L'Unità
Domenica 29 dicembre 1974

Inchiesta aperta in Francia mentre il numero dei morti sale a 42

MISURE DI SICUREZZA SALTATE NELLA MINIERA DELLA SCIAGURA?

Uno scoppio di grisou sembra essere all'origine della tragedia - La catena di eventi è comunque troppo lunga per essere considerata casuale - Dall'alba di ieri due centri minerari in sciopero - La veglia notturna delle vedove e la drammatica testimonianza dei 3 scampati

PARIGI, 28.
L'ultimo cadavere - il quarantaduesimo - è stato trovato stanotte sotto un cumulo di polvere di carbone: quello di Roland Lenfant, che era sceso per la prima volta nel pozzo n° 3 ieri mattina alle 5,30.
Sua moglie e i suoi cinque figli hanno sperato fino all'ultimo nel miracolo. Ma la miniera non ha mai fatto regali a nessuno di quelli che vi lavorano. Erano scesi in 47: tre ne sono usciti incolumi, perché lontani dalla esplosione; due sono gravemente ustionati all'ospedale di Lillà. Gli altri 42 vi hanno lasciato la vita.
Nei dipartimenti minerari del Nord e del Pas-de-Calais bisogna risalire a trent'anni addietro per registrare una tragedia di queste proporzioni. Ma, coi progressi della tecnica in trenta anni, si fa fatica ad ammettere, ad accettare che le sciagure minerarie siano "fatali".
Certo, fatalità ha voluto che Roland Lentant, solitamente adibito al pozzo n°4, fosse stato destinato all'ultima ora a cambiare di squadra.
Come fatalità ha voluto che Paul Vandenabelle  morisse alla vigilia della pensione, dopo oltre trenta anni di miniera.
Paul Vandenabelle lascia 12 orfani, sette già sposati e minatori come il padre, gli altri cinque a guardare la madre che, nella piccola casa di pietra annerita dalla polvere di carbone, continua a dire: "Voi in miniera non ci andrete mai!".
 

 
 

42 casse allineate sotto la pioggia, 130 orfani. L'ampiezza della tragedia è in queste cifre. Lens e Liévin sono in sciopero dall'alba di questa mattina. Le vedove hanno vegliato tutta la notte le salme dei loro sposi, gli occhi asciutti, i volti duri.
Nel Nord la gente è fatta così.
Si piange tra le mura domestiche. Fuori di casa bisogna mostrare dignità, di fronte alla tragedia e forza per chiedere che sia fatta luce sulle sue cause.
La "fatalità" può essere invocata dai dirigenti dell'ente carbonifero: ma chi lavora qui, come ha scritto l'inviato speciale della "France Presse", è convinto di una cosa sola: che le misure di sicurezza non sono state sufficienti a impedire lo scoppio; dunque che vi è colpa, che vi sono responsabilità precise a livello direzionale.
Il pozzo n.3, ormai chiamato "il pozzo della morte", non serve più all'estrazione del carbone, poiché la vena è praticamente esaurita.
Ma è un pozzo considerato sicuro, e viene usato per immettere i minatori nelle gallerie più lontane, dove l'estrazione è ancora possibile.
Ieri mattina, alle 5,30 dopo cinque giorni di congedo natalizio, una squadra di 47 uomini entra nella "gabbia" e scende a 720 metri di profondità.
Secondo gli accertamenti, due ore prima gli uomini della sicurezza avevano condotto le analisi previste ogni giorno: la percentuale di grisou nell'aria è dello 0,20 per cento, cioè normale.
Il sistema primario di aerazione, che funziona anche quando il pozzo è chiuso, è rimasto in attività nei cinque giorni di festa: il sistema secondario è entrato in funzione con l'arrivo della squadra del mattino.

A 720 metri di profondità i 47 minatori camminano per circa mezz'ora nelle gallerie.
Hanno indossato i caschi bianchi con la lampada, le tute blu, gli stivali.
Alle 6,15, la tragedia.
"C'è stato - dice uno dei tre superstiti - uno scoppio violento e tutto è stato spazzato via da una nuvola biancastra, poi da una nuvola di fuoco".
Un altro racconta: "Dopo l'esplosione, la galleria è stata riempita da una nuvola bianca e da un acuto odore di bruciato. Avevamo l'acqua fino ai ginocchi. Sul suo passaggio, una lingua di fuoco ha bruciato ogni cosa. Qua e là ci sono stati dei crolli. Nel buoi ho cercato l'uscita, verso la gabbia, mentre la polvere mi soffocava".

Cosa è accaduto alle 6,15 nel pozzo n.3? Nessuno ancora sa dirlo. Secondo un giornale della sera parigino, "sono tutti morti per asfissia", dato che, dopo l'esplosione, "un torrente d'aria avvelenata ha percorso le gallerie".
Il che non è vero. Lo smentiscono sia le testimonianze dei superstiti, sia l'esame dei cadaveri.
Vi sono dei morti per ustioni, colpiti in pieno dalla lingua di fuoco, vi sono dei morti per asfissia, a causa dell'ossido di carbonio sprigionatosi dopo l'0incendio e vi sono dei morti per traumi interni provocati dall'onda di scoppio.
Gli inquirenti e gli esperti propendono stasera per una ipotesi abbastanza sostenibile: vi è stato all'inizio uno scoppio di grisou, forse una sacca sfuggita alla squadra di sicurezza e incendiatasi per una scintilla scaturita chissà come.
Poi lo scoppio ha trasmesso le fiamme alla polvere di carbone impalpabile che resta sospesa nell'aria e che è combustibile come un gas.
Di qui la fiammata che ha percorso in un lampo i 1.500 metri di gallerie, dove si trovavano i 47 uomini della squadra del mattino.
Infine, da questa nuvola di fuoco si è sprigionato l'ossido di carbonio che ha asfissiato i pochi scampati ai crolli, alla esplosione o alle fiamme.

Questo per la meccanica del disastro, Ma oggi il problema maggiore da risolvere è un altro: perché, nonostante le pretese misure di sicurezza, garantite dalla direzione dell'ente carbonifero, un tale concatenamento ha potuto verificarsi?
Il grisou: teoricamente, il pozzo n. 3 ne contiene pochissimo, e le squadre di sorveglianza notturna lo avevano confermato.
La polvere di carbone: teoricamente, essa è "abbattuta" da un meccanismo di umidificazione dell'aria e delle vene di carbone.
L'ossido di carbonio: il sistema di aerazione dovrebbe teoricamente impedire la morte per asfissia, anche nei casi di maggiore concentrazione di questo gas che si sprigiona dalla combustione della polvere di carbone.
Allora?
Allora, dice la gente, qualcuno di questi sistemi non ha funzionato. Il che vuole dire che le misure di sicurezza non sono state rispettate fino in fondo e che vi sono gravi responsabilità.
La parola, dunque, è al magistrato inquirente, quel giudica Pascal, che si era reso celebre due anni fa con "l'affare di Bruayen Artois" cioè il caso di una ragazzina di 17 anni, Brigitte Dweve, assassinata in circostanze non ancora chiarite, nei pressi della residenza di un facoltoso notaio della regione.
Tutti si augurano che il giudice Pascal possa dare una risposta alle angosciose domande delle famiglie delle vittime, alla richiesta avanzata dai sindacati di fare luce completa sulle cause della tragedia.

Alle famiglie delle vittime della sciagura di Liévin, il Comitato centrale del Partito comunista francese ha inviato un commosso messaggio di condoglianze e di solidarietà.

Augusto Pancaldi