Sentenza Corte di Cassazione numero 439?del 1°
marzo 2000
Rifiuto dell’ufficio di scrutatore per motivi di coscienza legati alla
presenza del crocifisso nei seggi elettorali - Giustificato motivo di rifiuto
- Art. 108 D.P.R. del 1957 - Albo degli scrutatori - Nomina dell’ufficio
di scrutatore - Presenza di simboli religiosi nei seggi elettorali - Contrasto
con la libertà di coscienza individuale - Fondamento normativo dell’esposizione
del crocifisso: circolari amministrative e regi decreti - Avvenuta abrogazione
e contrasto con i principi di laicità e di eguaglianza.
(Cost. artt. 19, 8; art. 108 D.P.R. 361 del 1957; artt. 1-6 legge 95 del 1989;
circ. min. p.i. 22 novembre 1922; circ. min. p.i. 26 maggio 1926; o.m. 11 novembre
1923, n. 250; circ. min. g. g. 29 maggio 1926, n. 2134/1867; artt. 118 r.d.
30 aprile 1924 n. 965; all. c) r.d. 26 aprile 1928 n. 1297).
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE IV PENALE
Udienza 1/03/2000 SENTENZA n. 439
Dott. Mariano Battisti, Presidente Dott. Salvatore Bognanni?Dott. Nicola Colaianni
Dott. Luisa Bianchi Dott. Carlo Licari
Ricorso proposto da: Montagnana Marcello avverso sentenza del 28/4/1999?CORTE
APPELLO di Torino (II sez. pen.)
[condanna per aver rifiutato di assumere l’ufficio di scrutatore: art.
108, DPR 361/57]
Relazione: Luisa Bianchi
P.M. Dr. U. Geraci: conclude per il rigetto del ricorso
Difensore Avv. Rossomando: conclude per l’accoglimento del ricorso
. Marcello Montagnana veniva condannato dal pretore di Cuneo alla pena di lire
400.000 di multa per il reato di cui all’art. 108 d.p.r. 30/3/1957, n.
361, perché, designato in occasione delle elezioni politiche del marzo
1994 all’ufficio di scrutatore del seggio elettorale n.71 presso l’ospedale
S. Croce di Cuneo, all’atto dell’insediamento rifiutava di assumere
l’ufficio senza giustificato motivo.
. Risultava, ed è peraltro incontroverso, che il Montagnana già
prima dell’incarico aveva fatto presente con lettere indirizzate al comune
di Cuneo e al presidente della Repubblica che egli avrebbe potuto svolgere le
funzioni di scrutatore solo se fosse stato reso effettivo il rispetto della
libertà di coscienza garantito dalla Costituzione a ciascun cittadino,
e cioè se il ministero dell’interno avesse provveduto a rimuovere
dai seggi elettorali, situati quasi tutti in sedi di istituzioni statali, simboli
o immagini proprie di un’unica fede religiosa. A tali lettere non riceveva
risposta, sicché, presentatosi all’ufficio elettorale al momento
della costituzione, faceva inserire a verbale una dichiarazione con la quale
ricordava di aver scritto le lettere sopra menzionate ed evidenziava che, pur
constatando che nel seggio di sua competenza non era esposto il crocifisso,
riteneva tale circostanza del tutto casuale e non motivata da un provvedimento
della competente autorità che rimuovesse la situazione in tutto il paese,
come necessario per risolvere una questione che egli aveva posto in via generale
e non solo come espressione di intolleranza personale. Dichiarava che, pertanto,
riteneva proprio dovere non accettare tale situazione, denunciandone l’incostituzionalità.
. Il pretore giudicava il motivo addotto dall’imputato non idoneo ad integrare
una legittima facoltà riconosciutagli dall’ordinamento e quindi
a giustificare il rifiuto opposto, ma, su impugnazione del Montagnana, la corte
di appello di Torino assolveva l’imputato perché il fatto non sussiste,
ravvisando invece una correlazione tra la sua condotta e l’invocato principio
costituzionale della laicità dello Stato.
. Su ricorso del procuratore generale, tuttavia, questa corte annullava la sentenza
con rinvio, cosi fissando il principio di diritto: «Il giusto motivo che
consente di rifiutare l’esercizio del diritto di scrutatore nelle competizioni
elettorali deve essere manifestazione di diritti o facoltà il cui esercizio
determini un inevitabile conflitto tra la posizione individuale, legittima e
costituzionalmente garantita in modo prioritario, e l’adempimento dell’incarico
al cui contenuto sia collegato con vincolo di causalità immediata».
. Il giudice di rinvio confermava la sentenza di condanna del pretore di Cuneo.
Osservava la corte torinese che la presenza nei seggi elettorali, situati in
sedi di istituzioni statali, di un simbolo proprio di una fede religiosa non
poteva ritenersi idonea a creare alcun conflitto tra la posizione del M ontagnana
di difesa della libertà dello Stato e della libertà di coscienza
e gli specifici compiti cui egli era chiamato, ossia assicurare la regolare
costituzione del seggio elettorale, l’assenza di turbative alle operazioni
di voto, la regolarità dello spoglio ed in definitiva la corretta manifestazione
della volontà popolare; la presenza di quel simbolo era del tutto indifferente
rispetto al contenuto dell’ufficio imposto all’imputato, così
come indifferente all’esercizio del diritto di difesa era la presenza
del crocifisso nelle aule giudiziarie, parimenti contestato dall’imputato.
Osservava ancora che lo stesso Montagnana aveva offerto una coerente spiegazione
della sua condotta, quella cioè di voler ottenere una pronuncia giudiziale
sulla legittimità delle norme che impongono l’esibizione del crocifisso
nelle sedi statali, in tal modo strumentalizzando la nomina.
. Ricorre per cassazione l’imputato chiedendo l’annullamento della
sentenza in quanto non applica correttamente il principio di diritto fissato
dalla corte di cassazione.
. Deduce che la corte di appello, mentre correttamente ha ritenuto giustificato
il motivo di rifiuto in quanto espressione del diritto a rivendicare il rispetto
del principio di laicità dello Stato, erroneamente invece ha valutato
il contenuto dell’incarico di scrutatore operando una confusione tra i
compiti materialmente svolti dal medesimo (assicurare la regolare costituzione
del seggio elettorale, l’assenza di turbative alle operazioni di voto
e in definitiva la corretta manifestazione della volontà popolare) e
il contenuto dell’ufficio, da individuarsi nell’attribuzione della
veste di pubblico ufficiale.
. Dalla identificazione del contenuto dell’ufficio di scrutatore con il
ruolo di pubblico ufficiale, rappresentante dello Stato nel corso delle operazioni
elettorali, deriverebbe secondo il ricorrente un inevitabile conflitto con la
coscienza di chi ritiene che sia stato violato il principio di laicità
dello Stato: evidente, di conseguenza, la sussistenza di un vincolo eziologico
tra il comportamento del prof. Montagnana, che ha inteso riaffermare la necessità
che l’ordinamento garantisca in ogni sua manifestazione, e dunque anche
nello svolgimento delle consultazioni elettorali, il rispetto del principio
costituzionale della laicità dello Stato ed il rifiuto dal medesimo addotto
di assumere l’ufficio stesso. Contraddittoria sarebbe, inoltre, la sentenza
per aver riconosciuto l’esistenza dell’attenuante dell’aver
agito per motivi di particolare valore morale e sociale, escludendo invece la
sussistenza del giustificato motivo di rifiuto.
. Il ricorso è fondato, giacché il giudice del rinvio non ha adempiuto
all’obbligo di motivare la propria decisione secondo lo schema esplicitamente
enunciato nella sentenza di annullamento, in tal modo svincolandosi dal compimento
della particolare indagine - in precedenza omessa - di determinante rilevanza
ai fini della decisione. All’enunciazione del principio di diritto sopra
riportato, infatti, questa corte faceva seguire l’indicazione degli accertamenti
e delle considerazioni omessi: rispettivamente, «l’esistenza del
vincolo eziologico tra il rifiuto addotto ed il contenuto dell’ufficio
imposto» e la specificità della situazione esistente nel seggio
elettorale, nel quale non era presente «alcun simbolo religioso».
. Fondamentale è il primo accertamento siccome determinante per stabilire
il carattere diretto e immediato della causalità. Il contenuto dell’ufficio
è stato individuato dalla corte nei compiti previsti dalla legge elettorale:
la regolare costituzione del seggio elettorale, l’assenza di turbative
alle operazioni di voto, la regolarità dello spoglio ed in definitiva
la corretta manifestazione della volontà popolare. Cosi, tuttavia, essa
riduce l’assunzione dell’ufficio, oggetto della previsione del reato
contestato, all’espletamento dei compiti ad esso connessi, sui quali «non
impingono» i principî richiamati dal ricorrente, che in nome di
essi perciò semplicemente «strumentalizzava la nomina».
. Ma in realtà il contenuto dell’ufficio imposto consiste solo
indirettamente, per conseguenza, nei compiti o nelle prestazioni ad esso connessi,
ma direttamente ed immediatamente nella funzione di pubblico ufficiale che con
la nomina si viene ad assumere (art. 40 co. 3 d.p.r. 30/3/1957, n. 361). Una
volta designato, infatti, lo scrutatore svolge una pubblica funzione, un’attività,
cioè, che è diretta manifestazione di pubbliche potestà
o - in senso enfatico - dell’autorità dello Stato per la presenza
dei poteri tipici della potestà amministrativa, come indicati dal secondo
comma dell’art. 357 cod. proc. pen. novellato dalle leggi n. 86 del 1990
e n. 181 del 1992 (cfr. Cass. sez. un. 24/09/1998, n. 10086, ced 211190). Il
contenuto dell’ufficio è, quindi, quello di formare e manifestare
la volontà della pubblica amministrazione oppure esercitare poteri autoritativi,
deliberativi o certificativi, disgiuntamente e non cumulativamente considerati
(Cass. sez. un. 27/03/1992, n. 7958, ced 191173): e, quindi, innanzitutto la
«inserzione nell’ufficio» (Cass. 5/5/1992, n. 5332, ced 189972).
. È in relazione a questo immediato contenuto dell’ufficio che
va quindi valutata l’esistenza del rapporto di causalità immediata
con il motivo del rifiuto: ed essa, se pur dubbia o non appariscente in relazione
ai singoli compiti assegnati allo scrutatore, riemerge allora con immediatezza.
Infatti, il ricorrente ha rifiutato di «svolgere la funzione di scrutatore»,
piuttosto che i compiti ad essa connessi, e cioè l’inserzione come
pubblico ufficiale in una amministrazione, che, non provvedendo «affinché
venga rimosso qualsiasi simbolo o immagine religiosa da tutti i seggi elettorali»,
non garantisce, contro il suo convincimento, «il rispetto della irrinunciabile
libertà di coscienza garantita dalla Costituzione a ciascun cittadino»
e del «supremo principio costituzionale della laicità dello Stato».
. L’immediatezza, e non la strumentalità, del rapporto tra il rifiuto
motivato ed il contenuto dell’ufficio imposto emerge da altre due considerazioni.
. La prima riguarda il fatto che il Montagnana non aveva il potere di impedire
previamente l’insorgenza del conflitto che ha dato luogo al rifiuto. Prima,
invero, delle modificazioni introdotte dall’art. 9 della l. 30/4/1999,
n. 120, gli artt. 1, 3, 4, 5-bis e 6 della l. 8/3/1989, n. 95, come modificati
dalla l. 21/3/1990, n. 53, prevedevano che l’albo degli scrutatori - all’interno
del quale veniva sorteggiato il numero di nominativi pari a quello occorrente
(art.6) - fosse formato a sua volta per sorteggio fra tutti gli iscritti nelle
liste elettorali (art. 3) in un numero quattro volte superiore al numero complessivo
di scrutatori da nominare nel comune (art. 1).
. A differenza dell’attuale disciplina - secondo cui l’albo degli
scrutatori è formato su base volontaria e comprende, quindi, solo i nominativi
degli elettori che desiderano essere inseriti in esso e ne fanno apposita domanda
(art. 1 e 3 l. cit., come mod. dall’art. 9 l. 120/99) - la legislazione
vigente all’epoca del fatto in esame prevedeva un albo formato su base
obbligatoria, collegata a due fatti indipendenti dalla volontà del soggetto:
iscrizione nelle liste elettorali e sorteggio. Si trattava, pertanto, di un
ufficio non volontario ma, come definito nella sentenza di annullamento con
rinvio, «imposto».
. Di conseguenza, all’epoca del fatto eventuali situazioni di conflitto
interiore tra i propri convincimenti ed il contenuto dell’ufficio imposto
non potevano trovare né la soluzione radicale, implicita nell’attuale
disciplina, della pura e semplice rinuncia alla domanda né quella, comunque
anticipata, della rinuncia, una volta sorteggiato il proprio nominativo, all
iscrizione nell’albo: la rinuncia, infatti, era un atto non potestativo
ma condizionato alla ricorrenza di «gravi, giustificati e comprovati motivi»
(art. 3 cpv. l. cit.), la cui attualità andava evidentemente valutata
rispetto al momento della formazione dell’albo e non a quello, futuro
ed incerto, della nomina.
. Con riferimento a questo momento, perciò, la legislazione all’epoca
vigente non offriva allo scrutatore sorteggiato e nominato altro rimedio di
soluzione del conflitto che quello del rifiuto motivato dell’ufficio:
posizione che il Montagnana assumeva ed esponeva con immediatezza dopo la comunicazione
della nomina, come risulta dalla narrativa in fatto della sentenza impugnata.
. La seconda considerazione, che fa cogliere l’immediatezza del rapporto
tra motivo del rifiuto e contenuto dell’ufficio imposto, scaturisce dalla
portata dell’invocato principio di laicità dello Stato, che con
quel contenuto ha in comune la nota dell’imparzialità dell’amministrazione
(art. 97 Cost.), in funzione della quale va organizzato l’ufficio elettorale,
in cui lo scrutatore è inserito, in particolare per garantire sotto i
molteplici aspetti formali previsti dalla legge la libera espressione del voto.
. Il principio indicato implica un «regime di pluralismo confessionale
e culturale» (corte cost. 12/4/1989, n. 203) e presuppone, quindi, innanzitutto
l’esistenza di una pluralità di sistemi di senso o di valore, di
scelte personali riferibili allo spirito o al pensiero, che sono dotati di pari
dignità e, si potrebbe dire, nobiltà. Ne consegue una pari tutela
della libertà di religione e di quella di convinzione, comunque orientata:
infatti, anche «la libertà di manifestazione dei propri convincimenti
morali o filosofici» è garantita in connessione con la tutela della
«sfera intima della coscienza individuale» (corte cost. 19/12/1991,
n. 467) conformemente all’interpretazione dell’art. 19 Cost (che
tutela la libertà di religione, non solo positiva ma - come riconosciuto
dalla corte fin dalla sentenza 10/10/1979, n. 117, e ribadito da quella 8/10/1996,
n. 334 - anche negativa: vale a dire, anche la professione di ateismo o di agnosticismo)
e all’art. 9 della convenzione europea dei diritti dell’uomo, resa
esecutiva con l. 4/8/1955, n. 848 (che tutela la libertà di manifestare
«la propria religione o il proprio credo»).
. Il detto principio, inoltre, si pone come condizione e limite del pluralismo,
nel senso di garantire che il luogo pubblico deputato al conflitto tra i sistemi
indicati sia neutrale e tale permanga nel tempo: impedendo, cioè, che
il sistema contingentemente affermatosi getti le basi per escludere definitivamente
gli altri sistemi. Infatti, il concetto di laicità affermato con la sentenza
203/89 cit. non coincide con quello classico ed autorevolmente sostenuto in
dottrina della irrilevanza, e quindi indifferenza, dello Stato ma, all’opposto,
«implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia
dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime
di pluralismo confessionale e culturale».
. Si tratta in questo senso di una laicità positiva o attiva, intesa
come compito dello Stato di svolgere interventi per rimuovere ostacoli ed impedimenti
(art. 3 cpv. Cost.) in modo da «uniformarsi» (corte cost. 27/4/1993,
n. 195) a «quella distinzione tra "ordini" distinti, che caratterizza
nell’essenziale il fondamentale o "supremo" principio costituzionale
di laicità o non confessionalità dello Stato» (corte cost.
8/10/1996, n. 334).
. Così, per esempio, l’eliminazione, operata da quest’ultima
sentenza come dalla precedente 5/5/1995, n. 149, dalla formula del giuramento
di ogni riferimento alla divinità, sul presupposto che «la religione
e gli obblighi morali che ne derivano non possono essere imposti come mezzo
al fine dello Stato», neutralizza l’efficacia civile, cioè
il valore pubblico e strumentale ai fini dello stato, del fattore religioso:
non esclude dalla sfera pubblica gli atti di valenza religiosa e non modifica,
quindi, ne riduce il tasso di pluralismo, ma all’opposto va «nel
senso di un ordinamento pluralista che, riconoscendo la diversità delle
posizioni di coscienza, non fissa il quadro dei valori di riferimento e quindi
né attribuisce né esclude connotazioni religiose al giuramento
ch’esso chiama a prestare».
. La rimozione del simbolo religioso del crocifisso da ogni seggio elettorale,
che è la condizione a cui l’odierno ricorrente aveva subordinato
l’espletamento della funzione di scrutatore = pubblico ufficiale imparziale,
si muove lungo questo solco tracciato dalla giurisprudenza costituzionale in
termini di laicità e pluralismo, reciprocamente implicantisi.
. Invero, il «ritorno» con l’avvento del fascismo del crocifisso
nelle aule delle scuole elementari (circ. min. p.i. 22/11/1922) e poi di ogni
ordine e grado (circ. min. p i. 26/5/1926). nonché negli uffici pubblici
in genere (o.m. 11/11/1923, n. 250) e nelle aule giudiziarie (circ. min. g.
g. 29/5/1926, n. 2134/1867), è comunemente indicato nella dottrina storica
e giuridica come uno dei sintomi più evidenti del neo-confessionismo
statale: tanto emerge, per esempio, dalla circ. 26/5/1926 cit., secondo cui
si tratta di fare in modo che «il simbolo della nostra religione, sacro
alla fede e al sentimento nazionale, ammonisca ed ispiri la gioventù
studiosa, che nelle università e negli studi superiori tempra l’ingegno
e l’animo agli alti compiti cui è destinata».
. Diametralmente opposta, com’è evidente, la laicità come
«profilo della forma di stato delineata nella carta costituzionale della
Repubblica» (corte cost. 203/89 cit.). In particolare, l’imparzialità
della funzione di pubblico ufficiale è strettamente correlata alla neutralità
(altro aspetto della laicità, evocato sempre in materia religiosa da
corte cost. 15/7/1997, n. 235) dei luoghi deputati alla formazione del processo
decisionale nelle competizioni elettorali, che non sopporta esclusivismi e condizionamenti
sia pure indirettamente indotti dal carattere evocativo, cioè rappresentativo
del contenuto di fede, che ogni immagine religiosa simboleggia.
. Anche per tal via, quindi, si conferma l’immediatezza del rapporto tra
motivo del rifiuto e contenuto dell’ufficio imposto. Ma se ne ricava pure
- va osservato anche al fine di valutare la serietà e la responsabilità
della posizione del ricorrente - l’attuabilità della condizione
da lui posta, non impossibile in quanto non estranea agli ordinari poteri della
pubblica amministrazione perché richiedente, per esempio, solo un intervento
legislativo. Come risulta dalle citazioni, infatti, il crocifisso è ricompreso
tra gli arredi delle aule e degli uffici da una serie di circolari ministeriali,
destinate alle autorità subordinate, la cui modificazione rientra pienamente
nel potere dell’amministrazione pubblica.
. Invero, la «mancanza di un espresso fondamento nominativo» risulta
riconosciuta in via amministrativa nella nota del ministero dell’interno
5/10/1984, n. 5160/M/1, in risposta ad un quesito posto dal ministero della
giustizia (prot. 612/14.4 del 29/5/1984) sul mantenimento del crocifisso nelle
aule giudiziarie. Vero è che, ciononostante, quell’amministrazione
ritenne tuttora valide le motivazioni delle circolari citate alla stregua dell’art.
9 degli accordi di modificazione dei patti lateranensi, ratificati con legge
25/3/1985, n. 121, secondo cui «i principi del cattolicesimo fanno parte
del patrimonio storico del popolo italiano» e tenuto conto che il crocifisso
è «il simbolo di questa nostra civiltà», «il
segno della nostra cultura umanistica e della nostra coscienza etica».
Ma si tratta di motivazioni prive di fondamento positivo e divenute, comunque,
insostenibili alla luce della successiva giurisprudenza costituzionale.
. Infatti, il riconoscimento contenuto nell’art. 9 l. cit. è privo
di valenza generale perché non è un principio fondamentale dei
nuovi accordi di revisione ma è funzionale solo all’assicurazione
dell’insegnamento di religione cattolica nelle scuole pubbliche: peraltro,
non obbligatorio ma pienamente facoltativo, limitato cioè agli alunni
che dichiarino espressamente di volersene avvalere, senza che agli altri possa
farsi carico di un onere alternativo (infatti, gli alunni possono anche non
presentarsi o allontanarsi dalla scuola: corte cost. 14/1/1991, n. 13). Esso,
quindi, non vale ad autorizzare l’amministrazione pubblica ad emanare
norme interne dal contenuto più disparato ed in particolare sull’affissione
del crocifisso, per giunta non a richiesta delle persone che le frequentano
(come nel caso dell’istruzione religiosa) ma obbligatoriamente.
. Neppure è sostenibile la giustificazione collegata al valore simbolico
di un’intera civiltà o della coscienza etica collettiva e, quindi,
secondo un successivo parere del consiglio di stato 27/4/1988, n. 63, «universale,
indipendente da una specifica confessione religiosa». In altro ordinamento
dell’unione europea s’è ritenuto, viceversa, una sorta di
«profanazione della croce» non considerare questo simbolo in collegamento
con uno specifico credo (cosi Bundes Verfassungs Gericht, 16 maggio 1995, che
ha dichiarato costituzionalmente illegittima l’affissione obbligatoria
del crocifisso nelle aule scolastiche della Baviera per la conseguente influenza
sugli alunni obbligati a partecipare alle lezioni confrontandosi di continuo
con siffatto simbolo religioso).
. Ma anche nel nostro ordinamento la giustificazione indicata urta contro il
chiaro divieto posto in questa materia dall’art. 3 cost., come ha recentemente
ricordato corte cost. 14/11/1997, n. 329, laddove ha sottolineato - con un’affermazione
tale da assumere la portata di un orientamento generale, al di là della
specifica questione dell’art. 404 c.p. ivi scrutinata - come «il
richiamo alla cosiddetta coscienza sociale, se può valere come argomento
di apprezzamento delle scelte del legislatore sotto il profilo della loro ragionevolezza,
è viceversa vietato laddove la Costituzione, nell’art. 3, 1°
comma, stabilisce espressamente il divieto di discipline differenziate in base
a determinati elementi distintivi, tra i quali sta per l’appunto la religione».
E, nella specie, si differenzia appunto in base alla religione nel momento in
cui si dispone l’esposizione del solo crocifisso.
. D’altro canto, la motivazione del consiglio di stato, siccome fondamentalmente
basata sul non contrasto tra il principio di uguale libertà delle confessioni
religiose e l’esposizione del simbolo indicato, è testualmente
mutuata, con gli aggiustamenti richiesti dal caso, da corte cost. 28/11/1957,
n. 125, riguardante la diversa tutela penale stabilita dall’art. 404 c.p.
Ma quella posizione, che attribuiva alla religione cattolica un valore politico
- simbolo della «civiltà e della cultura cristiana», come
ripete il consiglio di stato -, già ridimensionata da corte cost. 28/7/1988,
n. 925, è stata espressamente superata da corte cost. 329/97 cit., che
ha evidenziato come la visione, strumentale alle finalità dello stato,
della religione cattolica come «religione dello Stato» «stava
alla base delle numerose norme che, anche al di là dei contenuti e degli
obblighi concordatari, dettavano discipline di favore a tutela della religione
cattolica, rispetto alla disciplina prevista per le altre confessioni religiose,
ammesse nello Stato»: che è all’evidenza il caso anche delle
norme sull’esposizione dell’immagine del crocifisso.
. Va per completezza rilevato che accanto alle norme interne dettate con le
ricordate circolari se ne rinvengono altre di natura regolamentare, contenute
nell’art. 118 r.d. 30/4/1924, n. 965, e nell’All. c) r.d. 26/4/1928,
n. 1297, e ritenute da cons. stato cit. non incise dagli accordi di modificazione
dei patti lateranensi, siccome precedenti quei patti. Tali norme secondarie
riguardano solo le scuole elementare e media e si connettono all’art.
140 r.d. 15/9/1860, n. 4336, contenente il regolamento per l’istruzione
elementare di attuazione della 1. 13/11/1859, n. 3725 (cosiddetta legge Casati),
che prescriveva appunto il crocifisso tra gli arredi delle aule scolastiche.
. Esse, quindi, non diversamente da quella legge, trovano fondamento nel principio
della religione cattolica come sola religione dello stato, contenuto nell’art.
1 dello statuto albertino: principio che proprio il punto 1 del protocollo addizionale
degli accordi di revisione del 1984 considera espressamente - se pur ve ne fosse
stato bisogno dopo l’entrata in vigore della Costituzione - non più
in vigore, con conseguenti ricadute implicite sulla normativa secondaria derivata.
Il rapporto di incompatibilità - nel detto parere sbrigativamente ritenuto
insussistente con i sopravvenuti Accordi del 1984, rilevante per l’abrogazione
ai sensi dell’art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale, si pone,
quindi, direttamente non con quelle norme regolamentari bensì con il
loro fondamento legislativo: l’art. 1 dello statuto albertino espressamente
dichiarato non più in vigore «di comune intesa» (preambolo
del prot. add.) con la Santa Sede.
. Va pure aggiunto che, peraltro, quelle norme, in quanto non prevedono una
rimozione del simbolo religioso ogni volta che l’aula venga messa a disposizione
dell’amministrazione dell’interno per lo svolgimento delle operazioni
elettorali, si pongono - non diversamente da quelle interne - in contrasto con
lo spirito garantistico ed imparziale della superiore legislazione elettorale:
la quale si preoccupa di impedire forme simboliche di comunicazione iconografica,
non ammettendo per esempio «la presentazione di contrassegni riproducenti
immagini o soggetti religiosi» (art. 14 u. co. d.p.r. 361/57 e succ. mod.).
. Sta di fatto, tuttavia, che la condizione apposta dal ricorrente non si è
verificata e che egli ne ha tratto motivo, al momento dell’assunzione
dell’ufficio, per non ritenere garantito il principio di laicità
dello stato e quindi - con un rapporto tra causa ed effetto - di imparzialità
della propria funzione di scrutatore, inducendolo ad un’azione di rifiuto
adeguata a tali principî costituzionali.
. Il secondo punto rimesso dalla sentenza di annullamento alla considerazione
del giudice di rinvio riguardava la specificità della situazione esistente
nel seggio elettorale di destinazione del Montagnana, nel quale non era presente
alcun simbolo religioso.
. Esso non è oggetto di specifica considerazione della Corte torinese,
che si limita ad invocarlo incidentalmente a sostegno della tesi, sopra confutata,
della «indifferenza della presenza di quel simbolo rispetto al contenuto
dell’ufficio imposto all’imputato». La valutazione è,
comunque, erronea non solo per i motivi sopra sviluppati ma anche per l’implicita
esclusione della giustificatezza del motivo del rifiuto pure in assenza del
simbolo religioso nel seggio di destinazione.
. Si rileva in proposito dalla sentenza impugnata che il motivo addotto dal
ricorrente riguarda, insieme al rispetto della laicità, la «libertà
religiosa e di coscienza», cui egli immediatamente dopo la comunicazione
della nomina aveva scritto nella lettera al Presidente della Repubblica di «non
intendere rinunciare». Fin dall’inizio, quindi, e non solo al momento
dell’immissione nell’ufficio, era stato denunciato il rischio -
non circoscritto allo specifico seggio di designazione ma riferito all’intera
organizzazione elettorale in relazione alla dotazione obbligatoria di arredi
dei locali, comprendente il crocifisso - di un grave turbamento di coscienza
a causa del conflitto interiore tra il dovere civile di svolgere un ufficio
pubblico e il dovere morale di osservare un dettame della propria coscienza
sulla necessaria garanzia di laicità e di imparzialità di quell’ufficio
(secondo una dinamica analoga a quella analizzata per esempio da corte cost.
149/95 cit.).
. Ora la libertà di coscienza, prospettata per dir così a tutto
tondo, non è divisibile in modo da ritenerla esercitabile solo se riguardi
il seggio di destinazione dell’agente come scrutatore e non la totalità
dei seggi e cioè l’intera amministrazione (sarebbe come se la «obiezione
di coscienza» al servizio militare per opposizione all’uso delle
armi ex art. 1 l. 8/7/1998, n. 230 non fosse esercitabile da parte del cittadino
destinato a compiti meramente amministrativi). Ogni violazione del principio
di laicità nel modo indicato in qualsivoglia seggio elettorale costituito
non può non essere avvertita da una coscienza informata a quel principio
come violazione di quel bene nella sua interezza, indipendentemente dal luogo
in cui si verifichi, cosicché non è possibile attribuire rilevanza
al fatto che casualmente la violazione non si verifichi nel seggio di destinazione.
. La libertà di coscienza, infatti, è un «bene costituzionalmente
rilevante» (sent. 18/7/1989, n. 409) e quindi «dev’essere
protetta in misura proporzionata alla priorità assoluta e al carattere
fondante ad essa riconosciuta nella scala dei valori espressa dalla Costituzione
italiana» (sent. 5/5/1995, n. 149, che richiama la n. 467 del 19/12/1991),
al punto che la stessa libertà religiosa ne diventa una particolare declinazione:
«libertà di coscienza in relazione all’esperienza religiosa»
(sent. 334/96 cit.). Ne consegue che questa libertà, nel «pluralismo
dei valori di coscienza susseguente alla garanzia costituzionale delle libertà
fondamentali della persona» (sent. 3/12/1993, n. 422), va tutelata nella
massima estensione compatibile con altri beni costituzionalmente rilevanti e
di analogo carattere fondante, come si ricava dalle declaratorie di illegittimità
costituzionale delle formule del giuramento, operate dall’alta corte alla
luce di quel parametro.
. Ma nel caso non si pongono problemi a livello costituzionale giacché
il bilanciamento degli interessi è già assicurato nella previsione
penale dalla clausola del giustificato motivo, la cui nozione, ricorrente anche
in altre leggi speciali, è più ampia delle generali cause di giustificazione:
non coincide, per esempio, con lo stato di necessità (Cass. 20/4/1988,
ced 178777) e si estende alle «valide ragioni» (inerenti alla diversa
e specifica destinazione delle armi improprie: Cass. 5/12/1984, ced 166960),
pur se putative (1/7/1989, ced 181694).
. In sostanza si tratta di una nozione che non è fornita dal legislatore
ed è dunque affidata al concetto generico di giustizia, che la locuzione
stessa presuppone, e che il giudice deve pertanto determinare di volta in volta
con riguardo alla liceità - sotto il profilo etico e sociale - del motivo
che determina direttamente il soggetto ad un certo atto o comportamento (così,
con riferimento alla nozione di giusta causa, alla cui assenza secondo l’art.
616 secondo comma cod. pen. consegue la punibilità della rivelazione
del contenuto della corrispondenza, Cass. 10/7/1997, n. 8838, ced 208613).
. Nella specie non è dubitabile la liceità - ed anzi, come ricordato
dall’imputato, il particolare valore morale e sociale, riconosciutogli
con l’attenuante di cui all’art. 62 n. 1 c.p - del motivo da lui
addotto: vale a dire il rispetto del principio di laicità e della libertà
di coscienza, che ha direttamente determinato il rifiuto e che, rendendolo non
contraddittorio con i valori costituzionali, ne esclude perciò l’antigiuridicità.
. Un’interpretazione realistica, che collochi il «giustificato motivo»
nel contesto di azione e comunicazione determinato dalla carta costituzionale,
svolge una funzione adeguatrice all’eliminazione della rilevanza preminente
ed esclusiva per l’addietro assegnata ai simboli della religione cattolica,
in quanto strumentalmente assunta come religione dello stato. Invero, nella
motivazione della sentenza 440/95 cit., in forza della quale la bestemmia contro
i «simboli e le persone venerati nella religione dello Stato», tra
cui il crocifisso, non è più preveduto dalla legge come reato,
la corte costituzionale indica l’obiettivo di una tutela non discriminatoria
ma pluralistica di «tutte le religioni che caratterizzano oggi la nostra
comunità nazionale, nella quale hanno da convivere fedi, culture e tradizioni
diverse»: pluralismo garantito dal supremo principio di laicità
dello stato, che induce a preservare lo spazio «pubblico» della
formazione e della decisione dalla presenza, e quindi dal messaggio sia pure
a livello subliminale, di immagini simboliche di una sola religione (come, in
generale, di una sola delle altre condizioni non discriminabili, di cui all’art.
3 Cost.), ad esclusione delle altre.
. Costituisce, pertanto, giustificato motivo di rifiuto dell’ufficio di
presidente, scrutatore o segretario - ove non sia stato l’agente a domandare
di essere ad esso designato - la manifestazione della libertà di coscienza,
il cui esercizio determini un conflitto tra la personale adesione al principio
supremo di laicità dello Stato e l’adempimento dell’incarico
a causa dell’organizzazione elettorale in relazione alla presenza nella
dotazione obbligatoria di arredi dei locali destinati a seggi elettorali, pur
se casualmente non di quello di specifica designazione, del crocifisso o di
altre immagini religiose.
Il fatto, pertanto, non costituisce reato e la sentenza va annullata senza rinvio.
PQM
La corte di cassazione annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché
il fatto non costituisce reato.
Roma, 1 marzo 2000
Il presidente (Mariano Battisti)
L’estensore (Nicola Colaianni)
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
IV sezione Penale
DEPOSITATO IN CANCELLERIA OGGI - 6 Aprile 2000
IL COLLABORATORE DI CANCELLERIA?Maria Angelilli