MA.R.I.C.A.

MALATTIE REUMATICHE INFIAMMATORIE CRONICHE e AUTOIMMUNI

ASSOCIAZIONE BRESCIANA ARTRITE REUMATOIDE

A.B.A.R.  

 

 

VOLUME 4 – 1998/1999

Gli altri opuscoli

DOMANDE E RISPOSTE

  A CURA DEI MEDICI DEL SERVIZIO DI IMMUNOLOGIA CLINICA

SPEDALI CIVILI DI BRESCIA  

CHE COSA E’ L’AR?

E' una malattia infiammatoria cronica, caratterizzata da dolore, tumefazione, calore, rigidità mattutina e impotenza funzionale di molte articolazioni. Sono frequentemente colpite le piccole articolazioni delle mani e, generalmente, non è coinvolta la colonna vertebrale, se non in fase avanzata, quando potrebbe essere interessata l’articolazione della cerniera cervica­le. E una malattia frequente (1% della popolazione) che colpisce le donne in misura quattro volte superiore agli uomini.

La causa dell’AR non è nota, ma si pensa che siano numerosi fattori (genetici e ambientali) coinvolti.  

POTRO’ SPERARE UN GIORNO DI GUARIRE?

Come osservabile per molte altre malattie, l’AR presenta modalità di insorgenza e di decorso molto diversificate. Alcuni malati hanno un esiguo numero di articolazioni infiammate, altri molte. Alcuni mostrano scarsa tendenza a sviluppare erosioni articolari, altri, invece, vanno incontro ad alterazioni anatomiche precoci. Alcuni rispondono ai farmaci con una duratura remissione, altri presentano resistenza alla terapia o vanno incontro ad effetti indesiderati che ne condizionano la sospensione. Nella pratica clinica abbiamo imparato che prevedere l’evoluzione futura dell’AR è assai difficile. La non conoscenza della causa della malattia, comporta l’ammissione che ogni terapia è sintomatica e non elimina la causa scatenante. Fortunatamente, nella gran parte dei casi, l’intervento terapeutico precoce induce un significativo miglioramento dei sintomi e dei segni di malattia. Non infrequentemente è possibile mantenere una condizione di accettabile benessere con l’impiego di minime dosi di farmaci.

PER QUANTO TEMPO DOVRO’ ASSUMERE OGNI GIORNO FARMACI?  

Il presupposto alla possibilità di interrompere la terapia farmacologica per l’artrite reumatoide è quello di aver raggiunto una condizione di prolungata «remissione clinica», cioè una situazione in cui non sono più riconoscibili segni di attività della malattia (infiammazione e rigidità articolare etc.). Tale situazione, pur non molto frequente, è senz’altro possibile. Quando è stata ottenuta una condizione di questo tipo possono essere gradualmente ridotti e infine eventualmente sospesi i farmaci anti-infiammatori (cortisonici e FANS). Prudenza ancora maggiore è necessaria successivamente nell’ abbandonare la terapia «di fondo» (Methotrexate, Salazopirina etc.), in quanto è dimostrato che una sua completa sospensione porta ad un’aumentata frequenza di riaccensioni della malattia. Solo quando la «remissione clinica» si è stabilizzata per molto tem­po e la terapia è stata lentamente ridotta con cautela si può giungere ad una sua completa sospensione.

QUALI ALTRI ORGANI SONO COLPITI DALL’AR, OLTRE ALLE ARTICOLAZIONI?

L’infiammazione di piccoli vasi sanguigni (vasculite) può verificarsi in alcuni soggetti portatori di forme aggressive di AR, solitamente con elevate concentrazioni ematiche di Fattore Reumatoide.

La vasculite sta alla base del possibile coinvolgimento della cute, con formazione di noduli reumatoidi e di altri organi e apparati. Sono a volte colpiti: l’interstizio polmonare, le sclere oculari, i nervi periferici, le sierose (pleura e pericardio) e il cuore. L’infiammazione cronica è considerata, alla stregua dell’ipertensione arteriosa e dell’ipercolesterolemia, un fattore di rischio per arteriosclerosi e, conseguentemente, per accidenti cardio-cerebro-vascolari. La vasculite è generalmente curata con gli stessi farmaci che vengono impiegati per il controllo dell’infiammazione articolare.

PERCHÉ DEVO SOTTOPORMI A TANTI ESAMI DI LABORATORIO?

Per aiutare a confermare la diagnosi di AR, è utile solo la ri­cerca del Fattore Reumatoide. Soprattutto in fase di diagnosi di AR, è necessario considerare ed escludere altre malattie che potrebbero, somigliando alla AR, indurre ad un errore diagnostico. Per questo motivo gli esami iniziali, finalizzati alla diagnosi, potrebbero essere numerosi e comprensivi, generalmente, della ricerca degli autoanticorpi e di eventuali stati infettivi (virus dell’epatite).

Esami quali la VES (velocità di entro-sedimentazione) e la PCR (proteina C reattiva) sono utili, confrontandoli con pre­cedenti misurazioni, per verificare se la infiammazione è ridotta o incrementata. Molti esami, invece, devono essere ese­guiti per individuare precocemente eventuali segni di tossicità determinati dai farmaci in uso. Tra questi: l’esame emocromocitometrico, l’esame urine, le transaminasi, la creatinina.

L’ARTRITE REUMATOIDE NELLA MANO E NEL POLSO

DR. PP. BORELLI E DR. L. IANNI'

I Divisione di Ortopedia e Traumatologia

“Patologia della mano, chirurgia del polso e della patologia reumatica dell’arto superiore” - Spedali Civili di Brescia

CHE COS’E’ UNA ARTICOLAZIONE?

L’articolazione é il punto d’incontro tra due ossa. Esistono due tipi di articolazioni:

·        le articolazioni immobili (ad esempio quelle esistenti tra le ossa del cranio).

·        le articolazioni mobili, formate da due o più estremità ossee che si spostano l’una rispetto all’altra per produrre il movimento (ad esempio il ginocchio).

  Il movimento di una articolazione mobile è facilitato da:

·        la cartilagine articolare, molto più liscia dell’osso, che rive­ste le due superfici ossee articolari;

·       il liquido sinoviale, prodotto dalla mebrana sinoviale, che lubrifica e nutre le superfici della cartilagine.

L’articolazione mobile è avvolta e protetta da un manicotto di tessuto fibroso: la capsula articolare, rivestita al suo interno dalla membrana sinoviale.

Attorno alla capsula sono inoltre presenti:

·    i legamenti che rinforzano la capsula impedendo movimenti impropri dell’articolazione;

·    i tendini, che in alcune parti del corpo (ad esempio il polso) sono anch’essi rivestiti dalla membrana sinoviale, che uniscono il muscolo all'osso e permettono il movimento dell’articolazione;

·   i muscoli che generano il movimento.

L’integrità di tutte queste strutture è necessaria per la stabilità e il movimento di una articolazione.

 

CHE COS’E’ L’ARTRITE REUMATOIDE E QUALI ORGANI E TESSUTI COLPISCE?

L’artrite reumatoide è una malattia sistemica, che colpisce cioè tutto l’organismo. La membrana sinoviale, sottile struttu­ra che abbiamo visto riveste l’interno delle articolazioni e rico­pre i tendini in determinate sedi corporee, risulta essere il prin­cipale organo bersaglio della malattia, sebbene possano essere colpiti molti altri tessuti in differenti organi. L’infiam­mazione della membrana si­noviale (sinovite) causa ini­zialmente dolore e difficoltà di movimento. Se la malattia non è opportunamente cu­rata in questa fase e se la sua evoluzione è troppo rapida, il processo infiammatorio si estende a tutta l’articolazio­ne distruggendola e provo­cando rigidità, instabilità, dolore e deformità.

Le articolazioni più frequentemente colpite dall’artrite reumatoide sono:

·        nell’arto superiore il polso e le articolazioni delle mani, in particolare le metacarpofalangee e le interfalangee prossi­mali. Spesso sono colpiti anche la spalla e il gomito;

·        nell’arto inferiore le articolazioni dei piedi, la caviglia, il ginocchio, talvolta anche l’anca.  

MECCANISMO DELLE LESIONI NEL POLSO E NELLA MANO

Tutte le deformità che caratterizzano l’artrite reumatoide nel polso e nella mano sono in pratica il risultato finale di una azione distruttiva della membrana sinoviale nei confronti dei tes­suti con cui viene a contatto. La membrana sinoviale reuma­toide, che si presenta solitamente «ipertrofica», cioè aumenta­ta di volume per il processo infiammatorio che la colpisce, an­drà quindi a distruggere la cartilagine articolare e l’osso sub­condrale, andrà ad infiltrare le strutture capsulo-legamentose e i tendini flessori ed estensori. Il risultato finale è la distruzio­ne della normale architettura della mano e del polso, la perdi­ta del delicato bilanciamento di forze esistente tra tendini estensori che incrociano le nu­merose articolazioni che com­pongono l’organo della pren­sione, cioè la mano. La defor­mità della mano che riassume meglio questa cascata di even­ti consiste nella deformità a «colpo divento», con cui si de­finisce la deviazione digitale in direzione ulnare, tipica delle fasi avanzate dell’artrite reu­matoide.

 

PROCEDURE CHIRURGICHE NEL POLSO E NELLA MANO REUMATOIDE.

In pratica quasi tutte le procedure chirurgiche applicabili al polso e alla mano reumatoide sono comprese in uno dei seguenti gruppi:

 

·        sinoviectomia articolare, ovvero la rimozione della membrana sinoviale che riveste all’interno le articolazioni colpite;

·        tenosinoviectomia, ovvero la rimozione della membrana sinoviale che circonda i tendini colpiti;

·        riparazione o plastica tendinea nel caso di rottura tendinea;

·        artroplastica, ovvero la sostituzione dei capi articolari distrutti con protesi di silicone al fine di ripristinare o mantenere il movimento senza dolore;

·        artrodesi, ovvero la fusione in posizione funzionale dei capi articolari distrutti, con inevitabile perdita del movimento dell’articolazione, al fine di eliminare il dolore.

QUANDO OPERARE?

La scelta del tipo di intervento e soprattutto il momento ideale per iniziare un trattamento chirurgico, dipendono dal­l’esperienza del Chirurgo della Mano e dell’Immunologo. Il trattamento chirurgico deve essere strettamente individuale e impostato in base alle esigenze reali del malato e soprattutto al tipo e grado di aggressività della malattia.

Bisogna infatti considerare che nel paziente reumatoide il processo patologico che distrugge le articolazioni e i tendini si automantiene e può durare per molti anni. Il coinvolgimento iniziale di una articolazione può estendersi, in tempi più o me­no brevi, anche alle articolazioni vicine e questo può annulla­re spesso i risultati raggiunti da un intervento chirurgico.

Il trattamento appropriato della mano reumatoide richie­de, quindi, oltre a una conoscenza della fisiopatologia (meccanismo delle lesioni) della malattia da parte del Chirurgo della Mano anche una stretta collaborazione con l'Immunologo per interpretare il decorso clinico della malattia.

DECORSO CLINICO E TRATTAMENTO CHIRURGICO

Nelle fasi precoci della malattia è difficile prevedere il decor­so clinico, cioè se un paziente svilupperà una forma leggera di ma­lattia oppure se sarà colpito da una forma progressiva, senza in­terruzione fino alle deformità più gravi. Alcune indicazioni sul­la potenziale gravità della malattia reumatoide possono risul­tare dalla presenza di noduli sottocutanei, di precoci alterazio­ni ossee erosive e da un alto titolo del fattore reumatoide.

Il decorso clinico della malattia reumatoide si può riassu­mere in tre modelli.

Nel 35% dei pazienti la malattia è di tipo monociclico, cioè esordisce, si sviluppa e si esaurisce in circa 2 anni.

Nel 50% dei pazienti è di tipo policiclico, cioè esordisce, si sviluppa e diventa quiescente dopo circa 2 anni, per riaccen­dersi in ripetuti episodi intervallati da periodi di relativo be­nessere. Nel restante 35% dei pazienti la malattia è di tipo pro­gressivo, senza interruzione e con interessamento massivo dei tessuti extra-articolari.

Per impostare un appropriato trattamento chirurgico (preventi­vo o ricostruttivo) l’ideale sarebbe conoscere sempre quale dei tre tipi di malattia si sta trattando. Sfortunatamente però spes­so solo il tempo è in grado di definire con certezza il tipo di ma­lattia e, quando questo diventa evidente, può essere troppo tar­di perché un trattamento chirurgico possa essere preventivo (sinoviectomia) nei confronti delle deformità che spesso caratte­rizzano la malattia reumatoide nella mano. In tale evenienza il trattamento chirurgico potrà essere solo ricostruttivo (ricostru­zione o plastica tendinea, artroplastica, artrodesi).

·    Se per esempio un paziente con una malattia reumatoide del tipo monociclico viene operato al termine del 2° anno, gli anni successivi dimostreranno i benefici duraturi del trattamento chirurgico.

·    Se per esempio un paziente con una malattia policiclica, il risultato ottenuto sarà invece solo temporaneo, cioè fino al successivo episodio di riaccensione della malattia.

·    Nel caso poi di una malattia del terzo tipo, caso in cui la diagnosi può essere fatta più precocemente che negli altri due tipi, il chirurgo dovrà valutare se il trattamento chirurgico sia realmente utile.

 

PROGRAMMA CHIRURGICO

E essenziale che tra chirurgo e paziente via sia una spiega­zione completa di cosa si propone l’intervento chirurgico. Co­me abbiamo visto, in alcuni casi i risultati a lungo termine del trattamento chirurgico sono incerti e, per tale motivo, non è giustificato esercitare alcuna pressione sul paziente. Quando possibile, è utile incoraggiare potenziali candidati al tratta­mento chirurgico ad incontrare altri pazienti già sottoposti al trattamento proposto. Nella fase iniziale della malattia il tratta­mento chirurgico ha lo scopo di prevenire l’azione di distru­zione della membrana sinoviale quando la terapia medica si di­mostra incapace di controllare la sinovite. Nella fase tardiva del­la malattia il trattamento chirurgico ha lo scopo di ripristinare la finzione della mano quando i tendini e le articolazioni ap­paiono gravemente danneggiati dalla malattia.

Fase iniziale. In linea generale l’asportazione della mem­brana sinoviale (sinoviectomia), sia articolare che tendinea, è indicata nei pazienti con artrite reumatoide di grado lieve, quan­do la malattia è controllata dai farmaci, e quando il quadro cli­nico di sinovite persiste in sedi anatomiche ristrette. Al contra­rio, nei pazienti che presentano una forma rapida e progressiva della malattia, la sinoviectomia articolare risulta controindica­ta. In questi pazienti è importante il controllo periodico per po­ter intraprendere procedure chirurgiche ricostruttive prima che si instaurino gravi deformità. L’unica indicazione ad una sìnoviectomia precoce riguarda una eventuale sinoviectomia tendinea allo scopo di prevenire le rotture tendinee.

Fase tardiva. La mano reumatoide risulta solitamente co­stituita da un insieme di differenti deformità ed è proprio la combinazione di queste deformità che rende difficoltoso im­postare il programma chirurgico. La presenza di deformità non deve essere di per sé una indicazione al trattamento chirurgico. poiché molti pazienti mantengono una buona funzione nono­stante un aspetto gravemente alterato della mano. Il paziente affetto da artrite reumatoide, da tempo costretto a convivere con il grottesco aspetto della sua mano, è spesso comprensibil­mente tentato di consigliare al chirurgo un approccio massivo per ritornare alla «normalità». All’esame clinico può tuttavia mostrare una soddisfacente prensione e necessitare solo di leg­gere correzioni chirurgiche per migliorare leggermente la fun­zione globale della mano. La maggior parte dei pazienti reu­matoidi sono anziani e le richieste funzionali sono tali da non richiedere delicate ricostruzioni chirurgiche. Molti pazienti si sono adattati alle deformità presenti nella mano e sviluppano movimenti compensatori per eseguire uno spettro comunque ridotto di attività.

In generale il programma chirurgico della mano reumatoide deve prefiggersi i seguenti scopi: risolvere il dolore, migliorare la funzione, prevenire la progressione di malattia, e, solo per ultimo, migliorare l'aspetto estetico. In pratica, il trattamento chirurgico della mano reumatoide deve essere individualizzato e basarsi:

·   sull’entità dei sintomi presenti,

·    sulla capacità del paziente di adattarsi alle esigenze funzionali delle attività quotidiane di base,

·    sulla capacità del paziente di adattarsi alle esigenze funzio­nali dell’attività lavorativa,

·    al rischio futuro di perdita progressiva di funzione in caso di trattamento chirurgico rimandato.

Di primaria importanza è la risoluzione del dolore, anche per­ché incoraggia il paziente a sottoporsi ad ulteriori procedi­menti chirurgici quando necessari. Pazienti con lievi deformità e minima limitazione funzionale possono trarre beneficio da un trattamento conservativo che spesso consiste in una adeguata protezione della mano con tutori in materiale termoplastico e nel modificare alcune gestualità dell’attività lavorativa.

 

QUANDO L’ARTRITE REUMATOIDE COLPISCE ALTRI DISTRETTI

Non bisogna dimenticare che la malattia reumatoide può coinvolgere tutto il corpo umano e che la mano è solo una del­le parti colpite e, anche se colpita in modo severo, altri distret­ti articolari possono richiedere un trattamento prioritario.

Il programma chirurgico potrebbe essere molto esteso e quindi dovrà necessariamente essere suddiviso in tappe.

La maggior parte dei pazienti presenta spesso contempo­raneamente problematiche alle mani e ai piedi, anche se in fa­si evolutive diverse. Se il programma chirurgico prevede di in­tervenire sia sulle mani che sui piedi, gli interventi possono es­sere eseguiti da due équipe separate nella stessa seduta opera­toria. Bisogna sempre considerare che la durata della seduta operatoria non deve superare le due ore per i problemi relativi all’ischemia a cui l’arto deve essere sottoposto. E quindi op­portuno stendere, insieme al paziente, un programma chirur­gico logico e programmare per una successiva seduta operato­ria ciò che non può essere propriamente eseguito nel limite del­le due ore.  

IL PIEDE REUMATOIDE

DR G. PIANA

I Divisione di Ortopedia e Traumatologia - Azienda Spedali Civili di Brescia  

“Chirurgia del Piede”  

I processi patologici dell’artrite reumatoide colpiscono il piede in una percentuale molto alta. Infatti oltre il 90 per cen­to dei pazienti con artrite reumatoide soffre di una qualche pa­tologia ai piedi nel corso della loro malattia.

Il meccanismo patogenetico fondamentale è del tutto simi­le a quello degli altri distretti corporei: il panno granulomato­so della membrana sinoviale cresce sopra la cartilagine, dentro le inserzioni dei legamenti e attorno ai tendini, invadendo e di­struggendo ogni tessuto. Sopraggiungono infine l’erosione os­sea, la lassità legamentosa e il disequilibrio tendineo con di­sorganizzazione e collasso articolare.

Nel piede tuttavia intervengono anche altri fattori del tutto peculiari, che insieme determinano la progressione e l’aggra­vamento delle deformità:

·        lo stress della deambulazione che mette a dura prova anche i piedi normali. Ricordiamo infatti che una persona media percorre nella sua vita ben 112.000 chilometri, quasi tre vol­te il giro del mondo; ogni giorno i piedi assorbono circa 1000 tonnellate e spesso su pavimento duro. Aggiungiamo inoltre che troppo spesso i piedi sono anche bistrattati e confinati in scarpe strette o poco adatte, per motivi estetici o altro. Non c’è pertanto da meravigliarsi se 4 adulti su 5 soffrono di un problema ai piedi. Le lesioni articolari dell’artrite reumatoi­de rendono il piede più vulnerabile a questi stress.

·        la predisposizione morfologica, cioè la tendenza individuale a svi­luppare le più comuni deformità del piede, oppure le defor­mità già presenti all’esordio della malattia (alluce valgo, di­ta a martello, sovraccarico metatarsale, piede piatto, piede cavo ecc.).

Perciò la graduale distruzione articolare specifica dell’ar-trite reumatoide, congiuntamente agli stress della deambula­zione, della predisposizione morfologica e delle deformità preesistenti, si concluderanno con lo stravolgimento anatomi­co e con diversi tipi di deformità, che si aggravano col tempo.

Il paziente reumatoide può talvolta sperimentare una re­missione, oppure la patologia può «estinguersi» e lasciare di­versi gradi di deformità, la cui severità dipende solitamente dal­la lunghezza di tempo in cui l’individuo ha avuto l’artrite reu­matoide attiva.

 

AVAMPIEDE REUMATOIDE

La costante forza di dorsiflessione applicata durante il pas­so alle dita dei piedi attraverso le articolazioni metatarsofalan­gee colpite dall’artrite reumatoide comporta la loro progressi­va sublussazione fino alla lussazione franca. Questo può coin­volgere alcune o tutte le articolazioni metatarsofalangee. Nel­le fasi finali la testa metatarsale ernia attraverso la capsula e la base della falange prossimale viene a trovarsi sulla faccia dor­sale del collo metatarsale. In conseguenza di ciò il cuscinetto adiposo, che normalmente si trova sotto le teste metatarsali e intimamente connesso alle basi delle falangi, è trazionato di­stalmente.

L’avampiede alla fine risulta notevolmente allargato, le te­ste metatarsali protrudono plantarmente e le teste delle falan­gi prossimali si estendono dorsalmente. Un piede così defor­mato presenta enormi difficoltà a entrare in una scarpa nor­male, ma soprattutto si trova esposto a forze compressive con­centrate su piccole superfici. Il risultato è che pressioni insop­portabili vengono esercitate sulla cute del piede a livello delle teste metatarsali e falangee. Dapprima i sintomi sono rappre­sentati dal dolore, ma successivamente possono comparire le ulcerazioni, con esposizione ossea e quindi con la possibilità di complicanze infettive, come l’osteomielite e l’artrite settica.

Ogni paziente può presentare aspetti patologici e deformità estremamente variabili sia per tipologia che per gravità. Il qua­dro più tipico e frequente è caratterizzato da:

·        valgismo dell’alluce

·        varismo del 1° metatarsale 

·         valgismo del 5° metatarsale

·          dita ad artiglio

·         lussazione delle metatarsofalangee

·        aumento di larghezza dell’avampiede.

In corrispondenza dei punti sottoposti a maggior pressione si formano callosità e borsiti e cioè: dorsalmente alle teste del­le falangi prossimali e plantarmente alle teste metatarsali. Le callosità possono diventare molto dolorose, ulcerarsi e pro­durre infezioni L’aspetto più importante del trattamento in­cruento consiste nel calzare scarpe appropriate. Le scarpe, ben inteso, non correggono le deformità, piuttosto si adattano alle deformità riducendo i conflitti fra la scarpa e il piede, dimi­nuendo così il dolore. Considerando le deformità sopra de­scritte, molto spesso le scarpe dovranno avere una punta più larga e profonda del normale.

Attualmente in commercio sono disponibili calzature pre­disposte e pertanto non è necessario che vengano apposita­mente costruite per ogni singolo paziente.

Molto spesso dovrà essere aggiunta un’ortesi plantare per distribuire equamente le pressioni del peso corporeo sulla pian­ta del piede e «scaricare» così le zone più esposte, come le te­ste metatarsali. Ma spesso le misure incruente non bastano e in questo caso si può ricorrere al trattamento cruento.

Prima dell’intervento bisogna fare un piano di trattamen­to, un timing chirurgico. Anche se l’avampiede è il distretto più interessato, alcuni pazienti possono richiedere una correzione chirurgica in altre aree. In un paziente con avampiede doloro­so e deformità del retropiede può essere meglio correggere pri­ma il retropiede: infatti le deformità dell’avampiede possono recidivare in pazienti con deformità in valgo o pronazione im­portante del retropiede. A volte può essere necessario esegui­re interventi chirurgici minori per permettere alla cute di gua­rire ed eliminare fonti di infezione. Esempi sono il trattamen­to di un’unghia infetta o l’escissione di una articolazione in­terfalangea prossimale per eliminare un callo ulcerato.

Di solito non è saggio eseguire un’estesa chirurgia sull’avampiede bilateralmente. Anche con una deformità avanzata, il paziente può meglio deambulare dopo l’intervento con un piede non operato. Perciò applicando minore stress sul piede operato si favorisce la guarigione della ferita.

Interventi contemporanei su avampiede e retropiede dallo stesso lato dovrebbero essere evitati, perché potrebbero causa­re un’eccessiva tumefazione con difficoltà alla guarigione del­le ferite. Gli interventi chirurgici che si praticano all’avampiede sono numerosi e si possono raggruppare come segue:

·        sinoviectomia

·        osteotomia e correzione dell’alluce valgo

·        artrodesi della I metatarsofalangeabper alluce valgo

·         artroplastica per diota a martello

·        resezione-artroplastica delle teste metatarsali

 

Per non entrare nel merito di tutti, descriverò brevemente solo il trattamento della deformità più frequente: alluce valgo e dita ad artiglio con lussazione delle MTF.

Nel caso di grave erosione dei capi articolari dell’articola­zione MTF dell’alluce, sarà necessario ricorrere all’artrodesi, cioè alla «fusione» dell’articolazione (fig. 2 e 3). In tal modo questa articolazione perderà definitivamente il movimento, a vantaggio della stabilità e della definitiva correzione della deformità. Eseguiamo questo intervento con la tecnica che pre­vede la preparazione dei capi articolari a «tronco di cono». In tal modo basta l’osteosintesi con una semplice vite per rende­re stabile l’unione fra i due capi articolari e nel decorso post­operatorio non viene applicato il gesso. Qualora invece i capi articolari non siano ancora degenerati, procediamo al loro cor­retto allineamento con la tecnica SCARF, che prevede l’osteo­tomia correttiva del 1° metatarsale con un particolare tipo di «taglio» che permette un incastro tale che non è necessario nemmeno stavolta l’apparecchio gessato.

Per quanto riguarda le articolazioni metatarsofalangee mi­non procediamo alla resezione delle teste metatarsali (fig. 2) e alla correzione delle dita deformate ad «artiglio». In tal modo le dita riprendono il loro normale allineamento e inoltre scom­paiono le zone di iperpressione sulle dita e sulla pianta del pie­de, dove sono presenti le dolorose callosità.

Nel decorso post-operatorio è prevista la deambulazione con appoggio sul piede operato con una calzatura particolare, caratterizzata da un grande tacco, che limita parzialmente il ca­rico sull’avampiede. Dopo un mese viene eseguito un control­lo radiografico e il paziente inizia a deambulare con calzature normali o lievemente adattate.

 

RETROPIEDE REUMATOIDE

La malattia reumatoide si presenta spesso nel retropiede sotto forma di infiammazione che colpisce i tendini (soprat­tutto il tendine del Tibiale Posteriore, dei Peronei e del Fles­sore Lungo delle dita) e altre strutture che stabilizzano il re­tropiede come il legamento deltoideo e le strutture periartico­lari delle articolazioni periastragaliche. La tenosinovite com­porta un graduale indebolimento e a volte anche la rottura del tendine, con grave disfunzione.

La deformità più comune che ne consegue è il piede piat­to-valgo. La deformità in varo è molto rara. Il quadro clinico iniziale consiste spesso in tumefazione dolorosa attorno e sot­to alla caviglia. Il paziente ha difficoltà nel localizzare esatta­mente il dolore. Nei casi conclamati, il piede si presenta chia­ramente deformato, soprattutto «sotto carico», cioè quando il piede sostiene il peso del corpo: la volta plantare scompare, per la perdita dell’arcata longitudinale. Il paziente non riesce più a sollevarsi sulle punte dei piedi e la deambulazione è grave­mente alterata. Il paziente cammina strascicando i piedi, man­ca la fase di spinta sull’avampiede e il passo è accorciato sia nel­la fase oscillante che nella fase di appoggio. L’esame radiogra­fico evidenzia le lesioni osteoarticolari e documenta le defor­mità. Quando si presentano i primi sintomi infiammatori nel retropiede è indicato il trattamento farmacologico. Se questa terapia si dimostra insufficiente, si prenderanno progressiva­mente in considerazione altre misure terapeutiche, che vanno dalla terapia infiltrativa alle ortesi, alla sinoviectomia, antrode­si selettiva e infine alla Triplice Artrodesi.

L’artrodesi consiste nella «fusione» dell’articolazione inte­ressata dal processo distruttivo e deformante. Si tratta di un in­tervento che toglie definitivamente il movimento all’articola­zione interessata. Perciò, se l’articolazione colpita dalla malat­tia è solamente l’articolazione astragaloscafoidea, l’intervento si limiterà a questa articolazione. Tuttavia molto spesso le arti­colazioni interessate sono contemporaneamente la astragalo­scafoidea, la calcaneo-cuboidea e la sottoastragalica. Sono tre articolazioni dal punto di vista anatomico, ma dal punto di vi­sta funzionale possono essere considerate come una sola arti­colazione. In questo caso eseguiremo la ar porta un graduale indebolimento e a volte anche la rottura del tendine, con grave disfunzione.

La deformità più comune che ne consegue è il piede piatto-valgo. La deformità in varo è molto rara. Il quadro clinico iniziale consiste spesso in tumefazione dolorosa attorno e sot­to alla caviglia. Il paziente ha difficoltà nel localizzare esatta­mente il dolore. Nei casi conclamati, il piede si presenta chia­ramente deformato, soprattutto «sotto carico», cioè quando il piede sostiene il peso del corpo: la volta plantare scompare, per la perdita dell’arcata longitudinale. Il paziente non riesce più a sollevarsi sulle punte dei piedi e la deambulazione è grave­mente alterata. Il paziente cammina strascicando i piedi, man­ca la fase di spinta sull’avampiede e il passo è accorciato sia nel­la fase oscillante che nella fase di appoggio. L’esame radiogra­fico evidenzia le lesioni osteoarticolari e documenta le defor­mità. Quando si presentano i primi sintomi infiammatori nel retropiede è indicato il trattamento farmacologico. Se questa terapia si dimostra insufficiente, si prenderanno progressiva­mente in considerazione altre misure terapeutiche, che vanno dalla terapia infiltrativa alle ortesi, alla sinoviectomia, antrode­si selettiva e infine alla Triplice Artrodesi.

L’artnodesi consiste nella «fusione» dell’articolazione inte­ressata dal processo distruttivo e deformante. Si tratta di un in­tervento che toglie definitivamente il movimento all’articola­zione interessata. Perciò, se l’articolazione colpita dalla malat­tia è solamente l’articolazione astragaloscafoidea, l’intervento si limiterà a questa articolazione. Tuttavia molto spesso le arti­colazioni interessate sono contemporaneamente la astragalo­scafoidea, la calcaneo-cuboidea e la sottoastragalica. Sono tre articolazioni dal punto di vista anatomico, ma dal punto di vi­sta funzionale possono essere considerate come una sola arti­colazione. In questo caso eseguiremo la antrodesi delle tre articolazioni (Triplice Antrodesi). Il decorso post-operatonio pre­vede l’immobilizzazione con uno stivaletto gessato per 2-3 mesi. Questo è un intervento impegnativo e non senza complica­zioni, tuttavia risulta spesso eccellente nel ridurre le sofferen­ze e nel migliorare la qualità di vita dei pazienti.