Tratto da "Società & Cultura. La Stampa" 
Sabato 31 agosto 1996

Articolo di Igor Man.

 

 

Uno dice o scrive: Caruso e subito i melomani pensano a Enrico Caruso, il più grande dei tenori. Ovvero, i più giovani, gli intellettuali pensano a Bruno Caruso: pittore tra i più significativi del nostro tempo attuale. Ma per un sociologo (non di pronto intervento, un sociologo vero, dico) o semplicemente per un siciliano, dire, sentire "caruso" vuol dire ricordarsi, in un soprassalto di incredula pena, di quei ragazzi che, a torso nudo, lavoravano nelle miniere di zolfo, le famose solfatare.
Gravati dalle cofane stracolme del minerale acre nel suo citrigno colore e trasferendole dal profondo della vena ai carrelli del trasporto, il loro sudore si faceva giallo-serioso ed essi, i "carusi", era come se fossero immersi in un perverso liquido amniotico che gli mangiava i polmoni e la vita gli rubava, giorno dopo giorno. Che lunga battaglia fu quella di pochi uomini di buona volontà (ricorderò qui le inchieste del compianto collega Farinella, dell'Ora, e un libro -verità scritto da Giuseppe Ernesto Nuccio, sul "caruso", or è tant'anni) per salvare dall'inferno solforoso giovanissimi uomini fatti schiavi dal bisogno: di pochi spiccioli per campare la giornata.
Uno dice, o scrive: Marcinelle e subito tutti pensano a quel pedofilo belga veramente posseduto dal demonio. E invece per i giornalisti della mia generazione, pei vecchi italiani emigrati in Belgio e rimasti laggiù (in pulite casette modeste o in piccoli cimiteri) oppure tornati in Italia col gruzzolo e la silicosi, e per tanti, molti cristiani ancora, italiani e non, uomini insomma, Marcinelle vuol dire miniera. Vuol dire carbone. Vuol dire fatica e morte vuol dire; un punto fermo nella storia della nostra emigrazione, un lungo grido disperato nella storia della (ineludibile?) sottomissione dell'uomo alla mina.
Saint-Charles del Charbonages du Bois-du-Cazier è il nome esatto della miniera di Marcinelle. Il giorno 8 di agosto dell'anno 1956 morirono a Marcinelle 262 minatori: 136 italiani, 96 belgi, 14 polacchi, 5 greci, 5 tedeschi, 3 ungheresi, 2 russi, un inglese. I superstiti furono sei.
Il vecchio cronista non intende commemorare i minatori morti, ricordare la tragedia di Marcinelle, quarant'anni dopo. Lo han già fatto (anche su questo giornale) bravi colleghi, giovani se non giovanissimi, perlopiù e lo hanno fatto dandoci cronache commosse delle varie cerimonie in quell'anniversario, interrogando qualche minatore (italiano) sopravvissuto alla catastrofe.
Quel che vorrei tentare è dar testimonianza della discesa nei pozzi, di quel che significa frugare nell'intimo della terra profonda alla ricerca del carbone. Vorrei cercare di far capire cosa c'è dentro quella notizia che nel remoto 1956 sconvolse il mondo civile, cosa vuol dire essere la notizia; il minatore che cerca carbone  con infinita fatica, a prezzo della vita. Se a Marcinelle c'è rimasto solo il simulacro di quella miniera assassina, infinite, veramente troppe sono tutt'oggi, nel mondo, le miniere dove ci si ammazza di lavoro come a Marcinelle ancora non molti anni fa si continuava a fare.
Correva l'estate del 1966 e il direttore della Stampa, l'immenso Giulio De Benedetti, mi telefonò per dirmi se me la sentivo di andare a Marcinelle "a dare un'occhiata". Mi dicono, spiegò, che la miniera della morte funziona ancora, che ci scendono tuttora superstiti e compagni di quei nostri operai morti. Se magari lei riuscisse a imbrancarsi coi minatori, sì a scendere con loro, non sarebbe poi male, concluse.
Il 4 di luglio del 1966 scesi nella miniera di Marcinelle. E questa è la cronaca di quella discesa nella notizia. Scritta adoperando il "presente storico". Ma questo soltanto per rendere più vera la verità. (Se possibile).
Alle 7 del mattino, sono all'ingresso della miniera. Aspetto il caposquadra Angelo Galvan, Angelò, come lo chiamano a Marcinelle. Abita a cinquanta metri dalla mina, è un uomo alto e spavaldo, abbiamo parlato quasi tutta la notte del suo lavoro ("m'è entrato nel sangue"), della sua esperienza di partigiano sull'altopiano di Asiago. Se non fosse pel rumore dei compressori, la miniera sembrerebbe abbandonata: erbacce crescono dappertutto, in un canto disordinatamente giacciono sei vagoncini arrugginiti. Sinistri come insolite sculture di Calder.
Angelò stamani è diverso: è vestito da minatore, ha occhiaie bistrate di carbone. E' salito "al giorno", come dice, per accompagnarmi "al fondo". Sembra più vecchio, ha le spalle incurvate. Sono il primo giornalista "autorizzato" a scendere in miniera dopo quell'agosto del 1956: insieme ripercorriamo l'itinerario della grande sciagura.
Per scendere in miniera bisogna salire.
E infatti ci arrampichiamo sino alla piattaforma all'imbocco del pozzo, entriamo in un trabiccolo in cui occorre accucciarsi, non più di tre alla volta e, così ripiegati su noi stessi, cominciamo a scendere a cinque metri al secondo.
M'hanno calcato in testa un elmetto a bacinella e affibbiato un pesante cinturone dal quale pende la batteria per alimentare la lampada agganciata al copricapo: a tracollo ho la maschera antigas, introdotta nel Belgio proprio dopo la sciagura di Marcinelle.
Non sarà più largo di sei metri il pozzo in cui sprofondiamo, trasuda una fanghiglia grassa che imbratta selvaggiamente il viso. La gabbia si ferma: siamo a 715 metri di profondità. La galleria è murata e tuttavia si respira l'odore del legno abbruciato, in giro n'è rimasto qualche frammento. "Qui - dice Galvan - trovai tre dei sei superstiti. C'era una voce che veniva da sotto un vagoncino arrovesciato. Infatti erano lì. A chiamare era stato un ragazzo fiammingo di sedici anni (poi tornato a lavorare in miniera), mi disse che c'erano altri due compagni vivi. Il terreno era franato, riuscii a entrare nella galleria centrale. Ce n'erano tanti dei miei compagni qui. Ma erano tutti morti. Galleggiavano sull'acqua sporca, gonfi".
Anche a quota 975 la galleria è murata, ma usciamo dalla gabbia perché Angelò vuole spiegarmi come avvenne la disgrazia.
Un vagoncino carico di carbone entrò nella gabbia soltanto a metà; il sorvegliante si mosse per girare attorno alla gabbia e veder di rimediare. Ma nel frattempo, alla superficie, giusta il ritmo abituale del lavoro, cominciarono a tirar su la gabbia. Salendo, i vagoncini che sporgevano tranciarono i cavi, la miniera piombò nel buio, scoppiò immediato l'incendio. Nessuno poté risalire poiché le gabbie si erano bloccate, persino quelle del pozzo di emergenza. E fu la morte per 262 operai.
Dice ancora Galvan: "Qui, sulle rotaie trovai un pezzo di legno. Lo ricordo come fosse adesso, l'amico Anatole Gonet, un belga, ci aveva scritto sopra col gesso queste parole... Nous sommes une cinquantine. Nous fuyons les fumées vers les quatres paumes...".
Adesso scendiamo fino a 1035 metri. Sempre accovacciati nella gabbia che sembra sul punto di sbattere contro le pareti del pozzo. Sale dal fondo un alito caldo di limatura di ferro mischiato a un gradevole tanfo di stalla. "Sono i cavalli", sorride Angelò. Nella miniera di Marcinelle i vagoncini li tirano i cavalli, non ci sono le petulanti poderose locomotive a nafta delle altre miniere in cui mi sono calato.
La gabbia, toccando il piano d'arresto, ha un ultimo sussulto e, per un interminabile momento, c'è un gran silenzio nero. Poi di lontano giunge un rumore d'acqua sotterranea, ma è il ventilatore che aspira alla superficie l'aria corrotta. Camminiamo ora in un'alta galleria gonfia di caldo. Lontano guizza una luce, è la lampada Davy agganciata all'elmetto d'un minatore che tira per la cevezza Daniel, uno dei cavalli della miniera.
Cieco, come ha scritto Malaparte? "No - risponde Angelò - non ci sono cavalli ciechi in miniera".
Un altro mezzo chilometro, una porta blindata dietro l'altra lungo il Buveau Midi, la galleria principale a quota 1035, i infine dopo un'ennesima porta incontriamo un muro di carbone.
"Coraggio", sprona Galvan e comincia a salire carponi. Al colmo della breve salita c'è una strozzatura, strisciamo nel carbone attraverso un breve tunnel non più ampio di cinquanta centimetri. Come accade di soffrire negli incubi si va avanti a fatica, il respiro mozzo, con addosso tutto il peso del mondo.
Evasi dalla strozzatura eccoci in piena taglia, vale a dire il filone del minerale, proprio dentro il carbone. Trasferiamo il corpo affaticato su uno scivolo di lamiera, largo quaranta centimetri, inclinato a trenta gradi e prendiamo a scivolare col carbone che i minatori vi gettano implacabili a palate.
Rassegnatamente scivolo sprofondando in un abisso senza fine. Da quando ho indossato la divisa del minatore ho abdicato alla mia volontà, non mi è neanche concessa l'autonomia di un gesto, né riesco a formulare pensiero che non sia legato all'immediato presente.
Quando i minatori esasperati protestano, seppur senza retorica, d'essere "carne venduta", intendono certamente riferirsi, anche se in maniera confusa, a questa condizione di assoluta dipendenza (dal caposquadra, dall'ambiente, dal caso che può uccidere in un secondo col grisou, una frana o, più lentamente, con la silicosi), alla spersonalizzazione totale imposta dalla miniera. E c'è forse una spiegazione al fatto che siano proprio gli italiani a distinguersi nelle opere più rischiose. E' l'unica possibilità che gli si offre di uscire dall'anonimato, di lavorare con un minimo di iniziativa personale.
In questo sprofondo lavorano ventisette italiani. Nel buio, ai margini dell'angusto scivolo, ne incontro qualcuno, "uomini con la faccia stanca e miserabile, anneriti dalla polvere di carbone", come scriveva, dei minatori del Borinage, Van Gogh nelle lettere al fratello Théo.
Ecco Angelo Milano, di Enna: a torso nudo, tutto nero, soltanto gli occhi e la bocca bianchi. "Gradite un po' di salute", e ci offre uno spicchio dell'arancia che sta sbucciando.
La taglia: una fila di celle stipate nello stretto cunicolo irto di impalcature di legno. La disposizione fa pensare alle cellule di un favo, alle partizioni di una cripta. Ognuno dei locali non è più alto di settanta centimetri e largo cinquanta, ma ce ne sono che non superano i trenta centimetri d'altezza. La taglia avanza lateralmente, a mano a mano che se ne cava il carbone occorre allargarne il raggio ed è questo il lavoro dei minatori.
E' fatica antica, la loro, sempre la stessa; nella miniera di Marcinelle non ci sono macchine. Coricati sul fianco, o supini, aggrediscono la vena carbonifera con il sussultante calcio della pistola pneumatica premuto contro il ventre. Aperto il primo varco s'aiutano con la pala, con le mani. Compiuti cinquanta-sessanta metri d'avanzamento, spostano lo scivolo, abbattono i puntelli nello spazio già sfruttato, piantandone altri contro la bassa volta su cui premono millecento metri di roccia.
I minatori lavorano a cottimo, facendo in media tre tonnellate di carbone al giorno ciascuno e ce ne sono capaci di cavarne quindici. Quasi tutti sono sposati e con figli. Ma sono silicotici da anni.
Non esiste esperienza che possa aiutarli: può schiacciarli in qualsiasi momento il peso della montagna; può investirli, uccidendoli, un getto d'acqua o di gas.

Sono soli nel cuore della terra.

( Materiale fornito da Alessandro Pellegatta.)