si secca alle radici e precipita a terra con la prima bufera; poiché
si tratta di piante dritte come fusi, i cavalli le appuntiscono da un
lato sbozzandole con pietre taglienti (non conoscono infatti l'uso del
ferro) e quindi le infilano nel terreno a venticinque centimetri l'una
dall'altra; poi chiudono gli interstizi con paglia intrecciata o, a
volte, con graticci ed è questo il modo con cui fanno anche i tetti e
le porte.
Gli "houyhnhnm" usano con un'abilità prodigiosa, inimmaginabile, la
parte cava fra il garretto e lo zoccolo delle zampe anteriori, né più
né meno come noi adoperiamo le mani C'era una cavalla bianca al
servizio, in casa nostra, che fu capace di infilare un ago che le
avevo dato di proposito. Compiono ogni lavoro manuale, come mungere o
mietere, con un'abilità identica. Nella loro terra si trova una specie
di selce durissima che sfregano contro le altre pietre e che
trasformano in zappe, accette e martelli. Con gli strumenti ricavati
da questa pietra mietono il fieno e l'avena che cresce spontaneamente
in molti campi. Poi spetta agli "yahoo" trasportare a casa i fasci di
avena e ai servitori batterla sotto le tettoie per ricavarne i grani
che conservano in appositi magazzini. Sono capaci di costruirsi anche
dei vasi piuttosto rozzi di legno o di argilla che fanno cuocere al
sole.
Se non capita loro qualche disgrazia, muoiono di vecchiaia.
Vengono sepolti nei luoghi più appartati, mentre parenti ed amici non
mostrano né dolore né gioia per la loro perdita. Gli stessi morenti
non lasciano trasparire il minimo segno di rimpianto per il mondo che
lasciano, come se si stessero accommiatando dagli amici per tornare a
casa. Ricordo che un giorno il padrone aveva dato un appuntamento, a
casa sua, a un amico e alla sua famiglia; quando arrivò il giorno, la
moglie dell'amico e due puledrini arrivarono molto più tardi del
previsto, scusandosi per il marito che proprio quel mattino era
"lhnuwnh": una parola che ha una forte carica espressiva nella loro
lingua e che vuol dire "ritornare alla prima madre". Si scusava dunque
di non essere venuta prima poiché, essendo il marito morto la mattina
tardi, si era a lungo consigliata con i servitori per trovare un posto
adatto alla sepoltura. Per il resto, durante la visita, si era
comportata giovialmente come tutte le altre volte: tre mesi dopo toccò
anche a lei.
Vivono in genere fino a settanta, settantacinque anni e raramente
arrivano alla soglia degli ottanta. Poche settimane prima della morte,
sentono una debolezza che si diffonde progressivamente per il corpo,
senza alcun dolore. In questo tempo ricevono le visite degli amici,
perché loro non sono in grado di andare in giro liberamente. A dieci
giorni dalla morte, che sanno presentire con una precisione
impressionante, restituiscono le visite a tutti quelli che abitano nel
vicinato, trasportati su tregge trainate da "yahoo". Un veicolo,
questo, al quale fanno ricorso non solo in questa occasione, ma anche
quando devono fare lunghi viaggi da vecchi o si sono azzoppati per
qualche disgrazia. Nel restituire la visita agli intimi, prendono da
loro solenne commiato, come se si recassero in qualche parte lontana
del paese per trascorrere il resto della vita.
Non so se ci sia bisogno di sottolineare che nella loro lingua non
esistono parole per esprimere tutto ciò che è male, ad eccezione di
quei termini che derivano dalle deformità e dalle cattive qualità
degli "yahoo". Così per definire la stoltezza di un servo, la
negligenza di un figlio, la pietra che taglia il piede, il perdurare
della cattiva stagione e cose simili, ricorrono al relativo termine
seguito dall'epiteto "yahoo"; "hhnm yahoo", "whnaholm yahoo",
"ynlhmnawihlma yahoo" e per parlare di una catapecchia,
"ynholmhnmrohlnw yahoo".
Potrei dilungarmi ancora moltissimo sui costumi virtuosi di questo
popolo eccezionale, tuttavia preferisco rimandare il lettore ad un mio
volume dedicato interamente a questo argomento; intanto continuerò
raccontando la mia triste catastrofe.



10 - VITA SEMPLICE E FELICE DELL'AUTORE FRA GLI HOUYHNHNM. SUE
CONVERSAZIONI E GRANDI PROGRESSI NELLA VIRTU'. IL PADRONE GLI ANNUNCIA
CHE DEVE LASCIARE IL PAESE. SVIENE PER IL DOLORE, UBBIDISCE. CON
L'AIUTO DI UN COMPAGNO Dl SERVITU' SI COSTRUISCE UNA CANOA E SI
AVVENTURA IN MARE.

Mi ero ormai organizzato un'esistenza semplice e felice. Il padrone mi
aveva fatto costruire una casa secondo le abitudini del luogo, a un
sei metri da casa sua; avevo intonacato di argilla le pareti e
ricoperto il pavimento di stuoie di giunchi che avevo intrecciati da
me; mi ero costruito una specie di traliccio battendo le piante di
canapa che in quel luogo crescono ovunque, poi l'avevo riempito con le
penne di uccelli, catturati con laccioli di peli di "yahoo", e che
avevo trovato squisiti. Aiutato dal puledro sauro, che svolgeva la
parte più faticosa del lavoro, mi ero costruito due sedie.
I miei abiti si erano ormai ridotti a degli stracci, per cui me ne
confezionai altri con pelli di coniglio e di un altro bell'animale
delle stesse dimensioni chiamato "nnuhnoh", che ha un pelo
morbidissimo. Queste pelli mi servirono anche per farmi delle calze
decenti. Quanto alle scarpe, cominciai a risuolarle con pianelle di
legno fino a quando resse la tomaia, poi la sostituii con pelle di
"yahoo" fatta seccare al sole. Mi succedeva spesso di trovare del
miele nelle cavità degli alberi, lo mescolavo al latte o lo spalmavo
sul pane. E chi altri meglio di me avrebbe potuto testimoniare la
verità di queste due massime: "La natura si accontenta di poco" e "la
necessità aguzza l'ingegno"?
Godevo di salute perfetta nel corpo e nell'animo, non dovevo provare
l'amarezza dell'incostanza o dei tradimenti degli amici, né le offese
di un nemico ignoto o palese. Non dovevo corrompere, adulare o fare il
ruffiano per procurarmi i favori di qualche potente o del suo
favorito. Non dovevo difendermi contro la frode e la prepotenza: qui
non c'erano medici a rovinarmi la salute, né avvocati a mandarmi il
capitale in malora, non delatori prezzolati pronti a carpire le mie
parole e azioni per farne altrettante prove d'accusa, qui non c'erano
schernitori, criticoni, maldicenti, borsaioli, ladroni, scassinatori,
avvocati, mezzani, buffoni, biscazzieri, politicanti, begli spiriti,
malinconici, parolai, sofisti, stupratori, assassini, predatori,
cantanti; né condottieri o seguaci di fazioni e partiti, né chi spinge
al vizio con gli esempi e la seduzione; non prigioni, mannaie,
patiboli, colonne o flagelli; non bottegai o inventori truffaldini;
non orgoglio, vanità o simulazione; non gonzi, mantenuti, ubriaconi,
passeggiatrici o sifilidici; non mogli spenderecce, chiacchierone e
lascive; non pedanti presuntuosi e sciocchi; non compagni importuni,
prepotenti, litigiosi, chiassoni, rumorosi, vuoti, presuntuosi,
bestemmiatori; non delinquenti innalzati dalla polvere in virtù dei
loro vizi, né nobili ridotti sulla polvere grazie alle loro virtù, né
lord, violinisti, giudici o maestri di ballo.
Più di una volta il padrone mi ammise alla presenza di diversi
"houyhnhnm" venuti a fargli visita e mi permise di rimanere nella
stanza per assistere ai loro colloqui. Spesso lui e i suoi compagni si
rivolgevano anche a me. Altre volte seguii il padrone in visita presso
amici. Naturalmente, in simili casi, parlavo solo se mi rivolgevano
domande e poi lo facevo sempre con rammarico, perché avrei potuto
dedicare quel tempo a migliorare me stesso. Era per me una delizia
stare ad ascoltare quelle conversazioni i cui argomenti erano sempre
qualcosa di utile, espressi con sobria efficacia, con forte senso del
decoro, eppure senza la minima enfasi; chi parlava piaceva agli altri
e a se stesso e non c'erano interruzioni, accaloramenti, tirate noiose
o divergenze di opinione. Essi sono del parere che, quando delle
persone a modo si 'incontrano, una pausa favorisca la conversazione e
credo sia vero; infatti durante quei brevi silenzi vengono in mente
nuove idee che ravvivano la conversazione. I loro argomenti vertono in
genere sull'amicizia e sulla benevolenza, l'ordine e l'economia; ma a
volte possono riguardare i fenomeni naturali o le antiche tradizioni,
i limiti della virtù, le ferree regole della ragione, le decisioni da
prendere nella prossima assemblea e infine i pregi della poesia. Non
lo dico per vanagloria, ma spesso la mia presenza diventava argomento
di conversazione, perché il padrone raccontava loro la storia mia e
del mio paese, sulla quale si soffermavano tutti a fare commenti,
anche se non troppo lusinghieri per il genere umano; perciò non starò
a riportare le loro osservazioni. Mi si permetta solo di dire che, con
mia grande meraviglia, il mio padrone dimostrava di capire molto
meglio di me la natura degli "yahoo". Passò in rassegna tutti i vizi e
le follie del genere umano e ne scoprì moltissimi che gli avevo
taciuto; in realtà gli era bastato considerare gli "yahoo" della sua
terra e immaginare come sarebbero diventati, se avessero avuto solo un
briciolo di intelligenza e quindi concluse che una creatura simile
doveva essere tanto sciagurata quanto ignobile.
Confesso in tutta sincerità che quel poco di valido che possiedo lo
devo alle lezioni del mio padrone e alle conversazioni che si erano
svolte fra lui e i suoi amici, e mi sento molto più orgoglioso di aver
partecipato ad esse come semplice uditore, piuttosto che se avessi
trionfato nel più eccelso dei simposi europei. Ammiravo la forza, la
belllezza e la velocità degli abitanti; una simile ghirlanda di virtù
in creature tanto amabili mi riempiva di un senso di venerazione nei
loro confronti. All'inizio non avevo sentito quel timore istintivo che
provano nei loro confronti gli "yahoo" e gli altri animali; si fece
strada in me poco a poco, ma molto più in fretta di quanto credessi,
insieme a un sentimento di rispetto e di gratitudine, dovuto al fatto
che avevano voluto distinguermi dal resto della razza.
Quando andavo col pensiero alla mia famiglia, agli amici, ai
compatrioti, alla razza umana in generale, li consideravo ormai per
quello che erano: "yahoo" nell'animo e nel corpo, forse con un
briciolo di civiltà e in grado di distinguersi per l'uso della parola,
ma allo stesso tempo capaci di sfruttare quel po' di ragione solo per
moltiplicare i loro vizi, tanto più abietti dei confratelli di qui,
che almeno conoscono solo quelli forniti da madre natura. Se poi mi
capitava di vedere la mia immagine riflessa sullo specchio d'acqua di
un ruscello o di una fontana, giravo il viso da un'altra parte, pieno
di orrore e di disgusto per me stesso; sopportavo meglio la vista di
uno "yahoo", che non del mio corpo. A forza di conversare con gli
"houyhnhnm" e di osservarli pieno di ammirazione, finii per imitare i
loro gesti e i loro atteggiamenti, tanto che questa abitudine si è
ormai radicata in me. Quando i miei amici mi dicono bruscamente che
"trotto come un cavallo", mi sembra il più bel complimento che possa
ricevere; anche parlando mi capita spesso di modulare la voce come gli
"houyhnhnm" e se qualcuno me lo fa rilevare, prendendomi in giro, per
me è tutt'altro che una mortificazione.
Mi sentivo pienamente felice e credevo di aver trovato una
sistemazione definitiva, quando il padrone mi mandò a chiamare, una
mattina, più presto del solito. Capii subito che era imbarazzato e non
sapeva come incominciare. Dopo un po' mi disse che non sapeva come me
la sarei presa per quanto doveva comunicarmi, aggiunse quindi che
nell'ultima assemblea, quando era stato il momento di discutere la
faccenda degli "yahoo", i vari rappresentanti si erano dichiarati
offesi perché uno di loro aveva osato accogliere uno "yahoo" (sarei
stato io) nella propria famiglia, per trattarlo come uno "houyhnhnm"
piuttosto che come un bruto; che era risaputo delle sue frequenti
conversazioni con questo bruto, come se ricevesse piacere o vantaggio
dalla sua compagnia; che infine si trattava di un comportamento
contrario alla ragione e alla natura, sconosciuto da sempre al loro
popolo. L'assemblea lo aveva esortato a prendere una delle seguenti
soluzioni: o lui mi considerava come tutti gli altri membri della mia
razza, o mi costringeva a ritornarmene a nuoto alla terra da dove ero
venuto. La prima soluzione venne immediatamente scartata da tutti
quegli "houyhnhnm" che mi avevano già conosciuto a casa del padrone o
nella loro; sostennero, oltretutto, che proprio quei certi bagliori di
ragione nell'oscura brutalità degli istinti mi avrebbe trasformato nel
capo di tutti gli "yahoo", capace di organizzare una vera e propria
secessione di questi animali nelle parti montagnose del paese, dalle
quali saremmo scesi di notte per distruggere il bestiame degli
"houyhnhnm", secondo gli usi di una razza contraria al lavoro e dedita
alla rapina.
Il padrone disse anche che ogni giorno i vicini lo sollecitavano a
mettere in atto l'esortazione dell'assemblea e che quindi non poteva
rimandarla ancora. Dato che aveva forti dubbi sul fatto che sarei
stato capace di tornarmene a nuoto nella mia terra, volle che mi
costruissi una specie di imbarcazione simile a quella che gli avevo
descritto, adatta a viaggiare per mare; per questa impresa metteva a
mia disposizione i suoi servi e quelli dei vicini. Concluse dicendo
che, da parte sua, avrebbe desiderato tenermi al servizio per tutto il
tempo che fossi vissuto, perché avevo saputo mitigare molti difetti e
cattive abitudini, sforzandomi in tutte i modi di imitare gli
"houyhnhnm".
A questo punto devo fare osservare che, per esprimere quanto viene
decretato dall'assemblea di questo popolo, si usa la parola "hnhlcayn"
che vuol dire più o meno esortazione. Secondo loro, infatti, un essere
razionale può essere avvertito o esortato; dire costretto non avrebbe
senso, perché come potrebbe un individuo disobbedire al dettato della
ragione, senza rinunciare allo stesso tempo alla propria natura di
essere razionale?
Alle parole del mio padrone sprofondai nella disperazione più nera ed
essendo incapace di sopportare quel dolore terribile, caddi svenuto ai
suoi piedi. Quando ripresi i sensi, mi disse che mi aveva creduto
morto, perché infatti la loro razza non è soggetta a certe debolezze
della nostra natura. Gli risposi con un filo di voce che la morte
sarebbe stata una grazia troppo grande per me e proseguii dicendogli
che, sebbene non fossi in grado di biasimare l'esortazione
dell'assemblea o la fretta dei vicini, tuttavia secondo la mia
capacità di giudizio senza dubbio debole e ingiusta, una presa di
posizione meno rigorosa non mi sarebbe sembrata irrazionale. E poi la
mia resistenza nel nuoto non mi avrebbe portato oltre una lega, mentre
la terra più vicina ne distava non meno di cento; quanto ai materiali
per costruirmi una barca, per la maggior parte non esistevano in
quella terra; in ogni caso avrei provato ugualmente, spinto dalla
gratitudine e dal senso di obbedienza nei confronti di Suo Onore,
anche se ritenevo l'impresa impossibile e mi consideravo ormai
candidato alla morte. In fondo, la certezza di una morte prematura non
mi spaventava affatto perché, ammesso pure che fossi riuscito a
scamparla, come avrei potuto passare il resto dei miei giorni fra gli
"yahoo", scivolando a poco a poco nei miei vecchi difetti, senza quei
sublimi esempi che mi potessero guidare sui sentieri di una vita
virtuosa? Conclusi dicendo che, da quel miserabile "yahoo" che ero,
non mi illudevo neppure di scuotere le argomentazioni granitiche sulle
quali poggiavano le decisioni prese dai saggi "houyhnhnm" e che
pertanto lo ringraziavo umilmente per avermi offerto la collaborazione
dei servi nel costruire un vascello; gli chiesi soltanto che mi fosse
concesso tempo sufficiente per eseguire un lavoro tanto difficoltoso e
gli assicurai che avrei cercato di tenere in vita questo sciagurato
che ero. Se mai fossi tornato in Inghilterra, speravo di essere utile
alla mia razza, celebrando gli elogi dei famosi "houyhnhnm" e
proponendo al genere umano di imitarne le incomparabili virtù.
Il padrone mi rispose con poche parole piene di gentilezza, mi
concesse due mesi per finire la barca e ordinò al puledro sauro, che a
distanza mi permetto di chiamare mio collega, di seguire le mie
istruzioni; avevo infatti detto al padrone che mi era sufficiente il
suo aiuto e poi sapevo che aveva un debole per me.
In compagnia del puledro andai prima di tutto in quella parte della
costa dove ero stato sbarcato dai ribelli, salii su un'altura dalla
quale esplorai l'orizzonte, finché mi sembrò di vedere in direzione
nord-est un'isoletta; tirai fuori il cannocchiale e la potei vedere
nitidamente ad una distanza di un cinque leghe. Al sauro sembrava
soltanto una nuvola celestina, poiché non poteva concepire che ci
fossero altre terre; così non aveva la minima esperienza nel
distinguere oggetti in mare aperto, a differenza di noi che abbiamo
molta più confidenza con questo elemento.
Una volta scoperta l'isola, non stetti a fare altre considerazioni, ma
stabilii che sarebbe stata quella la prima tappa del mio esilio,
lasciando il resto al destino.
Tornato a casa e dopo essermi consigliato col puledro, andammo in un
boschetto non lontano dove, io con il coltello e lui con una selce
tagliente e legata saldamente ad un manico di legno, secondo la loro
usanza, ci mettemmo ad abbattere rami di quercia, grossi come bastoni
da passeggio, ed altri tronchi più grandi. Non starò qui ad annoiare
il lettore con le mie nozioni di maestro d'ascia; basti dire che in
sei settimane, grazie all'aiuto del puledro che fece il lavoro più
faticoso, portai a termine un'imbarcazione sul tipo di una canoa
indiana, un po' più larga di quella, coperta con pelli di "yahoo"
cucite insieme con filo di canapa che avevo filato da me. Anche la
vela era fatta di queste pelli per le quali avevo scelto quelle di
giovani "yahoo", perché quelle dei vecchi erano troppo spesse e
indurite; mi feci naturalmente anche quattro pagaie. Poi caricai a
bordo una piccola cambusa di carne cotta, sia conigli che uccelli, e
due recipienti, uno di latte e l'altro di acqua dolce.
Collaudai la canoa in uno stagno non lontano dalla casa del padrone,
vi apportai le correzioni necessarie, turai le falle con sugna di
"yahoo", finché mi sembrò sicura e in grado di portare me e il carico.
Quando fu tutto a posto, feci portare l'imbarcazione sulla spiaggia
sopra un traino spinto con gran cautela dagli "yahoo", tenuti a freno
dal sauro e da un altro servitore.
Tutto era ormai pronto e il giorno della partenza presi commiato dal
mio padrone, dalla sua signora e da tutta la famiglia con gli occhi
pieni di lacrime e il cuore gonfio. Suo Onore, tuttavia, forse per
curiosità o forse anche, se posso dir così, per riguardo nei miei
confronti, volle vedermi partire con la canoa e si fece accompagnare
alla costa da molti dei vicini. Dovetti aspettare l'alta marea per più
di un'ora poi, visto che soffiava un venticello in direzione
dell'isola verso la quale volevo far rotta, mi accommiatai ancora una
volta dal padrone. Stavo per inginocchiarmi per baciargli lo zoccolo,
quando lui volle esprimermi tutta la sua gentilezza sollevandomelo
alla bocca. So bene quanto mi hanno criticato per avere ricordato
questo particolare; i detrattori l'hanno considerata una menzogna,
perché un personaggio tanto illustre non avrebbe mai concesso un così
chiaro segno di distinzione ad una persona tanto inferiore come me.
Non ho dimenticato certamente che è costume dei viaggiatori vantarsi
di speciali favori ricevuti, ma questi censori cambierebbero idea se
avessero conosciuto la nobile e generosa natura degli "houyhnhnm".
Presentai i miei rispetti a tutti gli altri "houyhnhnm" che erano in
compagnia del mio padrone e quindi, salito sulla canoa, mi allontanai
dalla riva.


11 - PERICOLOSO VIAGGIO DELL'AUTORE. ARRIVA ALLA NUOVA OLANDA E SPERA
DI STABILIRVISI. E' FERITO DALLA FRECCIA DI UN INDIGENO. VIENE
CATTURATO E IMBARCATO A FORZA IN UNA NAVE PORTOGHESE. GRANDE CORTESIA
DEL CAPITANO. ARRIVO IN INGHILTERRA.

Iniziai questo mio viaggio disperato il 15 febbraio 1715 alle 9 del
mattino. Soffiava un vento favorevole, tuttavia all'inizio usai
soltanto i remi; ma poi, pensando che mi sarei presto stancato e che
il vento poteva cadere da un momento all'altro, mi arrischiai ad
alzare la piccola vela e così, con l'aiuto della marea, percorsi circa
una lega nel tempo di un'ora e mezzo. Il padrone e i suoi amici erano
rimasti sulla spiaggia finché non mi avevano visto scomparire
all'orizzonte e di tanto in tanto sentivo il puledro sauro (che mi era
stato sempre affezionato) gridare "hnuy illa nyha maiah yahoo", "abbi
cura di te, gentile yahoo"!
La mia intenzione era di scoprire, se fosse stato possibile, qualche
isoletta disabitata, capace di darmi col lavoro l'indispensabile per
sopravvivere, una soluzione, questa, che mi sembrava infinitamente più
desiderabile che vivere come un primo ministro nella più civile delle
corti europee, tanto era l'orrore che provavo alla sola idea di
tornare a vivere in una società governata dagli "yahoo". Nella
solitudine avrei potuto vivere solo con i miei pensieri e i dolci
ricordi di quei virtuosi e inimitabili "houyhnhnm", senza correre il
pericolo di ricadere nei vizi e nella corruzione dei miei simili.
Si ricorderà il lettore ciò che dissi quando la ciurma si ribellò al
mio comando e mi relegò sotto coperta, dove rimasi per diverse
settimane senza sapere la rotta, e si ricorderà pure che, quando mi
caricarono sulla scialuppa, i marinai mi giurarono, in buona fede o
meno, di non sapere in quale parte del globo ci trovassimo. Ora credo
che fossimo a circa 10 gradi a sud del Capo di Buona Speranza o a
circa 45 gradi di latitudine sud o almeno così mi sembrò di capire dai
loro mezzi discorsi, e poiché volevano raggiungere il Madagascar,
dedussi che dovevamo trovarci a sud-est della rotta per quell'isola.
Sebbene queste fossero solo delle vaghe congetture, decisi comunque di
puntare verso est, nella speranza di raggiungere la costa sud-
occidentaie della Nuova Olanda e forse qualcuna di quelle isole a
ponente. Soffiava vento occidentale, alle sei di sera avevo percorso
almeno diciotto leghe in direzione est, quando vidi a mezza lega di
distanza una minuscola isola che ben presto raggiunsi: si trattava di
uno scoglio con un'insenatura formata dall'erosione dei marosi. Vi
entrai con la canoa e quindi mi arrampicai sul costone da dove vidi
una fascia di terra verso oriente che si estendeva da sud a nord.
Passai la notte nella canoa e al mattino ripresi il viaggio finché
arrivai, sette ore dopo, alla costa sud-orientale della Nuova Olanda.
Trovai conferma alla conclusione alla quale ero altre volte giunto, e
secondo la quale le carte nautiche e geografiche collocano questa
terra almeno tre gradi più ad est di quanto realmente si trovi.
Comunicai questa opinione, molti anni fa, al mio degno amico Ermanno
Moll, corredata dalle mie spiegazioni, ma lui ha continuato a credere
ad altri autori.
Nel posto dove toccai terra non vidi indigeni e d'altronde non me la
sentivo di inoltrarmi disarmato in quel paese. Mangiai crudi alcuni
molluschi trovati sulla spiaggia, perché non volevo che, accendendo
qualche fuoco, i nativi mi scoprissero. Andai avanti tre giorni a
nutrirmi di ostriche e di frutti di mare, risparmiando le provviste ed
ebbi anche la fortuna di trovare un ruscello con un'acqua buonissima
che mi diede grande sollievo.
Il quarto giorno mi avventurai di buon ora un po' più verso l'interno
e vidi venti o trenta indigeni su di un altura a non più di
cinquecento metri da me. Uomini, donne, bambini se ne stavano
accovacciati, completamente nudi intorno a un fuoco, come capii dalle
volute di fumo. Uno di loro mi scorse, diede l'allarme agli altri e
cinque di loro, lasciate donne e bambini intorno al fuoco, vennero
verso di me. Corsi a precipizio verso la spiaggia, risalii sulla
canoa, cercando di allontanarmi, ma i selvaggi, vedendomi fuggire, mi
corsero dietro e, prima ancora che potessi essere fuori dalla portata
dei loro archi, fui raggiunto al ginocchio sinistro da una freccia, di
cui porterò nella tomba la cicatrice. Poiché poteva trattarsi di una
freccia avvelenata, mentre remavo per guadagnare spazio, in un mare
fortunatamente calmissimo, succhiai il sangue dalla ferita e la
fasciai alla meglio.
Ero incerto su cosa fare perché, pur volendo puntare a nord per non
tornare sul posto di prima, ero costretto a remare e ad andare contro
vento. Mentre stavo guardandomi intorno per trovare un'insenatura
sicura, vidi una vela in direzione nord-nord-est che di minuto in
minuto si faceva più grande; per un po' fui in dubbio se aspettare che
si avvicinasse, ma alla fine la repulsione per la razza "yahoo" ebbe
il sopravvento: voltai la canoa dalla parte opposta dirigendomi a sud
col favore del vento e la spinta dei remi, finché raggiunsi
l'insenatura dalla quale ero partito la mattina. Avrei preferito
vivere con quei barbari, piuttosto che con "yahoo" europei. Accostai
la barca alla riva e mi nascosi dietro una roccia, accanto al ruscello
di cui ho già parlato.
Nel frattempo la nave era giunta a mezza lega dall'insenatura e aveva
calato una scialuppa per rifornirsi di acqua dolce in quel posto che
sembra fosse conosciuto. Mi accorsi della barca solo all'ultimo
minuto, quando era ormai troppo tardi per cercare un altro
nascondiglio. Quando furono a terra, i marinai scoprirono la mia
imbarcazione e, dopo averla rovistata, ne dedussero che il
proprietario doveva essere nei dintorni. Quattro di loro si misero a
frugare ogni fessura ed ogni anfratto, finché mi scoprirono acquattato
con il volto contro la roccia. Rimasero meravigliati dinanzi al mio
strano, inconsueto abbigliamento, all'abito fatto di pelli, alle
scarpe dalle suole di legno e alle calze foderate di pelo e ciò
malgrado capirono subito che non potevo essere un indigeno, perché
quelli vanno sempre nudi. Uno di loro mi ordinò di alzarmi e volle
sapere chi fossi. Parlava portoghese, una lingua che capisco
benissimo, per cui alzandomi gli risposi che ero un povero "yahoo"
esiliato dagli "houyhnhnm" e non volevo altro che andarmene via da
solo. Restarono ammirati nel sentirmi parlare la loro lingua e ormai,
dall'aspetto, avevano capito che ero un europeo; tuttavia non capivano
cosa volessi dire con quelle due parole, "yahoo" e "houyhnhnm", e poi
non potevano trattenere le risate a sentire quel mio tono di voce,
molto simile al nitrito di un cavallo. Ero combattuto fra l'odio e la
paura, chiesi loro di essere lasciato libero di andarmene e mi stavo
incamminando lentamente verso la barca, quando loro mi afferrarono,
bersagliandomi di domande per sapere da dove venivo, di quale paese
ero, e così via. Risposi loro che ero nato in Inghilterra, da dove ero
partito cinque anni prima; allora il mio paese e il loro erano in pace
per cui speravo che non mi avrebbero considerato un nemico; da parte
mia non avevo intenzione di fare del male a nessuno: ero un povero
"yahoo" in cerca di una terra deserta in cui passare il resto di una
vita sfortunata.
Quando li sentii parlare, mi sembrò l'atto più innaturale che esista,
come se un cane o una vacca si metesse a parlare in Inghilterra, o uno
"yahoo" nella terra degli "houyhnhnm". Quei buoni portoghesi, da parte
loro, erano altrettanto stupiti nel vedermi vestito in quel modo e nel
sentirmi parlare con quella intonazione cavallina, anche se capivano
benissimo le parole.
Furono veramente pieni di umanità nei miei confronti, dissero che il
loro capitano mi avrebbe portato a Lisbona senza pretendere un soldo e
da lì sarei potuto ritornare nel mio paese, che due marinai sarebbero
tornati dal capitano a riferire quanto era successo e a ricevere
ordini; nel frattempo, se non avessi solennemente giurato di non
fuggire, mi avrebbero trattenuto con la forza. Pensai che fosse
prudente accettare la loro proposta. Loro erano curiosi di conoscere
la mia storia, ma non si può dire che dessi loro soddisfazione, tanto
è vero che pensarono che fossi andato via di testa per le sofferenze
patite. Dopo due ore tornò la scialuppa, che era partita carica
d'acqua, con l'ordine del capitano di portarmi a bordo. Mi
inginocchiai, implorando di lasciarmi libero, ma fu tutto inutile;
legato ben bene mani e piedi fui caricato di peso sulla barca e quindi
sulla nave, per approdare alla fine nella cabina del comandante.
Si chiamava Pedro de Mendez ed era una persona affabile e generosa; mi
pregò di fornirgli qualche notizia su di me, e mi chiese cosa avrei
preferito mangiare, poi disse che sarei stato trattato come lui,
aggiungendo altre cortesie, tanto che mi stupii di trovare tanta
gentilezza in uno "yahoo". Rimasi cupo e silenzioso, sul punto di
svenire, nauseato dall'odore che veniva da lui e dai suoi uomini. Alla
fine chiesi di mangiare alcune provviste della mia imbarcazione, ma
lui mi mandò un pollo e del vino eccellente, poi diede ordine che mi
facessero coricare in una cabina pulita. Non volli spogliarmi, né
mettermi sotto le coperte e dopo mezz'ora, quando pensavo che fosse
l'ora del rancio, sgattaiolai lungo la murata della nave per gettarmi
in mare e cercare a nuoto la libertà, piuttosto che rimanere fra gli
"yahoo". Ma un marinaio mi vide e informò il capitano, il quale mi
fece incatenare nella cabina.
Dopo il pranzo venne a trovarmi Don Pedro per sapere la ragione di un
gesto tanto disperato, mi assicurò che avrebbe fatto per me tutto
quanto fosse stato possibile e mi commosse tanto che decisi di
trattarlo come un animale dotato di un briciolo di ragione. Gli feci
dunque una breve relazione dei miei viaggi, dell'ammutinamento che mi
aveva costretto a scendere in una terra sconosciuta e del periodo
passato in quel posto. Ma tutto questo gli sembrò un sogno, una
visione e non un racconto ed io me la presi a male; infatti avevo
ormai perso l'abitudine di dire bugie, tipica dei paesi governati
dagli "yahoo", i quali sospettano sempre che quanto dicono gli altri
non sia vero affatto. Allora gli chiesi se nel suo paese c'era
l'abitudine di dire cose che non sono vere. Poi gli assicurai che
avevo ormai dimenticato cosa volesse dire falsità e che se fossi
vissuto mille anni fra gli "houyhnhnm" non avrei sentito una bugia che
è una bugia, sulle labbra del più umile dei servitori. Gli dissi
ancora che non mi importava affatto se lui mi credeva o meno e che
comunque, in cambio della sua cortesia, avrei avuto indulgenza per la
sua natura di creatura corrotta e avrei risposto a tutte le sue
obiezioni, finché avesse scoperto la verità.
Il capitano era una persona saggia e più volte cercò in tutti i modi
di cogliermi in contraddizione durante il racconto ma alla fine
cominciò a farsi un'opinione migliore della mia sincerità; tuttavia mi
disse che, visto il mio attaccamento tenace alla verità, dovevo dargli
la mia parola d'onore che durante il viaggio non avrei fatto
sciocchezze; altrimenti era costretto a tenermi prigioniero fino a
Lisbona. Glielo promisi, anche se gli dichiarai contemporaneamente che
avrei preferito affrontare una vita di stenti, piuttosto che tornare a
vivere fra gli "yahoo".
Il viaggio si svolse senza particolari imprevisti. Mi sentivo grato
nei confronti del capitano e spesso non potevo rifiutare i suoi inviti
insistenti a sedermi a tavola con lui, cercando in tutti i modi di
nascondere la repulsione che provavo contro il genere umano. Se a
volte mi era impossibile nasconderla, lui faceva finta di niente. Ma
per la maggior parte della giornata preferivo restarmene nella mia
cabina per non vedere nessun marinaio. Il capitano mi invitò più di
una volta a togliermi quelle vesti selvatiche e mi offrì i suoi
migliori abiti: non mi lasciai convincere, poiché mi sentivo
sconvolgere alla sola idea di indossare indumenti smessi da uno
"yahoo". Gli chiesi in prestito solo un paio di camicie che, essendo
state lavate dall'ultima volta che le aveva indossate, non avrebbero
dovuto lasciare alcun afrore. Me le cambiavo ogni due giorni e facevo
il bucato con le mie mani.
Il 5 novembre 1715 entrammo nel porto di Lisbona e, al momento dello
sbarco, il comandante volle assolutamente che indossassi i suoi abiti
per non farmi sopraffare dalla marmaglia incuriosita. Mi portò a casa
sua e, dietro mia insistente richiesta, mi ospitò all'ultimo piano, in
una stanza che dava sul retro. Lo pregai di non dire una parola su
quanto gli avevo raccontato sugli "houyhnhnm", perché se si fosse
risaputa una simile storia, anche se vagamente, sarei stato assediato
dalla gente e avrei corso il rischio di cadere nelle mani
dell'inquisizione, se non di salire sul rogo. Il capitano mi convinse
ad accettare degli abiti nuovi e, siccome non avrei sopportato di
sentirmi addosso le mani del sarto che mi prendeva le misure, ci pensò
Don Pedro che aveva più o meno la mia statura, per cui me li trovai
indosso abbastanza precisi. Mi rifornì anche di altri oggetti
indispensabili, ai quali ebbi l'accortezza di fare prendere aria per
ventiquattro ore prima di usarli.
Il capitano non era sposato, viveva con tre servitori che, comunque,
furono esonerati dal servizio a tavola: inoltre il suo comportamento
pieno di cortesia, unito a un forte senso di bontà e di umana
comprensione, mi fecero tollerare ben presto la sua compagnia. E poi
l'ascendente che aveva su di me aumentò fino a farmi guardare fuori
della finestra interna. Giorno dopo giorno mi convinse a passare in
un'altra stanza e a dare una sbirciata fuori, sulla strada, ma fui
costretto a ritrarmi in preda al panico. Dopo ad una settimana era
riuscito a farmi scendere fino alla porta di casa. Il terrore sembrava
svanire gradualmente, anche se aumentavano il disgusto e la
repulsione. Ebbi il coraggio di accompagnarlo addirittura per strada,
cercando di proteggermi il naso con erba di ruta e a volte con il
tabacco.
Dopo dieci giorni Don Pedro, al quale avevo confidato la mia
condizione familiare, mi disse con estrema franchezza che era mio
assoluto dovere ritornare in patria per vivere con mia moglie e i miei
figli. Aggiunse che attraccata al porto c'era una nave inglese pronta
per salpare le ancore e che lui mi avrebbe fornito del necessario per
il viaggio. Perché stare qui a ripetere le parole con le quali tentava
di convincermi e le mie obiezioni? In fondo, sosteneva non a torto,
un'isola deserta come la volevo io, non esisteva, mentre avrei potuto
vivere in casa mia come mi piaceva, magari come un recluso.
Alla fine acconsentii, visto che non c'era altro da fare. Così il 24
novembre salpai da Lisbona su un mercantile inglese del cui comandante
non volli sapere neppure il nome. Don Pedro mi accompagnò alla nave e
mi prestò venti sterline, poi salutandomi volle darmi un abbraccio che
tollerai facendomi forza. Durante il viaggio feci finta di stare poco
bene e mi chiusi in cabina per non avere contatti con il capitano o
con i suoi uomini. Il 5 dicembre 1715 gettammo l'ancora ai Downs alle
nove del mattino e alle tre del pomeriggio ero già sano e salvo a
Redriff, in casa mia.
Quale non furono la sorpresa e la gioia di mia moglie e del miei
familiari che ormai mi avevano dato per morto! Eppure devo essere
sincero: la loro vista mi riempì di risentimento, di disprezzo e
disgusto che aumentavano quanto più pensavo ai legami che mi tenevano
avvinto a loro. Sebbene fossi stato costretto a tollerare la vista
degli "yahoo" e a conversare con Don Pedro de Mendez dopo il mio
sciagurato esilio dalla terra degli "houyhnhnm", tuttavia nei miei
pensieri c'erano sempre loro, gli "houyhnhnm", con le loro idee e le
esaltanti virtù. Quando poi pensavo che avevo avuto contatti carnali
con una femmina della razza "yahoo" e che avevo messo al mondo altri
esseri della stessa specie, provavo una vergogna indicibile e mi
sentivo sconvolto dall'orrore.
Varcata la soglia, mia moglie mi si gettò al collo baciandomi ed io,
che da tanti anni avevo perso il contatto con quell'animale
repellente, persi i sensi per più di un'ora.
Mentre sto scrivendo, sono ormai passati cinque anni dal mio ritorno
in Inghilterra; durante il primo anno non riuscivo a sopportare la
presenza di mia moglie e dei figli, il loro odore era intollerabile.
Mi era impossibile mangiare con loro, nella stessa stanza, e ancora
oggi non si azzardano a toccare il mio pane o bere nel mio bicchiere
e, quanto a me, non permetto a nessuno di loro di prendermi per mano.
La prima spesa che ho fatto, è stato l'acquisto di due giovani
stalloni che ospito in una stalla sempre pulita. Dopo di loro il mio
prediletto è il garzone, il cui odore di stalla mi rimette al mondo. I
miei cavalli mi capiscono abbastanza bene e passo almeno quattro ore
al giorno a parlare con loro. Cosa siano briglie e sella non se lo
immaginano nemmeno, nutrono per me un affetto sincero e una vera
amicizia.

12 - VERIDICITA' DELL'AUTORE. SUOI SCOPI NEL PUBBLICARE IL PRESENTE
LIBRO. BIASIMO PER QUEI VIAGGIATORI CHE SI ALLONTANANO DALLA VERITA'.
L'AUTORE DIMOSTRA DI NON AVERE SECONDI FINI NELLO SCRIVERE IL SUO
LIBRO. REPLICA AD UN'OBIEZIONE. METODI SEGUITI NEL FONDARE COLONIE.
LODI DEL SUO PAESE NATALE. GIUSTIFICA IL DIRITTO DELLA CORONA SULLE
TERRE DESCRITTE DALL'AUTORE. DIFFICOLTA' NELLA LORO CONQUISTA.
L'AUTORE SI CONGEDA DAL LETTORE, ESPONE COME INTENDE VIVERE PER IL
FUTURO, SUGGERISCE BUONI CONSIGLI E CONCLUDE.

Così, gentile lettore, ti ho raccontato la storia fedele dei miei
viaggi, che comprendono un arco di sedici anni e oltre sette mesi,
cercando costantemente la verità più che gli ornamenti esteriori.
Avrei forse potuto meravigliarti con racconti strani e incredibili, ma
ho preferito raccontarti i fatti così come sono accaduti in uno stile
semplicissimo, perché il mio intento principale è sempre stato quello
di istruirti, non di divertirti.
Sarebbe stato facile per chi, come me, ha viaggiato in terre lontane,
raramente visitate da inglesi o da europei, imbastire descrizioni di
animali portentosi, marini e terrestri; mentre il vero scopo di un
viaggiatore dovrebbe essere quello di migliorare gli uomini, di
renderli più saggi e di temprarne gli animi con esempi buoni e
cattivi, tratti dalla descrizione di terre lontane.
Vorrei che si potesse approvare una legge che costringesse tutti i
viaggiatori, che intendono dare alle stampe le loro relazioni di
viaggio, a giurare al cospetto del lord cancelliere sulla assoluta
veridicità di quanto hanno scritto. Allora la gente non sarebbe più
ingannata, come avviene ai giorni nostri, in cui certi scrittori
rifilano al lettore le più grossolane menzogne, pur di imporre sul
mercato i propri libri. In gioventù ho letto molti libri di viaggi con
grandissimo piacere; ma oggi che ho percorso gran parte del mondo e
sono in grado di smascherare con la mia esperienza molti di quei
racconti favolosi, nutro una vera e propria repulsione per questo
genere di libri e indignazione davanti allo spettacolo della credulità
della gente così volgarmente presa in giro.
Pertanto, visto che i miei amici hanno avuto la bontà di ritenere che
queste mie povere fatiche potranno non essere sgradite al paese, mi
sono imposto questa massima inderogabile: "Sii sempre fedele alla
verità"; né d'altra parte potrei tollerare la minima tentazione, fino
a quando ho presente nella memoria la lezione e l'esempio del mio
nobile padrone e maestro e degli altri illustri "houyhnhnm", dei quali
ebbi l'onore per tanto tempo di essere un umile discepolo:

"Nec si miserum Fortuna sinonem
finxit, vanum etiam, mendacemque improba finget".

So bene che non si ottiene una grande reputazione con questo genere di
scritti che non richiedono né genialità, né sapienza, né altro talento
che non sia una buona memoria e un diario fedele; e so anche che gli
scrittori di viaggi, come i compilatori di dizionari, sono stati
dimenticati, sepolti dalla valanga della produzione recente che li
sovrasta. E' molto probabile che quei viaggiatori che prima o poi
visiteranno le terre descritte in questo libro saranno in grado di
scoprire i miei errori (se ce ne sono) e di fornire altri particolari,
relegandomi fra quanti sono oramai superati e facendo svanire
nell'oblio il mio nome di scrittore. Per chi insegue la fama questa
sarebbe una mortificazione terribile, ma dato che il mio unico fine è
il pubblico bene, non incorrerò affatto in simili disillusioni. Chi
mai leggerà le gesta degli eccelsi "houyhnhnm" senza provare
contemporaneamente vergogna per i propri vizi, quando si consideri
l'unico essere dotato di ragione e signore di questa terra? Di quelle
terre lontane dove dominano gli "yahoo" non ho altro da dire, ad
eccezione di Brobdingnag, che è la nazione meno corrotta e di cui
dovremmo seguire le sagge regole nella morale e nella politica. Ma non
voglio aggiungere altro e preferisco che il lettore assennato rifletta
da sé e tragga le proprie conclusioni.
Mi soddisfa non poco pensare che questa mia opera non andrà incontro a
critiche; quali obiezioni si potranno mai fare a uno scrittore che
racconta soltanto i fatti, così come sono accaduti in lontane
contrade, con le quali non abbiamo alcun interesse commerciale o
politico? Per il resto, ho evitato in ogni modo di cadere in quegli
errori comuni a tutti gli scrittori di viaggi; non prendo partito per
nessuno, ma scrivo sempre spogliandomi da passioni, pregiudizi o
malevolenza nei confronti di chiunque e di qualsiasi gruppo di
persone. Scrivo cioè per perseguire il più nobile degli scopi, che è
quello di informare e istruire il prossimo, e credo senza offendere la
modestia di eccellere, grazie ai lunghi colloqui avuti con i più
egregi "houyhnhnm". Non scrivo per la fama, né per il denaro; ho anzi
evitato ogni parola che potesse suonare come allusione e offesa anche
per quelli che sono prontissimi a raccoglierle. Spero per questo di
potermi considerare, senza ombra di parzialità, un autore
incensurabile, contro il quale si spunteranno gli acuti ingegni di
quella tribù di revisori, critici, osservatori, ponderatori,
denunciatori, postillatori.
Qualcuno mi ha sussurrato all'orecchio che il mio primo dovere di
suddito inglese sarebbe stato quello di inviare un memoriale al
segretario di stato, perché ogni terra scoperta da un suddito
appartiene alla corona. Ho seri dubbi che le eventuali conquiste dei
popoli di cui parlo possano essere compiute con la facilità con la
quale Fernando Cortez sottomise gli Americani indifesi. Quanto ai
Lillipuziani, non credo che ci sia convenienza a allestire una flotta
e un esercito per farli nostri vassalli, mentre non so se sia prudente
andare a stuzzicare quelli di Brobdingnag, o come se la possa cavare
un esercito inglese con un'isola che gli vola sul capo. Gli
"houyhnhnm" hanno indubbiamente poca dimestichezza con la guerra, una
scienza a loro ignota, specie per ciò riguarda le armi da tiro.
Eppure, se fossi ministro, sarei contrario a invadere il loro stato,
perché la saggezza, la concordia, il coraggio, l'amor patrio sono
tutte virtù che compensano di gran lunga le carenze della loro arte
bellica. Immaginati ventimila di loro che irrompono nel mezzo di un
esercito europeo, sconvolgendone le fila, rovesciandone i carri,
scalciando con gli zoccoli fino a ridurre in poltiglia i volti dei
combattenti, tanto da meritare quanto fu detto di Augusto: recalcitrat
undique tutus.
Piuttosto che avanzare proposte di conquista di quel paese magnanimo,
vorrei che fossero loro nella condizione di mandare un numero
sufficiente di cavalli a civilizzare l'Europa, insegnandoci i principi
basilari dell'onore, della giustizia, della temperanza, della verità,
dello spirito civile, della forza d'animo, della morigeratezza,
dell'amicizia, della benevolenza, e della fedeltà: virtù di cui
restano i nomi da noi, nelle opere di autori antichi e moderni, come
posso testimoniare io stesso con le mie scarse letture.
Ma c'era un'altra ragione che mi rendeva poco favorevole a rimpinguare
con le mie scoperte i domini di Sua Maestà: e a dire il vero mi venne
qualche scrupolo riguardo alla giustizia distributiva dei principi,
quando si tratta di allargare i loro possedimenti. Facciamo un
esempio: una ciurma di pirati è trascinata chissà dove dalla tempesta,
finché un mozzo avvista terra dall'albero maestro; sbarcano per
depredare e saccheggiare, si incontrano con un popolo pacifico,
vengono trattati con ogni cortesia, danno un nuovo nome a quella
terra, ne prendono possesso formale in nome del re, piantano in terra
un tavolaccio marcio o una pietra a futura memoria del fatto,
assassinano due o tre dozzine di indigeni, ne trascinano via una
coppia come esemplari, ritornano in patria e ottengono la grazia del
re. Ecco come nasce un nuovo dominio fondato sul diritto divino: alla
prima occasione si mandano delle navi, si deportano o si massacrano
gli indigeni, si torturano i loro capi per sapere dove sia l'oro,
viene data via libera ad ogni atto disumano e ad ogni lussuria, la
terra fuma del sangue dei suoi abitanti; e questa esecrabile banda di
macellai impiegata in una spedizione così devota è una colonia
moderna, mandata a portare la nostra religione e la nostra civiltà ad
un popolo barbaro e idolatra.
Devo dire che tutto questo non ha nulla a che fare con la nazione
britannica, che è di esempio al mondo intero per la saggezza, la cura,
la giustizia con le quali impianta le proprie colonie, per le generose
elargizioni con cui promuove la religione e la sapienza, per la scelta
di pastori devoti e capaci nel diffondere il verbo cristiano, per
l'oculatezza con cui dalla madrepatria invia in quelle colonie persone
sobrie nella vita e nei costumi, per la giustizia rigorosa che assegna
alle colonie funzionari amministrativi integerrimi e di perizia
eccezionale e infine, a coronare l'intero apparato, per l'invio di
governatori vigili e virtuosi, che hanno a cuore sopra ogni altra cosa
la felicità del popolo che governano e l'onore del loro sovrano.
Ma i paesi che ho descritto in questa mia opera non hanno alcuna
voglia di farsi conquistare, ridurre in schiavitù, assassinare e
deportare dai colonizzatori, inoltre non sono produttori di zucchero e
di tabacco, né hanno miniere d'oro e d'argento, per cui penso
umilmente che non meritino in alcun modo né il nostro zelo, né il
nostro valore e nemmeno il nostro interesse. Tuttavia, se quelli che
sono interessati alla faccenda sono di diversa opinione, sono pronto a
deporre sotto giuramento, una volta convocato, che mai uomo europeo ha
conosciuto quelle terre prima di me, se gli abitanti sono degni di
fede.
Quanto poi alla formalità di prenderne possesso in nome del mio
sovrano, non mi sfiorò nemmeno il cervello, e anche se mi fosse venuto
in mente, date le condizioni in cui mi trovavo, sarebbe stato
senz'altro più prudente e salutare rinviarlo a un'altra più propizia
occasione.
Ora che ho risposto all'unica obiezione che mi può essere mossa in
veste di viaggiatore, prendo definitivamente congedo dal cortese
lettore e mi ritiro al piacere della meditazione nel mio giardinetto
di Redriff, a mettere in pratica le sublimi lezioni dei virtuosi
"houyhnhnm", a educare gli "yahoo" della mia famiglia, per quanto sarà
possibile, a rendere docile la loro natura animale, a guardarmi spesso
in uno specchio per abituarmi alla vista di un essere umano ed infine
a deplorare la condizione brutale in cui versano gli "houyhnhnm" del
mio paese, sempre pronto a trattarli con estremo rispetto per amore
del mio nobile padrone, della sua famiglia, dei suoi amici ai quali i
cavalli di qui assomigliano in tutti i loro tratti, sebbene i loro
intelletti portino i segni della degenerazione.
La settimana scorsa ho permesso a mia moglie di pranzare con me
all'altro capo di una tavola molto lunga e di rispondere, anche se con
la massima concisione, alle poche domande che le ho fatto. Tuttavia
l'odore di "yahoo" continua a perseguitarmi e sono costretto a
portarmi continuamente al naso ruta, lavanda e foglie di tabacco.
Sebbene non sia facile per un uomo in là con gli anni cambiare le
proprie abitudini, non dispero di poter sopportare col tempo la
compagnia di qualche "yahoo" del vicinato, senza dover più a trepidare
per i suoi denti e i suoi artigli.
In teoria la mia riconciliazione con la specie "yahoo" sarebbe
possibile, se solo si limitassero a praticare quei vizi e quelle
stoltezze che hanno ereditato dalla natura. Non è la vista di un
avvocato, di un borsaiolo, di un colonnello, di un buffone, di un
lord, di un giocatore, di un politico, di un ruffiano, di un medico,
di un testimonio, di un seduttore, di un procuratore, di un traditore,
o simili che mi irrita: questo è nell'ordine naturale delle cose; ma
quando vedo uno essere orgoglioso di questi cumuli di deformità e di
malanni fisici e morali, allora perdo la pazienza e non riesco più a
capire come una bestia di questa portata possa avere un simile
atteggiamento vizioso. I saggi e virtuosi "houyhnhnm" che hanno tutte
quelle eccellenti doti che accompagnano a una creatura razionale, non
hanno un nome per esprime questo vizio, così come la loro lingua non
ha termini per nominare ciò che è male, eccetto quelli attraverso i
quali descrivono le qualità abominevoli degli "yahoo", anche se fra
queste non sono riusciti a scoprire l'orgoglio. E infatti non
conoscono a fondo la natura dell'uomo, come si mostra in paesi nei
quali ha la supremazia. Da parte mia, avendo una maggior esperienza,
potei vederne già i primi sintomi fra i selvaggi "yahoo".
Gli "houyhnhnm", che vivono sotto il governo della ragione, non sono
orgogliosi delle loro qualità, più di quanto lo sia io per il fatto
che possiedo un braccio o una gamba; e certamente nessuno sano di
mente potrebbe gloriarsene, anche se fosse un disgraziato senza una di
queste membra. Mi sono dilungato su questo argomento per il desiderio
di rendere meno insopportabile la compagnia di "yahoo" inglesi e
perciò, se c'è qualcuno affetto in qualche modo da questo vizio
assurdo, lo scongiuro di non presentarmisi neppure davanti.