Jonathan Swift, I Viaggi di Gulliver

Capitoli su cui verterà la relazione del prof. Rocco Coronato


Dal Libro Primo:

3 - L'AUTORE FA DIVERTIRE L'IMPERATORE E I NOBILI DI ENTRAMBI I SESSI
IN MODO STRAORDINARIO. DESCRIZIONE DEI DIVERTIMENTI ALLA CORTE DI
LILLIPUT. L'AUTORE OTTIENE LA LIBERTA' A DETERMINATE CONDIZIONI.

Il garbo e la mitezza del mio comportamento avevano così ben
impressionato l'imperatore e la corte e non meno l'esercito e la gente
in generale, che cominciai a nutrire qualche speranza di riacquistare
in breve la libertà. Non trascurai niente per favorire questo
atteggiamento di benevolenza. I nativi avevano poco a poco sempre meno
paura che facessi loro del male. Talvolta mi mettevo per terra e
facevo danzare cinque o sei di loro sulla mia mano, e alla fine
ragazzi e ragazze non ebbero paura di mettersi a giocare a nascondino
fra i miei capelli. Avevo ormai fatto notevoli progressi nell'uso
della loro lingua. Un giorno l'imperatore volle intrattenermi con
parecchi dei loro giochi nazionali, nei quali eccellono su tutti i
paesi che ho conosciuto, sia nella abilità che nel fasto. Nessuno mi
divertì quanto quello dei funamboli che ballavano su di un sottile
filo bianco, lungo un mezzo metro e alto da terra un trenta
centimetri. Su questo gioco chiedo al paziente lettore di potermi
dilungare un po'.
A praticare questo esercizio sono solo quelle persone candidate a
ricoprire cariche elevate o alte onorificenze della corte. Fin da
giovani vengono addestrate a questa arte e non tutte sono di sangue
nobile o di cultura liberale. Quando una carica di primo piano è
vacante, perché il titolare è morto o è caduto in disgrazia, cinque o
sei candidati alla successione presentano all'imperatore la richiesta
di potere intrattenere Sua Maestà e la corte esibendosi sulla corda.
Colui che fa più salti senza cadere, ha diritto a subentrare in quella
carica. Molto spesso gli stessi ministri sono obbligati a dare prova
della loro bravura, per convincere l'imperatore che sono sempre in
possesso della loro abilità. Il tesoriere Flimnap, lo riconoscono
tutti, fa capriole sulla corda tesa un centimetro più in alto degli
altri nobili dell'impero. L'ho visto fare il salto mortale parecchie
volte di seguito, sopra una tavoletta fissata alla cordicella non più
spessa di un nostro spago. Dopo di lui viene, se non pecco di
parzialità, il mio amico Reldresal, primo segretario agli interni,
mentre tutti gli altri funzionari più o meno si equivalgono.
Durante i giochi capitano assai spesso incidenti mortali, di cui le
cronache sono piene. Ho visto coi miei occhi due o tre candidati
rompersi le ossa, anche se il pericolo più grande lo corrono gli
stessi ministri che devono comprovare la loro abilità. Perché, presi
come sono dall'ambizione di superare se stessi e i loro colleghi, si
sforzano a tal punto, che nessuno si salva da qualche capitombolo, che
poi sono due o tre per alcuni di loro. Mi venne detto che un anno o
due prima del mio arrivo, il tesoriere Flimnap si sarebbe senza dubbio
rotto l'osso del collo, se la violenza della caduta non fosse stata
attutita da uno dei cuscini del re che per caso si trovava per terra.
C'è poi un'altra gara che, in particolari occasioni, si svolge alla
sola presenza dell'imperatore, dell'imperatrice e del primo ministro.
L'imperatore mette sul tavolo tre sottili fili di seta lunghi dieci
centimetri, uno azzurro, uno rosso e uno verde. Questi fili
costituiscono i premi per coloro che l'imperatore intende distinguere
con un segno caratteristico della sua benevolenza. La cerimonia si
svolge nel gran salone di governo, dove i candidati devono sottoporsi
ad una prova di abilità assai diversa dalla precedente e di cui non ho
visto niente di simile nei paesi del vecchio e del nuovo mondo.
L'imperatore tiene in mano un bastone, le cui estremità sono parallele
all'orizzonte, mentre i candidati, avanzando l'uno dietro l'altro, a
volte saltano sopra il bastone, a volte vi sgusciano sotto, avanti e
indietro per parecchie volte, a seconda che il bastone venga alzato o
abbassato. Capita che l'imperatore tenga un capo del bastone e il
primo ministro l'altro, oppure che sia quest'ultimo tenerlo da
entrambe le parti. Colui che svolge il suo esercizio con maggiore
scioltezza nel saltare e nello strisciare è ricompensato col filo
azzurro, mentre al secondo tocca quello rosso e al terzo quello verde.
Essi se li portano avvolti in due giri attorno alla vita e, fra i
notabili del regno, sono pochi quelli che non sono in grado di
fregiarsi di queste cinture. I cavalli dell'esercito e delle scuderie
imperiali, che erano stati addestrati al mio cospetto, non
recalcitravano più e mi venivano ai piedi senza dar segno di
imbizzarrirsi. Allora stendevo una mano per terra e i cavalieri la
saltavano con i loro cavalli; anzi ci fu un cacciatore reale che, in
sella a un maestoso destriero, mi saltò il piede, scarpa e tutto, con
un balzo straordinario. Un giorno ebbi la ventura di divertire
l'imperatore in maniera veramente singolare. Lo pregai di ordinare che
mi portassero parecchi bastoni grossi come canne da passeggio e lunghi
una sessantina di centimetri. Sua Maestà passò l'ordine al
sovrintendente delle foreste, il quale diede a sua volta istruzioni in
proposito e il giorno seguente arrivarono sei boscaioli con
altrettanti carri trainati ognuno da otto cavalli. Presi nove di
questi pali e li infilai saldamente in terra, formando un quadrato
della superficie di un novanta centimetri, fissai altri quattro
bastoni ad ogni angolo all'altezza di novanta centimetri dal suolo e
ad esso paralleli; poi legai il fazzoletto ai nove pali messi per
dritto tirandolo da tutti i quattro lati, finché si tese come la pelle
di un tamburo, a questo punto i quattro bastoni paralleli, che
sovrastavano il fazzoletto di poco, servirono da ringhiera. Finito il
lavoro, chiesi all'imperatore che facesse salire su questa piattaforma
un gruppo dei suoi migliori cavalleggeri, in tutto ventiquattro, per
esercitarsi. Sua Maestà accettò la mia proposta ed io li presi uno ad
uno con la mano, cavallo e tutto, con i rispettivi ufficiali di
addestramento. Formati i ranghi, si divisero in due squadre dando
luogo a finte scaramucce, scagliando frecce spuntate, sguainando le
spade, fuggendo e inseguendo, attaccando e battendo in ritirata; in
breve, dettero un saggio della più perfetta disciplina militare che
avessi mai visto. I bastoni trasversali impedivano che cavalli e
cavalieri cadessero sopra al palcoscenico e l'imperatore si divertì a
tal punto da ordinare che questi giochi fossero ripetuti per diversi
giorni. Una volta si fece sollevare lui stesso per impartire i comandi
e, non senza poche difficoltà, persuase la stessa imperatrice a farsi
sollevare da me entro la sua portantina, per potere godere la scena a
un due metri dalla piattaforma. Per fortuna durante questi spettacoli
non avvennero disgrazie; solo una volta un cavallo focoso, che
apparteneva ad uno dei capitani, scalpitando, lacerò con lo zoccolo il
fazzoletto facendoci un buco e, mancandogli il piede, ruzzolò insieme
al cavaliere, ma venni subito loro in aiuto. Con una mano infatti
tappai il foro, mentre con l'altra misi a terra le squadre allo stesso
modo in cui le avevo fatte salire. Il cavallo che era caduto si slogò
la spalla sinistra, ma il cavaliere se la cavò senza un graffio e a me
non rimase che rammendare alla meglio il fazzoletto, deciso d'ora in
poi a non fidarmi più della sua resistenza in imprese tanto
pericolose.
Due o tre giorni prima della mia liberazione, mentre intrattenevo la
corte con questa specie di spettacoli, arrivò un corriere per
informare Sua Maestà che alcuni dei suoi sudditi, mentre cavalcavano
nelle vicinanze del luogo dove ero stato catturato, avevano scorto una
gran roba nera distesa al suolo, dalla forma strana, alta come una
persona nel mezzo e larga come la camera da letto imperiale. Non si
trattava di una cosa viva, come avevano supposto in un primo momento,
perché giaceva immobile sull'erba, sebbene alcuni di loro vi avessero
girato attorno varie volte. Salendo uno in groppa all'altro avevano
raggiunto la cima che era apparsa piatta e liscia mentre, camminandoci
sopra, si era dimostrata cava. Ritenevano che si trattasse di un
qualchecosa appartenente all'Uomo Montagna e, col beneplacito di Sua
Maestà, prendevano l'impegno di trasportarla a corte con cinque
cavalli. Capii subito cosa avevano trovato, e in cuor mio, mi
rallegrai della notizia.
Quando dopo il naufragio avevo guadagnato la riva, ero talmente
frastornato che, prima di raggiungere il luogo dove mi ero
addormentato, dovevo aver perso il cappello che pure mi ero legato al
capo con un sottogola quando ero sulla barca e che non si era
slacciato per tutto il tempo che avevo nuotato. Per qualche accidente
casuale, il laccio si era rotto e ero convinto di averlo perso in
mare. Pregai Sua Maestà di disporre che mi fosse riportato il prima
possibile, dopo avergli descritto la natura e l'uso di
quell'indumento. Il giorno dopoo, infatti, eccomelo trascinato dai
carrettieri, sebbene non si potesse dire che fosse in buono stato.
Nella falda, a un paio di centimetri dall'orlo, avevano fatto due
buchi nei quali avevano infilato due uncini e questi, a loro volta,
erano legati con una lunga corda ai finimenti dei cavalli. E così il
mio cappello era stato trascinato per più di mezzo miglio inglese.
Comunque devo dire che rimase danneggiato molto meno del previsto,
grazie all'uniformità e levigatezza di quella terra.
Due giorni dopo questo avvenimento, venne ordinato all'esercito
acquartierato dentro e tutto intorno alla capitale lo stato di
all'erta, perché all'imperatore era venuto il ticchio di divertirsi in
modo assai strano. Volle che mi piazzassi ritto e a gambe il più
possibile divaricate, come il Colosso di Rodi. Quindi ordinò al suo
generale, vecchio condottiero pieno di esperienza, e mio gran
protettore, di schierare le truppe a ranghi serrati e di farle sfilare
sotto di me al rullo dei tamburi: la fanteria in file di ventiquattro
e la cavalleria di sedici, con le bandiere al vento e lance in resta.
In tutto erano tremila fanti e un migliaio di cavalieri. Sua Maestà
ordinò, pena la morte, che ogni soldato si attenesse al più stretto
senso di decenza nei miei confronti, anche se alcuni degli ufficiali
più giovani alzarono lo stesso gli occhi mentre mi passavano sotto. E
devo dire che i miei calzoni erano allora così mal ridotti, che non
mancarono occasioni di riso e di meraviglia.
Avevo inviato tanti memoriali e petizioni per ottenere la libertà, che
alla fine l'imperatore ne parlò prima nel gabinetto privato e poi
nella seduta plenaria del consiglio, dove nessuno si oppose ad
eccezione di Skyresh Bolgolam che si compiaceva, senza che lo avessi
mai provocato, di essere mio nemico mortale. Ma tutto il consiglio gli
votò contro e l'imperatore sanzionò la decisione. Questo ministro era
"galbet", o ammiraglio del regno, godeva la cieca fiducia del sovrano
ed era molto capace nei suoi compiti sebbene fosse una persona dal
carattere acido e rude. Alla fine lo convinsero ad acconsentire, ma
lui ottenne in cambio di stilare gli articoli e le condizioni che
regolavano la mia libertà e sui quali ero tenuto a giurare. Fu lo
stesso Skyresh Bolgolam, seguito da due sottosegretari e da diverse
persone di rango, a portarmi il documento con gli articoli in oggetto.
Dopo che mi furono letti, mi chiesero di giurare fedeltà ai patti,
prima secondo il costume della mia patria, quindi nel loro, il quale
consisteva nel tenermi il piede destro con la mano sinistra, mettendo
il dito medio della destra sul cucuzzolo e il pollice sulla punta
dell'orecchio sinistro. E poiché il lettore può essere curioso di
conoscere approssimativamente lo stile e le maniere espressive di quel
popolo, nonché gli articoli alle cui condizioni ottenni la libertà, ho
tradotto l'intero documento, parola per parola, e ora lo presento al
pubblico:

"GOLBASTO MOMAREN EVLAME GURDILO SHEFIN MULLY ULLY GUE, potentissimo
imperatore di Lilliput, delizia e terrore dell'universo, i cui
possedimenti si estendono per cinquemila "blustrug" (una circonferenza
di circa dodici miglia) ai confini del globo; monarca di tutti i
monarchi, più alto di tutti i figli dell'uomo, i cui piedi calpestano
il centro dell'universo e la cui testa batte contro il sole, al cui
cenno i principi della terra si sentono tremare le ginocchia; dolce
come la primavera, propizio come l'estate, ferace come l'autunno,
terribile come l'inverno; Sua Maestà Altissima propone all'Uomo
Montagna, giunto recentemente nei nostri celesti domini, i seguenti
articoli che egli si impegna a rispettare con giuramento solenne.
1. L'Uomo Montagna non partirà dai nostri domini senza nostra
autorizzazione, munita del gran sigillo.
2. Non potrà permettersi di entrare nella capitale senza nostro
specifico ordine, nel qual caso verrà dato un preavviso di due ore
agli abitanti per ripararsi in casa.
3. Il suddetto Uomo Montagna limiterà le proprie passeggiate alle
strade principali e più spaziose ed eviterà di camminare o sdraiarsi
sui prati o sui campi di grano.
4. Mentre percorre le strade sopraddette avrà la massima cura di non
calpestare i nostri amati sudditi, cavalli e carri; né potrà prendere
in mano alcuno, senza suo permesso.
5. Se si dà il caso di dover trasmettere una notizia urgente, l'Uomo
Montagna dovrà portare nella sua tasca ambasciatore e cavallo, per un
viaggio di sei giorni ogni luna, e, se richiesto, riportare al
cospetto di Sua Maestà detto ambasciatore sano e salvo.
6. Sarà nostro alleato contro il nemico dell'isola di Blefuscu e farà
quanto sarà in suo potere per distruggerne la flotta che è in procinto
di invaderci.
7. Nei momenti di ozio, detto Uomo Montagna darà assistenza ai nostri
operai, aiutandoli a sollevare le pietre più grosse per terminare il
muro del parco principale ed altri nostri edifici reali. Detto Uomo
Montagna dovrà fornirci, nel tempo di due lune, l'esatta misura dei
nostri territori contando i passi tutt'intorno alla costa.
Per ultimo, dietro solenne giuramento di rispettare i sopracitati
articoli, detto Uomo Montagna riceverà giornalmente una provvigione di
cibo e di bevande sufficiente al mantenimento di 1728 dei nostri
sudditi; avrà libero accesso alla nostra Augusta Persona e riceverà
altri segni della nostra benevolenza. Dato nel nostro Palazzo di
Belfoborac il dodicesimo giorno della novantesima luna del nostro
regno."

Fu con somma gioia che giurai e sottoscrissi queste clausole, per
quanto alcune di esse non fossero tanto onorevoli quanto avrei
desiderato, frutto esclusivamente della malevolenza dell'alto
ammiraglio Skyresh Bolgolam. Mi furono dunque tolte le catene e fui
completamente libero, l'imperatore in persona mi fece l'onore di
presiedere all'intera cerimonia. Gli dimostrai tutta la mia
riconoscenza prostrandomi ai suoi piedi, ma lui mi ordinò di alzarmi;
poi, dopo molte parole piene di benevolenza, che taccio per non
apparire vanitoso, aggiunse di sperare che sarei stato un utile
servitore e che avrei ben meritato quei segni di favore che mi aveva
già manifestato o che avrei potuto ancora ricevere in futuro.
Non sarà sfuggito al lettore che nell'ultima clausola concernente la
mia liberazione, l'imperatore si impegnava a fornirmi tanto vitto
quanto bastava al mantenimento di 1728 lillipuziani. Qualche tempo
dopo, quando chiesi a un amico cortigiano in che modo avevano
stabilito quel numero, mi rispose che i ragionieri di Sua Maestà,
misurata l'altezza del mio corpo per mezzo di un quadrante, rilevando
che essa stava alla loro nella proporzione di dodici a uno, tratta la
conclusione che, vista la somiglianza dei corpi, il mio doveva
contenerne almeno 1728 dei loro, avevano stabilito che questo aveva
bisogno di tanto cibo quanto ce ne voleva per mantenere quel numero di
lillipuziani. Dal che il lettore può farsi un'idea dell'ingegnosità di
quel popolo, come dell'economia saggia ed accorta di quel grande
monarca.





4 - DESCRIZIONE DI MILDENDO, CAPITALE Dl LILLIPUT, E DEL PALAZZO
DELL'IMPERATORE. L'AUTORE SI INTRATTIENE CON IL PRIMO SEGRETARIO
PARLANDO DEL GOVERNO DELLO STATO. L'AUTORE OFFRE AIUTO ALL'IMPERATORE
IN CASO DI GUERRA.

Ottenuta la libertà, la prima richiesta che feci fu quella di poter
vedere la capitale di Mildendo. L'imperatore me lo accordò subito,
chiedendomi espressamente di non danneggiare né abitanti né case. Fu
emesso un proclama col quale si avvertiva il popolo della mia
intenzione di visitare la città. Questa è circondata da una muraglia
alta circa ottanta centimetri e larga una trentina, così che ci si può
scarrozzare sopra benissimo con cocchio e cavalli, ed è fiancheggiata
da potenti torrioni ogni tre metri.
Scavalcai la grande porta occidentale e cominciai a camminare di
sghembo e con accortezza per le strade principali, con il solo
giubbetto addosso, per paura di danneggiare i tetti e le grondaie
delle case con le falde della giacca. Camminai con estrema
circospezione, attento a non calpestare chi si fosse trovato per
strada, malgrado la perentorietà dell'ordinanza, che imponeva a
chiunque di non uscire, se non a proprio rischio e pericolo. Le
finestre più alte e i tetti erano talmente affollati di spettatori,
che non credo di aver mai visto un luogo altrettanto gremito. La città
è un quadrato perfetto con il lato di centocinquanta metri ed oltre.
Le due strade maestre, che incrociandosi formano i quattro quartieri,
sono larghe un metro e mezzo, mentre i vicoli e le strade minori che
vidi passando, senza poterci entrare, sono larghi dai trenta ai
quaranta centimetri. La città può contenere cinquecentomila anime. Le
case sono da tre a cinque piani, ben forniti negozi e mercati.
Il palazzo imperiale è al centro della città, all'incrocio delle vie
maestre. E' circondato da un muro alto sessanta centimetri che si
sviluppa a un sei metri di distanza. Da Sua Maestà ebbi il permesso di
scavalcare il muro di cinta e poiché c'era spazio abbastanza, mi fu
possibile osservarlo da ogni lato. Il cortile esterno è un quadrato di
dodici metri ed incorpora altri due cortili; in quello più interno ci
sono gli appartamenti reali, che desideravo proprio vedere, sebbene
fosse assai difficile, perché i portali che immettevano da una piazza
all'altra erano alti quaranta centimetri e larghi una ventina. Inoltre
gli edifici della corte esterna erano alti almeno un metro e mezzo e
non li potevo scavalcare senza recare danni ingenti al complesso,
sebbene le mura fossero di solide pietre squadrate e dello spessore di
dodici centimetri. Eppure l'imperatore voleva ardentemente che potessi
ammirare il suo magnifico palazzo, ma questo non mi fu possibile se
non in capo a tre giorni, durante i quali tagliai alla base, col mio
coltello, alcuni degli alberi più maestosi del parco reale che si
trovava a un cento metri dalla città. Con questi alberi costruii due
sgabelli dell'altezza di un metro e abbastanza solidi da reggere il
mio peso. Avvertita una seconda volta la popolazione, percorsi di
nuovo la città fino al palazzo con in mano gli sgabelli. Quando fui di
fianco alla corte esterna, salii su uno dei banchetti e tenendo
l'altro in mano, lo passai sopra il tetto deponendolo quindi, con la
massima attenzione, nello spazio fra il primo e il secondo cortile,
che ha una superficie di meno di mezzo metro. Scavalcati agevolmente
gli edifici e tirato sù il banchetto per mezzo di una fune con un
uncino, mi trovai nella corte interna, e allora, distesomi di fianco,
avvicinai il viso alle finestre dei piani intermedi, lasciate aperte
appositamente, e potei scorgere gli appartamenti più stupendi che si
possano immaginare. L'imperatrice e i principini erano nelle loro
stanze, attorniati dalle personalità del seguito. Sua Maestà
l'imperatrice si compiacque di sorridermi graziosamente, tendendomi
fuori della finestra la mano da baciare.
Ma non voglio anticipare al lettore descrizioni di questo genere che
ho riservato per un'opera più grande, quasi pronta ormai per la
stampa, contenente una descrizione generale di questo impero, fino
dalla sua fondazione, attraverso una lunga stirpe di principi e con
particolare riferimento alle sue guerre, alle istituzioni, alle leggi,
alla cultura, alla religione, alle piante e agli animali, ai costumi e
a tutti i modi di vivere che caratterizzano questa terra, senza per
questo tralasciare anche altre notizie curiose ed istruttive. Per ora
è mia intenzione riferire fatti e avvenimenti accaduti a quel popolo o
a me stesso durante la permanenza di circa nove mesi in quell'impero.
Un mattino, quindici giorni dopo la mia liberazione, il primo
segretario agli affari privati (come è chiamato) Reldresal venne a
trovarmi accompagnato da un solo servitore. Lasciata la carrozza ad
una certa distanza, mi chiese di riservargli un'udienza di un'ora.
Acconsentii subito, sia per riguardo alla sua posizione e ai suoi
meriti personali, sia ricordando i buoni servigi che mi aveva reso
quando avevo rivolto le mie suppliche alla corte. Dissi che mi sarei
disteso al suolo per ascoltarlo meglio, ma lui preferì che lo tenessi
in mano. Poi cominciò col complimentarsi per la mia liberazione, nella
quale disse che qualche merito spettava pure a lui, ma che dovevo
ringraziare come stavano andando le cose a palazzo, altrimenti non
l'avrei ottenuta tanto alla svelta. "Perché," aggiunse, "dietro le
condizioni di prosperità come possono apparire ad occhi estranei, il
nostro paese è tormentato da due grossi malanni: all'interno la
violenza delle fazioni e all'esterno il pericolo d'invasione di un
potente nemico. Per quanto riguarda il primo, devi sapere che per più
di settanta lune questo impero è stato diviso da due partiti in lotta
fra di loro, denominati "Tramecksan" e "Slamecksan", dai tacchi alti e
dai tacchi bassi che portano come loro segno di distinzione.
"Sebbene si sostenga che i tacchi alti siano più conformi allo spirito
della nostra antica costituzione, sia come sia, Sua Maestà ha imposto
a tutti i funzionari dell'amministrazione governativa e degli uffici
dipendenti dalla corona l'uso dei tacchi bassi, come puoi vedere coi
tuoi stessi occhi. Quelli di Sua Maestà sono addirittura più bassi di
un "drurr" rispetto a quelli degli altri cortigiani (il "drurr"
corrisponde alla quattordicesima parte di un centimetro). Il rancore
fra questi due partiti si è inasprito così tanto, che i suoi
componenti si rifiutano di bere e di pranzare insieme e addirittura di
rivolgersi la parola. Riteniamo che i "Tramecksan" o "Tacchialti"
siano maggiori di numero, ma senza dubbio il potere è tutto in mano
nostra.
"Temiamo tuttavia che Sua Maestà Imperiale, l'erede al trono, dimostri
qualche simpatia per i tacchi alti; è comunque certo che porta uno dei
due tacchi più alto dell'altro, il che gli conferisce la tipica
andatura dello zoppo. Ora, nel colmo di queste lotte intestine, siamo
minacciati da un'invasione da parte degli abitanti dell'isola di
Blefuscu, l'altro grande impero dell'universo, vasto e potente quanto
quello di Sua Maestà. Per quanto riguarda, infatti, la tua
affermazione, che ci sarebbero altri regni ed altri stati nel mondo,
abitati da esseri della tua grandezza, i nostri filosofi sono alquanto
scettici e sono inclini a pensare che tu sia piovuto dalla Luna o da
una stella. E' comunque certo che un centinaio di esseri del tuo peso
basterebbero a distruggere in un batter d'occhio i prodotti agricoli e
il bestiame dei territori di Sua Maestà. Inoltre non c'è il minimo
accenno ad altri paesi, che non siano i grandi imperi di Blefuscu e di
Lilliput, nelle storie delle seimila lune. Ma questi due potenti stati
si sono impegnati in una reciproca ostinatissima guerra per trentasei
lune. Ora ascolta quale ne fu l'occasione. E' da tutti ammesso che il
modo consueto di bere un uovo è di romperlo dalla punta larga; ma il
nonno di Sua Maestà, apprestandosi un giorno, quando era bambino, a
bere un uovo e avendolo rotto secondo l'uso degli antichi, si graffiò
un dito. In conseguenza di ciò, l'imperatore suo padre, emanò un
editto col quale si imponeva ai sudditi, con la minaccia di pene assai
rigorose, di rompere le uova dalla parte della punta stretta. Il
popolo reagì violentemente a questa legge, tanto che, come ci narrano
le storie, ci furono sei rivoluzioni durante le quali un imperatore
perse la vita e un altro la corona. A fomentare queste guerre civili
furono sempre gli imperatori di Blefuscu, presso i quali trovavano
rifugio gli esiliati, non appena veniva soffocata una rivoluzione. Si
calcola che non meno di undicimila persone abbiano preferito la morte,
piuttosto che accettare di rompere le uova dalla punta stretta. Su
questa controversia sono usciti centinaia di grossi volumi, anche se i
libri dei Puntalarga sono stati proibiti da lungo tempo e gli
appartenenti a quel partito siano stati interdetti a termini di legge
da ogni impiego. Durante queste discordie gli imperatori di Blefuscu
ci presentarono, per mano dei loro ambasciatori, numerose proteste,
accusandoci di avere aperto un vero scisma religioso, poiché avremmo
offeso uno dei dogmi della dottrina del nostro profeta Lustrog,
espressa nel capitolo cinquantaquattresimo del Brundrecal (che è il
loro Corano). Si ritiene tuttavia che questo sia stato un voler
forzare il testo, le cui parole dicono esattamente che tutti i
credenti dovranno rompere le uova dalla parte giusta. Ora, è mia umile
opinione che decidere della parte giusta spetti alla coscienza
individuale o in ultima istanza al supremo magistrato. Ma i Puntalarga
esiliati hanno ottenuto un così gran credito alla corte di Blefuscu e
tanti aiuti materiali e morali dal loro partito in patria, che per
trentasei lune si è combattuta una guerra sanguinosa tra i due paesi
con alterne vittorie e durante le quali abbiamo perso quaranta galeoni
da guerra e un numero assai più grande di vascelli minori, con i loro
equipaggi di marinai esperti e di soldati, per un totale di trentamila
persone. I danni arrecati al nemico si pensa che siano maggiori dei
nostri. Esso tuttavia ha equipaggiato una flotta numerosa con la quale
si prepara ad invaderci, e per questo Sua Maestà, confidando nella tua
forza e nel tuo valore, mi ha ordinato di esporti questo stato di
cose."
Pregai il segretario di farsi latore a Sua Maestà dei miei devoti
omaggi e di informarlo che non intendevo, come straniero, immischiarmi
nelle loro faccende private, ma che ero pronto a dare la mia vita per
difendere la sua vita e il suo regno contro l'invasore.


6 - CULTURA, LEGGI E COSTUMI DEGLI ABITANTI Dl LILLIPUT. L'EDUCAZIONE
DEI FIGLI. LE ABITUDINI DELL'AUTORE IN QUELLA TERRA. COME RIABILITO'
UNA GRANDE DAMA.

Sebbene voglia stendere un trattato a parte per descrivere questo
impero, tuttavia mi fa piacere nel frattempo darne un'idea generale al
lettore. Tutti gli animali, le piante e gli alberi di questa terra
sono in proporzione con l'altezza degli uomini che è, come abbiamo
visto, meno di quindici centimetri; così per esempio i cavalli e i
buoi più alti vanno da dieci a quindici centimetri, le pecore sono
alte quattro centimetri, o giù di lì, le oche son come passeri e via
di seguito nella scala discendente, fino ad arrivare agli esseri più
piccoli che erano quasi invisibili ai miei occhi. La natura aveva del
pari dotato la vista dei lillipuziani in conformità del loro mondo;
questa era infatti acutissima ma incapace di vedere lontano. Tanto per
dare un'idea della loro vista a distanza ravvicinata, ricorderò di
essermi beato a vedere un cuoco farcire un'allodola più piccola di una
mosca e una ragazzina cucire con un ago invisibile e un altrettanto
invisibile filo. Gli alberi più alti, che si trovano nel grande parco
reale, raggiungono i due metri e riuscivo a malapena a toccarne la
cima. Vengono poi, in proporzione, tutte le altre piante, che lascio
all'immaginazione del lettore.
Non ho granché da dire per il momento della loro cultura, che aveva
conosciuto per anni una grande fioritura in tutti i settori. Ma la
loro scrittura è certamente singolare poiché non corre da sinistra a
destra come per gli europei, né da destra a sinistra come per gli
arabi, né dall'alto al basso come per i cinesi, né dal basso verso
l'alto come per i cascagi, bensì di traverso, da un angolo all'altro
del foglio, come fanno le signore inglesi.
Seppelliscono i loro morti a testa all'ingiù perché credono che dopo
dodicimila lune risorgeranno e durante quel periodo la terra, che loro
ritengono piatta, si sarà rovesciata completamente, così che quelli,
al momento della resurrezione dei corpi, saranno belli e pronti su due
piedi. I saggi ammettono l'assurdità di questa dottrina, eppure si
continua a praticarla per compiacere alle credenze del volgo. Certe
leggi e certi costumi di questo impero sono davvero singolari, tanto
che sarei tentato di giustificarle, se non facessero a pugni con
quelle del mio paese. C'è solo da sperare che vengano rispettate con
la stessa solerzia. La prima, alla quale mi riferisco, riguarda le
spie: ogni delitto contro lo stato viene punito con estrema severità;
tuttavia, se l'accusato dimostra durante il processo la sua innocenza,
l'accusatore viene immediatamente condannato ad una morte infamante,
mentre le sue terre e i suoi beni costituiranno una ricompensa quattro
volte maggiore per la perdita di tempo, per il pericolo corso, per il
rigore della prigione, per le spese di difesa sostenute dall'accusato.
Se i beni del delatore sono insufficienti, supplirà la Corona.
L'imperatore in persona gli conferirà in pubblico un segno della sua
stima e la sua innocenza verrà proclamata dai banditori nei rioni
della città.
Considerano la frode un delitto più grave del furto e succede
raramente che non venga punita con la morte; infatti loro ritengono
che, se la cura e la vigilanza esercitate da un comune cervello
possono preservare i beni personali dalle unghie dei ladri, non ci
sono chiavistelli con i quali l'uomo comune riuscirà a difendersi da
un'astuzia diabolica. Inoltre, poiché è necessario un rapporto
continuo di compravendita a credito, là dove si permettesse o si
indulgesse all'esercizio della frode, o non ci fossero leggi per
punirla, l'onesto ci rimetterebbe sempre le penne a tutto vantaggio
del manigoldo. Mi ricordo che, quando tentai di intercedere presso il
re in favore di uno sciagurato che si era appropriato di una somma di
denaro destinata al suo padrone, involandosi con essa, avendogli fatto
osservare, allo scopo di attenuare la colpa, che in fondo si trattava
solo di abuso di fiducia, sembrò orrendo a Sua Maestà che portassi a
difesa di quell'uomo la peggiore delle aggravanti; a me rimase ben
poco da replicare, oltre il luogo comune che dice "paese che vai,
usanze che trovi", rosso di vergogna come ero.
Ricompense e punizioni costituiscono l'asse intorno al quale gira la
ruota dello stato, eppure non mi è capitato mai di vedere questa
massima messa in pratica come a Lilliput. Chiunque è in grado di
esibire prove sufficienti di settantatre lune filate di rispetto alle
leggi statali, ha diritto a privilegi, variabili a seconda della
condizione sociale, insieme ad una certa somma di denaro da prelevare
da un fondo destinato a questo fine; contemporaneamente gli viene
conferito il titolo di "Snilpall" o "Legale" da aggiungere al suo
nome, senza che tuttavia possa essere trasmesso ai figli. Sembrò loro
un limite gravissimo della nostra legislazione, il fatto che da noi le
leggi infliggono soltanto pene. Per questo l'immagine della giustizia
che viene raffigurata nei loro tribunali ha sei occhi, due davanti,
due di dietro ed uno per lato, a significare la sua estrema
circospezione, ed inoltre una borsa di monete d'oro, aperta, nella
mano destra e una spada nel fodero nella sinistra, per dimostrare che
essa è più incline alla ricompensa che alla punizione.
Quando scelgono il personale per ogni tipo di impiego, considerano la
moralità dell'individuo molto di più della sua abilità; e poiché il
governo è necessario all'umanità, sono convinti che un comune cervello
sia idoneo ad un compito come ad un altro, e che la Provvidenza non si
è sognata mai di fare del governo un'attività misteriosa,
comprensibile ad un ristretto numero di intelligenze superiori, di cui
non ne nascono più di due o tre in un secolo. Essi invece pensano che
tutti sono dotati di sincerità, giustizia, temperanza e simili; virtù,
queste, la cui osservanza, unita all'esperienza e alle buone
intenzioni, saranno sufficienti a rendere idoneo un individuo al
servizio del suo paese, eccetto quei casi nei quali sia richiesto uno
specifico corso di studi. Ma non c'è dote intellettuale straordinaria
che possa rimpiazzare la mancanza di virtù etiche, e gli impieghi non
possono essere affidati alle mani di simili individui. In ogni caso
gli errori commessi per ignoranza, in assenza di cattiva intenzione,
non saranno mai tanto funesti per il bene pubblico come quelli
commessi da uno, disposto per natura alla corruzione, che in più
sappia manovrare abilmente per difendere e moltiplicare i suoi
raggiri.
In modo simile si negano cariche pubbliche a quanti non credono alla
Divina Provvidenza; ed infatti, visto che i sovrani si ritengono
inviati della Provvidenza, non c'è cosa più assurda per i lillipuziani
di un principe che affida incarichi a persone che disconoscono
quell'autorità in nome della quale egli agisce.
Nel dare un sunto di queste e di altre leggi che seguiranno, sappia
bene il lettore che mi riferisco alle istituzioni primitive di quel
popolo e non allo scandalosissimo stato in cui si è ridotto, per la
natura degenerata dell'uomo. Per quanto concerne le vergognose
abitudini di acquistare cariche danzando sulla corda, o posti di
prestigio saltando sopra i bastoni o strisciandovi sotto, faccio
osservare al lettore che furono introdotte per la prima volta dal
nonno dell'attuale sovrano e che si sono sviluppate fino all'attuale
rigoglio grazie al progressivo aumento delle lotte faziose.
L'ingratitudine è per loro un delitto capitale, così come si legge che
sia stato anche in altri paesi. Loro infatti ragionano in questo modo:
se uno rende il male a chi gli ha fatto del bene, come potrà il resto
del genere umano, che non ha fatto nulla, considerarlo un fratello?
Per questo un simile uomo non è degno di vivere.
Le loro idee riguardi ai doveri dei genitori e dei figli sono
l'opposto delle nostre. Dato che l'unione dei sessi si fonda sulla
grande legge della natura per propagare e continuare la specie, i
lillipuziani uomini e donne vanno insieme né più né meno che come gli
altri animali, seguendo l'istinto della concupiscenza; l'affetto per i
figli deriva quindi dallo stesso principio naturale. Per questo non
sfiora loro il cervello che un figlio debba sentirsi in obbligo verso
il padre per averlo generato o verso la madre per averlo messo al
mondo; la qual cosa, considerate le miserie della vita, non è, in sé,
né un beneficio né un atto di volontà dei genitori, in tutt'altre
faccende affaccendati durante i loro incontri amorosi. Per questi e
simili ragionamenti, è loro opinione che i genitori siano gli ultimi
fra tutti a meritare la fiducia di una buona educazione dei figli. In
ogni città hanno nidi d'infanzia pubblici, dove tutti i genitori, ad
eccezione dei contadini, devono inviare i figli di entrambi i sessi
all'età di venti lune, quando si pensa che abbiano acquisito una
qualche propensione all'obbedienza, per essere allevati ed educati. Ci
sono scuole di vario genere, adatte alle diverse condizioni dei due
sessi, con insegnanti che addestrano i ragazzi a quel tipo di vita che
si confà ai loro genitori, sviluppando nel contempo le loro capacità e
inclinazioni. Darò prima qualche notizia degli asili per maschi e
quindi di quelli per femmine.
Quelli per maschi di famiglie nobili o elevate sono dotati di maestri
saggi e severi affiancati da uno stuolo di assistenti. Cibo e
vestiario sono semplici e privi di ricercatezza. Gli allievi vengono
allevati nel rispetto dei principi dell'onore, della giustizia, del
coraggio, della modestia, della clemenza, della religione e dell'amore
per la propria terra; inoltre si affida loro qualche cosa da fare in
ogni ora del giorno, ad eccezione di quando mangiano e dormono. Questi
sono d'altra parte intervalli assai brevi, ai quali andranno aggiunte
due ore di svago, impiegate nel compiere esercizi fisici. Fino all'età
di quattro anni ci sono degli uomini a vestirli, dopo di che, malgrado
la loro elevata condizione sociale, devono farlo da soli; le donne che
svolgono il loro servizio nelle scuole, tutte sui cinquanta anni,
compiono soltanto i servizi più umili. Ai bambini non è concesso di
conversare con la servitù e si divertono in gruppi più o meno
numerosi, sempre sotto gli occhi di un maestro o del suo assistente.
In questo modo si impedisce che ricevano le deleterie influenze del
vizio e della follia, alle quali sono sottoposti i nostri bambini. I
genitori possono far visita ai figli solo due volte all'anno e per non
più di un'ora; è loro concesso di baciarli solo all'arrivo e alla
partenza, mentre il maestro, presente a questi incontri, impedirà loro
di parlare sottovoce al bambino, di usare vezzeggiativi nei suoi
confronti, di portargli regali, giocattoli, dolciumi e roba simile.
La retta per il mantenimento e l'educazione dei figli è a carico dei
genitori e, se non viene pagata, se ne delega la riscossione agli
esattori imperiali.
Gli asili per i figli della classe media, di mercanti, commercianti e
artigiani sono organizzati, in proporzione, secondo lo stesso schema;
i ragazzi avviati a qualche mestiere, vanno a fare gli apprendisti
all'età di sette anni, mentre i figli dei notabili continuano a
studiare fino a quindici anni, età che corrisponde a ventuno da noi,
ma la vita di collegio si fa meno rigida durante gli ultimi tre anni.
Negli asili femminili le bambine di nobile famiglia vengono educate
come i maschi, con la sola differenza che vengono vestite da
inservienti del loro sesso, sempre al cospetto del maestro e del suo
assistente, finché non siano in grado di farlo da sole all'età di
cinque anni. Se qualcuna di queste inservienti cede alla tentazione di
raccontare alle bambine storie paurose o fiabesche, oppure certi
pettegolezzi che le cameriere comunemente divulgano, vengono frustate
in pubblico per tre volte, imprigionate per un anno e confinate vita
natural durante nelle più squallide contrade del paese. In questo modo
si insegna alle fanciulle, come ai maschi, a disprezzare la codardia e
la frivolezza e a non curarsi degli ornamenti della persona che non
rientrino nella normale decenza e pulizia. Non ho notato nessuna
differenza nella educazione dei due sessi, ad esclusione degli
esercizi fisici che, per le ragazze, sono meno pesanti e di alcune
nozioni di economia domestica impartite loro; riducendo sensibilmente
la cultura generale, la loro massima è infatti che, fra gente di
rango, una moglie deve essere sempre una saggia e piacevole compagna,
dal momento che la sua giovinezza non dura in eterno. Quando
raggiungono i dodici anni, che è l'età del matrimonio per loro,
tornano a casa, mentre ai vivissimi ringraziamenti dei genitori e dei
tutori, nei confronti degli insegnanti, si unisce il pianto dirotto
delle ragazze che danno l'addio alle compagne.
Negli asili per bambine di più umile rango si avviano le convittrici
ai lavori che appropriati al loro sesso e alla loro condizione. Quelle
che fanno le apprendiste, escono a sette anni, le altre restano fino a
undici.
Le famiglie modeste che tengono i figli in questi istituti, oltre alla
retta annuale che per loro è assai bassa, devono fornire al
dispensiere una piccola parte dei loro guadagni mensili come
sovvenzione al mantenimento della loro prole; per questo le spese dei
genitori sono limitate dalla legge. Infatti i lillipuziani ritengono
che non ci sia niente di più egoistico degli atti di quella gente che,
per soddisfare il proprio piacere, mette al mondo dei figli, lasciando
agli altri l'onere di mantenerli. Le persone di condizione elevata si
impegnano a destinare una certa somma ad ogni figlio, a seconda del
rango, e queste somme vengono sempre amministrate con grande senso di
economia e giudizio.
I contadini si tengono i figli a casa e siccome il loro compito è di
coltivare la terra, la loro educazione ha poca importanza per il bene
pubblico; i vecchi e i malati sono mantenuti in ospizio, ed infatti
l'accattonaggio è un'attività sconosciuta in questo paese.
A questo punto non dispiacerà forse, al curioso lettore, avere qualche
notizia riguardo le faccende domestiche e le abitudini da me seguite
durante il mio soggiorno di nove mesi e tredici giorni in questa
contrada. Spinto dalla necessità e dal bernoccolo per la meccanica, mi
costruii un tavolo ed una sedia abbastanza comodi con gli alberi più
grandi del parco reale. Duecento sarte vennero chiamate per
confezionarmi camicie, lenzuola e tovaglie, tutte del tipo di stoffa
più robusto e ruvido che fu possibile trovare. Malgrado ciò, furono
costrette a sovrapporne più strati, perché il tipo più pesante è molto
più sottile della nostra tela batista. La loro tela è alta sette o
otto centimetri e una pezza ha la lunghezza di un metro. Le sarte mi
presero le misure mentre stavo sdraiato per terra, l'una montandomi
sul collo e l'altra a mezza gamba, tirando i capi di una grossa fune,
mentre una terza ne misurava la lunghezza con un regolo di due
centimetri e mezzo. Poi fu loro sufficiente misurarmi la circonferenza
del pollice destro perché, in base ai loro calcoli matematici, il
doppio di questa corrisponde a quella del polso, e via di seguito per
quelle del collo e del torace. Poi, seguendo il modello della mia
vecchia camicia che distesi per terra, spianandola da ogni lato, mi
servirono a pennello. Furono impiegati anche trecento sarti per farmi
gli abiti, ma essi avevano un altro modo di prendere le misure. Mi
fecero mettere in ginocchio ed uno di loro, salito su di una scala che
mi arrivava al collo, lasciò cadere un filo a piombo dall'altezza del
colletto fino al suolo, calcolando in questo modo l'esatta lunghezza
della giacca; petto e braccia li misurai da solo. Quando furono
pronti, i miei abiti, la cui confezione venne eseguita in casa mia,
perché anche la più spaziosa delle loro dimore sarebbe stata
insufficiente a contenerli, sembravano uno di quei lavori di rattoppo
che fanno le nostre donne in Inghilterra, con l'unica differenza che
nel mio caso, le toppe erano tutte dello stesso colore.
Per prepararmi il pranzo c'erano trecento cuochi, alloggiati in comode
casette erette tutto intorno alla mia dimora, dove vivevano con le
loro famiglie, con il compito di prepararmi ognuno due piatti.
Prendevo in mano venti servitori e li posavo sulla tavola, mentre
altri cento aspettavano al suolo, alcuni con vassoi di carne, altri
con barilotti di vino e di liquori sulle spalle. I venti di sopra, ad
un mio cenno, issavano quella roba con un sistema di carrucole assai
ingegnoso, come noi solleviamo le brocche d'acqua dai pozzi. Un piatto
di carne costituiva per me un boccone e un barilotto di vino una buona
sorsata. Il loro montone non è buono il nostro, ma la carne di bue è
eccellente. Una volta mi diedero una lombata così grande, che dovetti
farla in tre pezzi, ma è un caso molto raro. I camerieri rimanevano a
bocca aperta vedendomi mangiare tutta quella roba, ossa comprese, come
da noi si fa con le allodole. In un boccone facevo fuori un'oca o un
tacchino e vi assicuro che i loro sono molto migliori dei nostri. Dei
volatili più piccoli ne infilavo venti o trenta sulla punta del mio
coltello.
Un giorno Sua Maestà, informato delle mie abitudini, volle avere il
piacere, come ebbe la compiacenza di chiamarlo, di pranzare con me,
insieme alla regale consorte e i principi reali d'ambo i sessi. Quando
vennero, li sistemai con i loro seggi regali sul tavolo, proprio di
fronte a me con le guardie al loro fianco. Era presente anche il gran
tesoriere Flimnap con la bacchetta bianca, ed ebbi modo di notare che
mi guardava con un che di astioso; ma lì per lì non gli diedi gran
peso, tutto preso a divorare il doppio di quello che ero solito fare,
per rendere onore alla mia amata patria e per riempire d'ammirazione
la corte. Ho ragione di credere che questa visita privata di Sua
Maestà desse a Flimnap l'occasione di mettermi in cattiva luce agli
occhi del suo signore. Quel ministro, in segreto, mi era stato sempre
ostile, sebbene apparentemente ostentasse nei miei confronti maniere
assai più cordiali di quanto il suo carattere scontroso gli
permettesse abitualmente di fare. Egli illustrò dunque a Sua Maestà le
condizioni grame in cui versavano le finanze e gli disse che si
trovava costretto ad emettere prestiti ad interesse altissimo, che le
cedole dello Stato non circolavano al di sotto del nove per cento, che
ero costato a Sua Maestà più di un milione e mezzo di "sprugs" (che
sono le loro monete auree più grosse, simili a pagliuzze) e che
insomma sarebbe stato consigliabile che Sua Maestà mi congedasse alla
prima occasione.
Sento il dovere a questo punto di salvare l'onore di una nobile dama
che, senza colpa alcuna, soffrì per causa mia. Il ministro del tesoro
si era messo in testa che sua moglie lo tradiva, istigato da qualche
mala lingua, secondo la quale lei si sarebbe pazzamente innamorata di
me. Anzi, per un certo tempo corse voce a corte che lei sarebbe venuta
in segreto a trovarmi. Ora tengo a dichiarare apertamente che questa è
un'infamia vergognosa, priva di ogni fondamento, tanto più che Sua
Grazia si degnò sempre di trattarmi con i segni innocenti della
liberalità e dell'amicizia. Ella venne certo a casa mia, ma sempre
pubblicamente e in compagnia di non meno di tre persone, fra le quali
sua sorella, la figlia e qualche amica, come del resto facevano altre
dame di corte. I miei stessi servitori possono inoltre testimoniare se
hanno mai visto una carrozza alla mia porta senza sapere chi ci fosse
dentro. In questi casi, dopo essere stato avvertito da un servitore,
era mia abitudine andare immediatamente alla porta; quindi, presentati
i miei omaggi, prendevo in mano la carrozza con due cavalli (se si
trattava un tiro a sei era cura del postiglione staccarne quattro) e
la sistemavo con attenzione sulla tavola, attorno alla quale avevo
sistemato una barriera mobile, alta quindici centimetri per prevenire
incidenti. Mi è capitato spesso di avere sulla tavola quattro carrozze
contemporaneamente, tutte piene di gente, verso le quali mi chinavo
dopo essermi seduto sulla mia sedia. Mentre mi intrattenevo con gli
occupanti di una carrozza, i cocchieri facevano girare le altre
intorno al tavolo. Ho passato così molti pomeriggi in piacevoli
conversazioni. Ma sfido il gran tesoriere e le sue due spie (di cui
dirò i nomi, accada quel che accada), Clustril e Drunlo, a dimostrare
che qualcuno sia venuto da me in incognito, eccezion fatta per il
segretario Reldresal il quale, come ho detto sopra, veniva in nome del
re. Non mi sarei tanto a lungo soffermato su questi particolari, se
non vi fosse coinvolta la reputazione di una nobile signora, per non
dire nulla della mia, sebbene allora mi fregiassi del titolo di
"nardac", che il tesoriere non aveva.
Tutti sanno infatti che lui è un "glumglum", un titolo più basso
dell'altro, come in Inghilterra un marchese sta ad un duca, quantunque
debba riconoscere che lui aveva la precedenza su di me in virtù della
sua carica. Queste calunnie, di cui ebbi notizia qualche tempo dopo,
per un caso banale sul quale non occorre soffermarsi, fecero sì che il
tesoriere si comportasse assai male con la moglie e ancora peggio con
me. Quando alla fine si accorse dell'errore, si riconciliò con la
consorte, ma con me i ponti erano ormai rotti e dovetti constatare
quanto la stessa simpatia dell'imperatore nei miei confronti
diminuisse rapidamente, tanto era influenzato da quel suo favorito.


Dal Libro Secondo:

6 - ESPEDIENTI DELL'AUTORE PER INGRAZIARSI I SOVRANI. OSTENTA LA SUA
ABILITA' Dl MUSICISTA. RISPONDE ALLE DOMANDE DEL RE SUI PAESI EUROPEI.
OSSERVAZIONI DEL SOVRANO.

Una o due volte alla settimana assistevo al risveglio del re e
capitava spesso che lo vedessi farsi radere, una scena a prima vista
raccapricciante. Il rasoio era grande più del doppio di una falce
comune. Sua Maestà si radeva, come accade in quel paese, due volte
alla settimana. Una volta riuscii a farmi dare dal barbiere un
bioccolo di spuma dal quale tirai fuori quaranta o cinquanta
robustissimi peli. Poi presi una tavoletta di legno alla quale detti
la forma di un dorso di pettine, facendoci una serie di fori ad uguale
distanza uno dall'altro con uno spillo sottilissimo datomi da
Glumdalclitch. Ci fissai i peli a furia di raschiarli e appuntirli
verso la punta, fino a costruirmi un pettine decente, ed in ogni caso
un valido sostituto del mio, ormai inservibile per aver perso quasi
tutti i denti. E poi, chi altri in quel posto era capace di
costruirmene uno nuovo così minuscolo e preciso?
Questa prima prova mi mise in testa un'altra idea, la cui
realizzazione occupò molte delle mie ore libere. Chiesi alla cameriera
della regina di mettermi da parte i capelli di Sua Maestà rimasti sul
pettine, finché ne ammucchiai abbastanza. Mi rivolsi poi all'artigiano
che mi aveva costruito la cassettina e al quale era stato ordinato di
mettersi a mia disposizione per qualsiasi lavoretto che mi fosse
servito, chiedendogli di farmi la struttura di due sedie, come quelle
che aveva già costruito per la mia stanzetta. Poi gli dissi di fare
tutta una serie di fori con una lesina sottilissima intorno alla
spalliera e al sedile; passai i capelli più robusti attraverso questi
fori, proprio come si fa con le sedie di canna che si usano in
Inghilterra. Quando le ebbi finite, le regalai alla regina che da
allora in poi le custodì in camera sua per mostrarle come una rarità
eccezionale, fra l'ammirazione di quanti le videro. La regina avrebbe
voluto che mi fossi seduto su una di esse, ma rifiutai con sdegno,
sostenendo che avrei preferito affrontare mille volte la morte,
piuttosto che deporre una parte poco onorevole di me stesso su quei
preziosi capelli che un tempo avevano adornato la testa di Sua Maestà.
Siccome ho il pallino delle arti manuali, con i capelli restanti feci
un borsellino lungo un metro e mezzo, con sopra ricamato in lettere
d'oro il nome della regina, e lo regalai a Glumdalclitch con il
consenso della sovrana. Ad essere sinceri era più per bellezza che per
altro, poiché non avrebbe retto il peso di una moneta; ma lei non ci
teneva nulla, o al massimo certe cosucce che alle bambine piace
conservare.
A corte si davano frequenti concerti, poiché il re era amante della
musica. Ci portavano spesso anche me, sistemando la mia cassetta sopra
un tavolo; ma quei suoni erano così forti, che non riuscivo a cogliere
il motivo. Era come se tutte le fanfare e i tamburi dell'esercito
reale mi suonassero nelle orecchie. Avevo preso l'abitudine di far
sistemare la cassetta il più lontano possibile, di chiudere porte e
finestre e tirare le cortine: solo così quella musica cominciava a
piacermi.
Da ragazzo avevo imparato a strimpellare qualche motivo alla spinetta.
Glumdalclitch ne aveva una in camera sua dove si esercitava due volte
alla settimana sotto la guida di un maestro di musica. La chiamo
spinetta, perché più o meno somigliava a questo strumento e la si
suonava nello stesso modo. Mi venne in mente che avrei potuto suonare
al re e alla regina qualche motivetto inglese su questo strumento. Ma
era un'impresa disperata, perché la spinetta era lunga quasi diciotto
metri ed ogni tasto misurava una trentina di centimetri, così che
anche a braccia aperte non avrei potuto abbracciare più di cinque
tasti. Inoltre per premere un tasto ci voleva una forza maggiore di
quella che avevo, anche se avessi suonato con i pugni. Tanta fatica
non sarebbe servita a nulla. Ma inventai un nuovo metodo che
consisteva in questo: preparai due bastoni, grossi come comuni mazze,
più larghe da un lato; poi felpai la base più larga con pelle di topo
in modo che, battendoci, non avrei danneggiato i tasti e non avrei
interrotto il ritmo. Davanti alla spinetta fu posta una panca, poco
più in basso della tastiera, sulla quale correvo avanti e indietro
battendo i tasti giusti coi miei batacchi. Riuscii così ad eseguire
una giga con gran divertimento delle Loro Maestà. Certo fu l'esercizio
fisico più pesante che avessi mai affrontato, sebbene non riuscissi a
premere più di sedici tasti e non fossi capace, di conseguenza, di
suonare contemporaneamente in chiave di violino e di basso, come fanno
i veri musicisti, con limiti non indifferenti per la mia esecuzione.
Accadeva spesso che il re, uomo sagace e d'intelletto finissimo, come
ho già avuto modo di riferire, mi volesse sopra la sua scrivania con
la scatola e tutto; mi faceva accomodare su di una delle mie
seggioline a un tre metri di distanza dal suo volto, per cui venivo a
trovarmi allo stesso livello, e in questo modo si svolsero fra noi
diverse discussioni. Un giorno mi presi la libertà di dirgli che i
suoi pregiudizi nei confronti dell'Europa e degli altri paesi del
mondo non erano degni delle altissime qualità di cui era dotata la sua
mente; che la ragione non era affatto proporzionale alle dimensioni
del corpo, tanto è vero che al mio paese si diceva che i più alti
fossero i più minchioni; che nel regno animale spettava alle api e
alle formiche il primato della industriosità, della abilità e della
sagacia; che per quanto mi potesse considerare un essere da nulla,
tuttavia speravo di vivere tanto da potere rendere a Sua Maestà
qualche servigio eminente. Lui, che mi aveva ascoltato con interesse,
cominciò a farsi di me un'opinione migliore. Volle che gli facessi una
precisa descrizione dell'Inghilterra poiché, se come monarca era
profondamente attaccato ai propri ordinamenti (e così dovevano essere
anche gli altri, come aveva capito dalle mie parole), non per questo
sarebbe stato meno felice di conoscere quelle leggi che meritano di
essere imitate.
Ti immaginerai, cortese lettore, quanto avessi ardentemente desiderato
di avere la lingua di Cicerone e di Demostene, per poter essere in
grado di celebrare adeguatamente le lodi della mia patria diletta, e
con essa lo stile adatto ai suoi meriti e alla sua prosperità.
Cominciai dunque la mia dissertazione informando Sua Maestà che i
nostri stati sono composti di due isole che comprendono tre grandi
regni sotto un unico sovrano, oltre alle colonie d'America.
Mi soffermai a lungo a illustrare la fertilità del suolo e la mitezza
del clima. Passai quindi a descrivere diffusamente il parlamento
inglese composto, da una parte, da quell'illustre consesso detto
Camera dei Pari, di cui fanno parte persone di nobilissimo sangue e di
antica, cospicua ricchezza. Descrissi la severa educazione che veniva
loro impartita nel campo delle arti e in quello delle armi, per farne
i consiglieri del re e del regno, membri del corpo legislativo,
dell'inappellabile alta corte di giustizia, campioni pronti a dedicare
il loro valore, l'integrità e la fedeltà alla causa del re e della
patria. Dissi che erano questi l'ornamento e il baluardo del regno,
degna stirpe di illustrissimi antenati che ebbero nell'onore l'unica
ricompensa alla virtù, che mai sarebbe mancata in nessuno dei loro
discendenti. A questi si univano, come parte integrante
dell'assemblea, santi uomini col titolo di vescovi, con il compito
specifico di curare la religione e quanti si dedicano al suo
insegnamento fra il popolo. E' il sovrano in persona con i suoi
consiglieri più saggi a cercarli in tutto il paese scegliendoli fra
quei preti che hanno acquisito meritatissima fama per la santità della
vita e la dottrina profonda, veri padri spirituali del clero e del
gregge.
Dissi ancora che l'altro ramo del parlamento era costituito da
un'assemblea detta Camera dei Comuni, composta dai migliori
gentiluomini, liberamente designati dal popolo, in considerazione
della loro capacità e dell'amor patrio, a rappresentare la saggezza
della nazione. Questi due rami costituiscono la più augusta assemblea
che si abbia in Europa e ad essa viene affidata, insieme al re,
l'attività legislativa.
Fu quindi la volta delle corti di giustizia le quali, sotto la
presidenza dei giudici, saggi e venerandi interpreti della legge,
hanno il compito di sentenziare sulle contese dei diritti e delle
proprietà, di punire il vizio e di proteggere l'innocenza. Non
dimenticai di accennare alla saggia amministrazione delle nostre
finanze, nonché al valore e all'efficienza delle nostre forze di terra
e di mare; quindi gli dissi il numero globale della nostra
popolazione, calcolando quanti milioni di anime potessero appartenere
all'una o all'altra setta religiosa o a questo o a quel partito
politico. Non dimenticai i nostri sport e i nostri svaghi e ogni altro
aspetto del nostro vivere civile che potesse tornare ad onore della
patria. Conclusi con un breve profilo storico degli eventi che si sono
svolti in Inghilterra nell'ultimo secolo.
Questa conversazione continuò per cinque udienze, ognuna di un'ora,
con la massima attenzione del sovrano, il quale spesso prendeva nota
di quanto dicevo, segnandosi a parte le domande che mi avrebbe poi
rivolto.
Appena ebbi finito questo lungo resoconto, in una sesta udienza, Sua
Maestà consultò i suoi appunti e mi sottopose tutta una serie di
dubbi, di domande e di obiezioni su ogni argomento. Cominciò col
chiedermi quali metodi seguivamo per temprare il corpo e coltivare la
mente dei nostri nobili rampolli e in quali occupazioni venivano
impegnati nell'età in cui si può plasmare un individuo; in quali modi
l'assemblea riempiva i vuoti aperti dalla fine di qualche nobile
famiglia; quali doti erano richieste a quelli che sarebbero diventati
i nuovi lord. E poi se fosse mai capitato che gli umori del principe,
la corruzione di una dama di corte o di un primo ministro, il progetto
di rafforzare un partito contro l'interesse pubblico, avessero
agevolato tali promozioni. Quale fosse la conoscenza che questi lord
avevano della legge del loro paese, e se fosse tale da permettere loro
di decidere, senza appello, della proprietà dei loro compatrioti. Se
fossero immuni da avarizia, favoritismi, ingordigia, tanto da
respingere con sdegno somme di denaro o infami complotti. Inoltre mi
chiese se quei santi uomini, come li avevo definiti, avessero
raggiunto l'episcopato per la loro dottrina in materia di religione e
per la santità della loro condotta, dopo avere respinto per tutta la
loro carriera di preti ogni interesse temporale; o se per caso non si
fossero prostituiti a certi nobili, di cui avrebbero continuato a
servire gli interessi una volta ammessi all'assemblea.
Volle poi sapere quali raggiri si compivano per eleggere quelli che
avevo chiamato rappresentanti ai Comuni; se, per esempio, uno
straniero con la borsa piena fosse in grado di comprarsi i voti
destinati al signore locale, o a qualche altro nobile del circondario.
In che modo si spiegava che alcuni desiderassero fortemente di far
parte di questa assemblea, quando io stesso avevo messo in risalto il
fastidio e la spesa che questa carica richiedeva, tale da gettare sul
lastrico le loro famiglie; da questo loro modo di agire emergeva un
così alto grado di virtù civica e di interesse per il pubblico bene
che a Sua Maestà veniva qualche sospetto che quei signori non fossero
completamente sinceri. Volle infatti sapere se quei gentiluomini, così
animati da zelo, non avessero in mente di rifarsi abbondantemente
della fatica e delle spese sostenute, sacrificando il pubblico bene
agli scopi di un principe inetto e vizioso, in combutta con qualche
ministro corrotto. Su questo punto mi fece un'infinità di domande,
valutando attentamente la questione e proponendomi tali e tanti
interrogativi ed obiezioni, che credo prudente non riferire.
C'erano molte cose che Sua Maestà desiderava sapere a proposito dei
nostri tribunali ed io ero in grado di rispondere con cognizione di
causa, perché in passato ero stato mezzo rovinato da un lungo processo
in cancelleria, per il quale avevo dovuto pagare le spese. Mi chiese
quanto tempo e quanto denaro ci voleva per risolvere una causa; se gli
avvocati potevano difendere cause apertamente ingiuste, vessatorie e
oppressive; se i partiti politici e le fazioni religiose avevano peso
sulla giustizia; se gli avvocati erano persone educate al senso
universale della giustizia o solamente esperti degli usi e dei costumi
nazionali, provinciali o puramente locali; se costoro o i loro giudici
avevano collaborato alla stesura di quelle leggi che poi
interpretavano e glossavano a loro piacimento; se era mai accaduto che
costoro avessero avuto, in tempi diversi, il ruolo di difensori e di
accusatori nella medesima causa, costringendo i testi a dimostrare il
contrario di quanto avevano testimoniato; se la loro fosse una
corporazione ricca o povera; se ricevevano parcelle in denaro per
difendere le cause o esprimere pareri; se, infine, venissero ammessi a
far parte della Camera dei Comuni.
Il discorso cadde quindi sull'amministrazione della finanza pubblica.
Secondo Sua Maestà la memoria doveva avermi tradito, perché avevo
calcolato l'introito annuo dell'erario in circa cinque o sei milioni,
mentre le uscite del bilancio da me riferite ammontavano a più del
doppio. Tenne a dirmi che su questo argomento aveva preso appunti
precisi, perché sperava che il nostro sistema finanziario gli avrebbe
fornito utili suggerimenti, e che quindi i calcoli che aveva fatto
erano esatti. Se, dunque, quanto gli avevo detto era vero, non
riusciva a rendersi conto di come un regno potesse spendere tanto di
più di quanto gli era permesso, come accade ad un comune cittadino. E
allora, quali erano i nostri creditori? E dove trovavamo i soldi per
pagarli?
Quando mi sentì parlare di certe guerre lunghe e pesanti cadde dalle
nuvole e pensò che noi fossimo un popolo attaccabrighe, i nostri
vicini pessime persone e i nostri generali più ricchi dei satrapi. Mi
chiese quali interessi avevamo fuori delle nostre isole, esclusi
naturalmente i traffici commerciali, sanciti da trattati, e la difesa
costiera. Ma soprattutto rimase sorpreso quando mi sentì parlare di un
esercito mercenario mantenuto anche in periodo di pace e in un paese
libero. Se eravamo governati, come avevo sostenuto, da rappresentanti
che noi stessi avevamo eletto, non riusciva a capacitarsi di chi
avevamo paura o contro chi mai avremmo dovuto combattere; e poi mi
chiese espressamente se una casa privata non fosse difesa meglio dal
padrone, dai figli e dall'intera famiglia, piuttosto che da una mezza
dozzina di canaglie raccattate con quattro soldi in mezzo alla strada,
le quali avrebbero guadagnato cento volte di più sgozzando chi
dovevano difendere.
Rise della mia buffa aritmetica (come si compiacque di definirla) con
la quale calcolavo il numero degli abitanti dividendoli in sette
politiche e religiose. Disse che non capiva come quelli che
professavano opinioni dannose per il pubblico bene dovessero essere
obbligati a cambiarle, né perché non dovessero essere obbligati a
nasconderle; perché, se nel primo caso l'atteggiamento è quello della
tirannia, nel secondo è quello della debolezza; alla fin fine si può
permettere al singolo cittadino di avere veleni in casa sua, ma non di
venderli come sciroppi.
Mi fece osservare che, fra i passatempi della nobiltà, avevo fatto
riferimento al gioco. Volle sapere a che età si cominciava a
praticarlo e a quale a smetterlo; quanto tempo gli veniva dedicato; se
poteva in certi casi intaccare il patrimonio, se gente abbietta e
corrotta riusciva, con l'abilità nel gioco, ad accumulare ricchezze
tali da avere i nobili in pugno o abituarli a pessime compagnie,
distraendoli completamente dalla cura dello spirito e costringendoli,
a furia di perdite, ad esercitare quell'arte infame sugli altri.
Rimase letteralmente sbalordito a sentire la storia degli avvenimenti
che si erano verificati negli ultimi cento anni, bollandoli come un
cumulo di cospirazioni, ribellioni, assassini, massacri, rivoluzioni,
esili: gli effetti peggiori che l'avarizia, la faziosità, l'ipocrisia,
la perfidia, la crudeltà, la rabbia, la follia, l'odio, l'invidia, la
brama, la malizia e l'ambizione possono produrre.
In un'altra udienza Sua Maestà ricapitolò quanto gli avevo detto
confrontando le domande con le risposte; poi, dopo avermi preso in una
mano, e passandomi l'altra sui capelli con un gesto di benevolo
rimprovero, mi rivolse le seguenti parole, che non dimenticherò mai,
né per la sostanza, né per il modo in cui le disse: "Mio piccolo amico
Grildrig, mi hai fatto un gran panegirico della tua patria,
dimostrandomi che le qualità essenziali per diventare un legislatore
sono l'ignoranza, l'ozio e il vizio; che le leggi sono spiegate,
interpretate ed applicate in maniera ineccepibile da quanti hanno
interesse e abilità nel pervertirle, confonderle ed eluderle. Qualche
aspetto delle vostre istituzioni può essere stato almeno tollerabile
in origine, ma ormai è cancellato ed il resto si è deteriorato nella
corruzione. Da quanto hai detto non sembra affatto che, ad un certo
ruolo nella società, debba corrispondere una certa condotta di vita, e
tanto meno che i nobili vengano dichiarati tali in nome della loro
virtù, che i preti vengano promossi per la pietà e la dottrina, i
soldati per il valore, i giudici per l'integrità, i senatori per
l'amore del paese, i cancellieri per la saggezza. Certo spero che tu,
che hai passato gran parte della vita viaggiando, sia immune dai molti
vizi del tuo paese, ma da quello che ho sentito dalle tue relazioni e
dalle risposte che ti ho tirato fuori a gran fatica, non posso fare
altro che ritenere la maggior parte dei tuoi compatrioti la razza più
perniciosa di vermiciattoli detestabili a cui la natura abbia permesso
di strisciare sulla faccia della terra."



7 - AMOR PATRIO DELL'AUTORE. IL RE RIFIUTA UNA PROPOSTA
VANTAGGIOSISSIMA. IGNORANZA DEL RE IN POLITICA. IMPERFETTA E LIMITATA
CULTURA Dl QUEL POPOLO. LE LEGGI, L'ESERCITO E I PARTITI POLITICI.

Solo l'ineludibile amore della verità mi ha impedito di omettere
questa parte del racconto. Invano provavo a manifestare il mio
risentimento; era costantemente messo in ridicolo, e non mi rimaneva
altro che sopportare con pazienza, mentre la mia patria veniva così
atrocemente ingiuriata. Sono profondamente dispiaciuto, al pari di
ogni mio lettore, che le cose siano andate in questo modo, ma il
sovrano era tanto curioso e pignolo, che la gratitudine e le buone
maniere mi obbligavano a dargli soddisfazione. A mia discolpa si potrà
dire almeno che seppi eludere abilmente molte delle sue domande e che
nelle risposte riuscii ad addolcire la realtà dei fatti, molto più di
quanto la nuda verità potrebbe tollerare, dimostrando per la mia
patria quell'encomiabile parzialità che Dionigi d'Alicarnasso
raccomanda giustamente allo storico. Non parlai dunque delle debolezze
e delle corruzioni politiche della mia terra natale, cercando di
mettere in una luce propizia bellezze e virtù, e a questo scopo puntai
con tutte le mie forze durante le conversazioni con quel monarca,
anche se sfortunatamente non ebbi successo.
Ma allo stesso tempo bisogna saper comprendere anche un re che vive
escluso dal resto del mondo, completamente all'oscuro degli usi e dei
costumi vigenti negli altri paesi; in uno stato d'ignoranza, dunque,
che è il più favorevole al sorgere dei pregiudizi e di una visuale
ristretta che, noi europei, abbiamo di gran lunga superato. E sarebbe
un bell'affare se i concetti di vizio e di virtù di un principe così
lontano dovessero far testo per tutta l'umanità!
A conferma di quanto ho detto e per dimostrare più ampiamente gli
effetti meschini di una educazione limitata, racconterò un fatto
incredibile. Sperando di ingraziarmi ancora di più quel sovrano, gli
parlai di un'invenzione avvenuta tre o quattrocento anni or sono. Si
trattava della preparazione di una certa polvere capace, anche in gran
quantità, di incendiarsi in un attimo, al minimo contatto con una
scintilla, e di saltare in aria con tutto ciò che c'era intorno, col
fragore e lo sconquasso di un tuono. Gli dissi che se si pressava
dentro un tubo di bronzo o di ferro una certa quantità di questa
polvere, in proporzione allo spessore della canna, sarebbe stata
capace di lanciare una palla di piombo o di ferro con tanta forza, che
niente avrebbe potuto sostenere l'urto. Grosse palle, lanciate così,
non solo sbaragliavano con un solo colpo intere schiere di un
esercito, ma radevano al suolo le mura più solide, affondavano galeoni
con mille uomini a bordo e, se incatenate fra loro, tranciavano alberi
e cordame, squarciavano centinaia di corpi, seminando la distruzione
sulla loro scia. Gli dissi che si potevano riempire di questa polvere
anche mastodontiche palle di ferro, che poi venivano lanciate con
apposite macchine da guerra all'interno di città sotto assedio, dove
erano capaci di squarciare il selciato, di ridurre in frantumi le case
lanciando schegge da ogni parte, facendo saltare le cervella a quanti
fossero nelle vicinanze. Di questa polvere conoscevo i componenti, e
gli dissi che erano comunissimi e a buon mercato, che sapevo la misura
degli ingredienti e che avrei potuto insegnare agli artigiani come
costruire tubi grossi in proporzione alle dimensioni di quel regno;
che i più lunghi potevano raggiungere trenta metri e che una trentina
di quei tubi, caricati con la polvere e le palle, sarebbero stati in
grado di radere al suolo le mura fortificate delle più grandi città
del regno in poche ore, compresa la stessa capitale, se mai avesse
osato discutere i suoi ordini. Offrii dunque a Sua Maestà questo
segreto, come umile tributo di riconoscenza del suo favore e della sua
protezione.
Il re rimase inorridito dalla descrizione di quelle terribili macchine
e dalla proposta che gli avevo fatto. Non sapeva capacitarsi come un
insettuccio debole e impotente come me (questa fu la sua definizione),
potesse concepire idee così abominevoli, perverse e irresponsabili,
senza mostrare il minimo segno di commozione davanti a tutte le scene
di sangue e di distruzione che gli avevo presentato come effetto di
quelle terribili macchine, e concluse che il loro inventore doveva
essere stato qualche genio del male, nemico dell'umanità. Quanto a
lui, disse con estrema severità, che per quanto niente lo avesse mai
attratto come le nuove scoperte nel campo delle arti e della natura,
avrebbe preferito perdere metà del suo regno, piuttosto che conoscere
questo segreto ed anzi mi proibì categoricamente di parlarne, se avevo
cara la vita.
Strani effetti di una vista corta e di una mentalità ristretta! Come
si può pensare che un principe in possesso di tutte le qualità che lo
rendono degno di venerazione, stima ed amore, dotato di virtù virili,
grande saggezza e profonda cultura, fornito di un ammirevole talento
nel governare i sudditi che lo adoravano, avesse potuto lasciarsi
sfuggire di mano l'occasione di diventare padrone assoluto della vita,
della libertà e delle fortune del suo popolo, per uno scrupolo
infondato e superfluo, inconcepibile a noi europei? E non lo dico con
l'intenzione di sminuire le virtù innumerevoli di quell'eccellente
monarca, la cui personalità sembrerà di certo assai ridotta agli occhi
del lettore inglese proprio per queste sue idee; credo piuttosto che
questo suo limite abbia origine dall'ignoranza, nel non avere
considerato la politica una scienza come hanno fatto i più acuti
ingegni europei. Ricordo benissimo che un giorno, conversando con il
re, quando dissi che avevamo varie migliaia di libri sull'"arte del
governo", lui trasse da questa informazione conclusioni diametralmente
opposte a quelle che intendevo, che cioè il nostro ingegno fosse
proprio meschino. Dichiarò di aborrire e disprezzare i misteri, gli
artifici e gli intrighi tanto nei sovrani che nei ministri. Non sapeva
dire cosa intendessi con segreto di stato, quando non si aveva a che
fare né con nemici né con nazioni rivali. Tutta la sua conoscenza del
governare si limitava a poche cose: al buon senso e alla ragione, alla
giustizia e alla clemenza, alla velocità nel compimento delle cause
civili e penali e ad altri luoghi comuni che non vale la pena di
menzionare. Secondo lui, chiunque fosse riuscito a fare crescere due
spighe di grano o due fili d'erba dove ne cresceva uno solo, avrebbe
reso un servizio al suo paese e all'umanità, tanto più grande
dell'intera progenie dei politicanti messi insieme.
La cultura di questo popolo è grandemente limitata e consiste
esclusivamente nello studio della morale, della storia, della poesia e
della matematica. In queste materie bisogna riconoscere che eccellono,
anche se quest'ultima è applicata esclusivamente a tutto ciò che può
dimostrarsi utile nella vita, dall'agricoltura alle arti meccaniche.
Di conseguenza raccoglierebbero ben poca stima presso di noi. Per
quanto concerne idee astratte, entità, trascendenza non mi riuscì mai
di ficcargliele in testa.
Le leggi scritte di quel paese non superano mai il numero delle
ventidue lettere dell'alfabeto e sono pochissime quelle che
raggiungono una simile lunghezza. Inoltre sono formulate in parole
semplici e piane, perché queste persone non sono abbastanza acute da
scoprire più di un senso in una parola, tanto è vero che commentare
una legge è un delitto capitale. Per quanto concerne le cause civili o
penali, hanno così scarsi precedenti, che non sono certo in grado di
vantare grande esperienza.
Da tempo immemorabile conoscono l'arte della stampa come i Cinesi, ma
non hanno per questo grandi biblioteche. Quella reale, che è la più
grande, non supera il migliaio di volumi; essa è sistemata in una
galleria lunga trecentosessanta metri ed ebbi il permesso di
consultare i testi a mio agio. L'artigiano della regina aveva
costruito nella camera di Glumdalclitch una macchina di legno, alta
più di sette metri, simile a una scala a pioli, con gradini lunghi
quindici metri. Era una doppia scala mobile con i piedi a circa tre
metri dalla parete. Mentre il libro che mi interessava veniva
appoggiato alla parete, salivo sul gradino più alto della scala e
cominciavo a leggere da sinistra camminando verso destra per otto o
dieci passi, a seconda della lunghezza delle righe. Ad ogni riga del
libro scendevo un gradino fino ad arrivare in fondo alla scala, dopo
di che salivo di nuovo per leggere la pagina accanto e, ancora, per
girare pagina con tutte e due le mani, perché era spessa e rigida come
un cartone lungo sei metri.
Hanno uno stile chiaro, virile, scorrevole e mai fiorito, perché non
c'è nulla che sfuggono quanto le parole superflue o le espressioni di
puro e semplice abbellimento. Ho avuto sotto mano molti loro libri,
specie quelli di storia e di morale. Fra questi ultimi provai un gran
piacere dalla lettura di un trattatello che si trovava sempre in
camera di Glumdalclitch e che apparteneva alla sua governante,
un'austera e attempata signora, che si dilettava di letture morali e
devote.
Argomento del libro era la fragilità del genere umano ed era letto con
interesse solo dalle donne e dal popolo, ma confesso che ero curioso
di sapere quanto potesse dire uno scrittore di quella terra su un
simile soggetto. L'autore passava in rassegna gli argomenti topici dei
moralisti europei, mostrando come la natura dell'uomo fosse quella di
un essere miserabile, meschino, indifeso, incapace di ripararsi dalle
insidie del clima e dalla aggressività delle fiere e inferiore agli
altri esseri viventi nella forza, nella velocità, nella vista, nella
operosità. Inoltre aggiungeva che la natura era senza meno degenerata
in queste ultime età di declino del mondo ed era ormai solo in grado
di produrre aborti in confronto alle creature di altri tempi.
Sosteneva che in origine gli uomini dovevano essere stati più grandi e
che nelle epoche più remote dovevano esserci stati dei giganti, come
d'altra parte è detto dalla storia e dalla tradizione ed è comprovato
dal ritrovamento di ossa e di crani di gran lunga superiori a quelli
dell'uomo moderno. Dalle stesse leggi della natura deduceva che in
origine gli uomini dovevano essere più grandi e più robusti, non così
vulnerabili come al giorno d'oggi, in cui possono venire accoppati da
una tegola o dal sasso di un bambino, o magari affogare in un
ruscello. Da questo modo di ragionare, l'autore faceva discendere
varie norme morali per la vita quotidiana che credo inutile riportare.
Da parte mia, non mi restò che riflettere su come gli uomini siano
disposti sotto tutti i climi a fare commenti morali, o meglio, a
protestare e a lamentarsi dopo tutte le accuse che lanciamo alla
natura. E sono sicuro che, a guardare bene, quelle accuse sono
infondate per noi come per quel popolo.
Quanto al loro esercito, si vantano che quello reale consiste di
centosettantaseimila fanti e trentaduemila cavalieri, se si può
chiamare esercito un'accozzaglia di mercanti e contadini reclutati
nelle città e nelle campagne al comando dei nobilotti locali, senza
nessuna paga o ricompensa qualsiasi. Le loro esercitazioni non
lasciano nulla a desiderare e lo stesso può dirsi della disciplina,
anche se di questo non faccio loro un gran merito, perché ogni
contadino è al comando del suo padrone ed ogni mercante del notabile
della città, scelti per elezione come avviene a Venezia.
Ho visto spesso la guarnigione di Lorbrulgrud fare le manovre in un
campo enorme di venti miglia quadrate nei dintorni della città. Non
c'erano in tutto più di venticinquemila fanti e seimila cavalieri,
anche se mi è impossibile essere preciso, considerata l'estensione di
terreno che occupavano. Un cavaliere col suo bel destriero poteva
essere alto trenta metri. Ho visto l'intero squadrone di cavalleria
sguainare la spada ad un comando e brandirla in aria e posso dirvi che
non si può immaginare nulla di più grandioso, sorprendente,
stupefacente. Sembrava che dai quattro angoli del cielo guizzassero
simultaneamente mille fulmini.
Ero curioso di sapere come fosse venuto in mente a questo sovrano, i
cui territori sono inaccessibili da ogni parte del mondo, di pensare
agli eserciti o di insegnare al proprio popolo la disciplina militare.
Venni a sapere dalle loro storie e dalle varie conversazioni che nel
corso del tempo avevano sofferto degli stessi guai che affliggono
l'intero genere umano, cioè di una nobiltà sempre più ribelle allo
scopo di conquistare il potere, di un popolo assetato di libertà, di
sovrani favorevoli ad instaurare poteri assoluti. Sebbene le leggi del
regno fossero intese a tenere in equilibrio queste tre tendenze,
spesso sono state violate da ognuna delle parti dando luogo a guerre
civili, l'ultima delle quali ebbe fine per opera del nonno del
presente sovrano, con una generale riconciliazione. Fu stabilito
allora di mantenere l'esercito, costituito di comune accordo, sotto la
più severa disciplina.