(Foto gentilmente concessa da Luciana Bianciardi)

Luciano Bianciardi

Nasce a Grosseto, il 14 dicembre 1922, da Adele Guidi (insegnante elementare) e Atide (cassiere alla Banca Toscana).
Studia al Ginnasio e poi al Liceo Classico, sempre a Grosseto; non ancora diciottenne si iscrive all'Università di Pisa, Facoltà di Lettere e Filosofia.
Nel 1943 viene chiamato alle armi, come allievo ufficiale, e alla fine dell'anno riprende gli studi universitari alla Scuola Normale di Pisa.
Nel 1948 si laurea e dopo pochi mesi sposa Adria Belardi; avranno due figli: Ettore e Luciana.
Dopo qualche anno di insegnamento in una scuola media diventa professore di storia e filosofia nello stesso Liceo Classico nel quale era stato studente.
Nel '51 accetta l'incarico di direttore della Biblioteca Chelliana, devastata dalla guerra e dall'alluvione del '46.
Recupera un vecchio furgone dal comune, con degli amici sistema motore e scaffali: “se la gente non va dai libri, saranno i libri ad andare dalla gente”. E' così che inventa il “bibliobus” per andare nei paesi della Maremma. Condivide le iniziative della Chelliana con Carlo Cassola: il cineforum, l'inchiesta sui minatori... anni che Bianciardi ha definito come i più belli e ricchi della sua vita.
Con il bibliobus sono spesso a Ribolla, a parlare con i minatori; Bianciardi sta scrivendo per l'Avanti! un'inchiesta sulle loro condizioni di vita.
Diventa amico di molti di loro ed il 4 maggio 1954 è lì con gli altri, con i familiari, ad aspettare che escano... vivi o morti.

Il disastro di Ribolla per lui non rappresenta solo un incidente; in quel momento vive una frattura, la fine di un periodo.
Dopo il funerale Bianciardi è sfinito, frastornato dall'enormità della tragedia...
Maria Jatosti: ”Quando ci fu lo scoppio morirono persone che lui conosceva benissimo. Dopo la tensione, il silenzio, i funerali, lui se ne tornò a Grosseto e piano piano gli prese una incazzatura enorme, tremenda. Contro la Montecatini, contro le miniere, contro la morte, contro i vivi, contro la biblioteca, contro il cineforum, i dibattiti, le passeggiate, la moglie. Contro tutti. Se ne sta seduto sui gradini del duomo, da solo, in mezzo alla piazza, comincia a piangere e all'improvviso, dopo un anno, gli torno in mente io. Non ha mai saputo neanche lui perchè, però succede, in quel momento pensa a me. Allora si alza, va alla biblioteca, mi scrive una lettera lunghissima dicendomi: <Ma che ci sto a fare io qui? Vengo via, voglio andarmene da Grosseto. Vengo a trovarti.>
(Aveva conosciuto Maria Jatosti a Livorno, alla riunione annuale della Federazione dei circoli del cinema).
Parte per Milano e partecipa alla costruzione di una nuova casa editrice, la Feltrinelli.
Sua moglie e suo figlio rimangono a Grosseto; Adria è di nuovo incinta, la seconda figlia del loro matrimonio già finito nascerà nell'aprile del '55.
A Milano lo raggiunge Maria, dalla quale avrà il terzo figlio, Marcello.

Ma a Milano si sente un estraneo, non riesce ad accettare i ritmi di questa città, i suoi valori.
Traduce testi di autori stranieri e solo di domenica si dedica ai libri suoi: una decina tra romanzi e saggi, più gli articoli e i racconti.
Sente, prima di tutti, la trasformazione che sfocerà nel miracolo economico ma anche in nuovi e diversi conformismi; odia le ideologie, le congreghe di intellettuali, la nascente industria culturale che impone ritmi frenetici sia nel creare che nel dimenticare.
Anche qui continua a vivere la sua solitudine.
E' maremmano di nascita e di carattere: irriverente, sarcastico, aggressivo, a volte volgare. Però generoso, buono, sensibile all'amicizia. Può suscitare solo affetti profondi o risentimenti tenaci, mai indifferenza.

Riuscire a terminare La vita agra è per lui una liberazione: è stato capace di mettere dentro a questo libro tutta la sua rabbia, tutto il rancore accumulato negli anni e la storia della sua vita ora è fuori, quasi controllabile e modificabile. “E' la storia di una solenne incazzatura scritta in prima persona singolare”.
La sua vita cambia di nuovo: arrivano i primi soldi.
Il successo del suo libro è grandissimo e nel 1964
La vita agra diventa un film i cui protagonisti sono Ugo Tognazzi e Giavanna Ralli, diretti da Carlo Lizzani.
Ma arrivano anche i primi dissapori. Maria Jatosti: “Il libro era fatto di tante storie vere, ma solo con la sua visione malata. Era una storia di angoscia senza scampo, senza vie d'uscita...ogni capitolo mi offendeva...se lui ha vissuto questi anni così, senza amore, senza amicizia, senza solidarietà...non è vero che ci siamo tenuti per mano in questi anni e che abbiamo combattuto insieme...
Quando finii di leggere il libro mi misi a piangere, mi sentivo crollare tutto il passato, decisi che lo avrei lasciato, che avrei cominciato una nuova vita da sola, con Marcellino.
Lui non capì. Reagì allo stesso modo, cominciando a sfottermi.
Non è più stato come prima. Anche se non ci siamo lasciati, qualcosa tra me e Luciano era finita per sempre”

Anche a Otello Tacconi il libro non è piaciuto.
Tacconi querela Bianciardi per diffamazione, per aver scritto che la Montecatini lo licenziò in seguito ad un suo comizio di accusa contro i metodi della società.
“A Tacconi Otello, mettendogli il nome vero, credevo di fare un onore, e invece tu hai visto che roba”.
Poco dopo Tacconi muore di crepacuore ma la causa va comunque avanti.
“...è un avvilimento comparire davanti ai giudici e sentirsi chiedere se è vero che volevo far saltare il palazzo della Montecatini per ordine di quel poveraccio... spiegargli che l'esplosione del palazzo della Montecatini era un'immagine letteraria, che nel romanzo Tacconi era un eroe..”.
Bianciardi viene assolto con formula piena, perchè il fatto non costituisce reato.

Ma la sua vita prende di nuovo la strada buia della solitudine.
Maria è più distante, Tacconi è morto, Ettore e Luciana crescono e lui non li conosce affatto: tanti legami spezzati che lentamente diventano dolorosi rimpianti.
La consapevolezza di essere diverso da come avrebbe voluto ma anche l'incapacità di modificarsi, di cambiare... il “primo della classe” che si ribella alla sua intelligenza, alle regole, alla maestra e che diventa quello che non avrebbe mai ammesso di poter essere.
Bianciardi abbandona tutto: i giornali, Milano. Sente che il mondo va dove deve andare e lui non ci può fare niente, la sua protesta diventa un'alzata di spalle e la sua rabbia cresce.
A quarantadue anni esce volontariamente di scena.
Si trasferisce a Rapallo. Beve molto, lavora poco. E' sfinito, stanco, senza più un briciolo di entusiaso; è deluso da tutto, spossato dai suoi falliti tentativi di riconciliarsi con la sua vita.

Va a Grosseto a presentare il libro e incontra i suoi figli.
Maria: <Quando tornò da Grosseto era ancora più triste, più stravolto del solito. Coninciò per giorni e notti a tormentarsi. Non dormiva più, non mangiava più. Beveva, rimuginava. Veniva da me e diceva: ”Voglio conoscerli, sono i miei figli. Voglio tornare là”. Più si tormentava e più beveva.>
Bianciardi viaggia tra Rapallo e Grosseto ma dopo quattordici anni di lontananza capisce di essere uno straniero per tutti, figli compresi.
I sensi di colpa che ha covato per anni, le manie di persecuzione, la sensazione di essere solo, diverso, rifiutato, tutto diventa vero.
Questa volta il vuoto è totale, definitivo; non c'è più la speranza di cancellare tutto e di ricominciare da dove aveva lasciato, dalla sua Maremma e dalla sua famiglia. Grosseto non poteva più essere nemmeno nei pensieri il suo rifugio.
Luciano rinuncia a tutto e questa volta in modo definitivo.
Beve, ha lunghe crisi depressive, è sfinito.
Maria affitta un appartamento e Milano e lo riporta là, credendo che lui avrebbe reagito, che avrebbe ripreso a lavorare.
Maria: <Cercavo di invitare gente a casa, chiamavo gli amici... venite, aiutatelo, aiutatemi, perchè si sta ammazzando. Cercavo di organizzare delle cene, ma quando gli amici lo vedevano, rimanevano interdetti, muti, imbarazzati. Lui certe volte faceva veramente spavento>.
Arpino: <Mi teneva per un braccio, mi disse:”Caro mio, io sto crepando, ma ci metto troppo. Morire è difficilissimo, cosa devo fare?”
E' circondato da parole che non hanno più relazione con le cose. Maremma, minatori, Grosseto. Ribolla che esplode. Adria che gli dice addio. Tacconi che lo tradisce. I figli che non sanno. Lui che non sa dei figli. Maria che se ne va.
Maria è partita da tre giorni quando viene dato l'allarme: Bianciardi non risponde al telefono, nessuno lo ha visto, nemmeno quelli del bar all'angolo.
Cesare Vacchelli, suo amico, corre a casa sua: Luciano ha gli occhi semichiusi, respira a fatica, non risponde.
Chiama l'ambulanza e lo accompagna in ospedale: coma epatico... sta morendo, è solo questione di tempo.
Luciano muore il 14 novembre 1971, a soli quarantanove anni

Giugno 2001: Florido Rosati ci racconta di Luciano Bianciardi. 

Luciano Bianciardi.
Prese a pedate un giornalista de “il mattino” che il primo di maggio andò a visitare la miniera con Padroni. C'erano anche il Bassetti e gli altri vecchi minatori e fece vedere loro le gallerie che il giorno prima aveva fatto ripulire dal carbone, dalla terra e dal legno marcio accantonato.
Nella galleria di base, dove passavano le trenate di vagoni, aveva fatto mettere tutte le lampade al neon ma nei lavori a fondo cieco non li portò.
Vista la miniera in queste condizioni il giornalista scrisse su “Il mattino”: “nella miniera di Ribolla manca solo la televisione”.
Il 2 di maggio, quando ritornammo al lavoro, allo sportello ci davano la lampada e una copia del giornale con questo articolo.
Il 4 maggio: 43 i morti! Altro che televisione!


Per informazioni approfondite su Luciano Bianciardi e per la bibliografia vedi il sito: www.lucianobianciardi.it

Alcune informazioni sono state tratte da: Pino Corrias (1996), Vita agra di un anarchico. Ed. Baldini&Castoldi.