http://www.espressonline.it/ESW_articolo/0,2393,40715,00.html
Altra cosa è il "non più guerra" nelle sue
formulazioni universalistiche alte e costanti, quelle del magistero romano, ove
l’imperativo di pace è posto, prima e oltre la congiuntura, come orizzonte ineludibile per ogni decisione e condotta. Altra cosa è
l'attuale diffusa invocazione di pace, chiusa di fatto nell’orizzonte del suo
obiettivo materiale: la richiesta di non guerra all’Iraq, quando non la
mobilitazione contro alcuni governi.
Ma questo slittamento dall’universale al
congiunturale è self defeating, autodistruttivo, per
l’argomentazione pacifista. La non guerra all’Iraq non è per se stessa garante
di pace, né per l'immediato futuro di quell’area o di altre, tantomeno di una pace generale e perpetua. Il pathos del
"non più guerra nel mondo" e del puro enunciato "pace", che
satura l’attuale mobilitazione, non ha corrispettivi nei fatti. Nasconde
piuttosto, a se stesso anzitutto, il potenziale di guerre prossime venture. È
un clamoroso esempio di pura etica dei princìpi,
rigorosamente irresponsabile. Neppure capace di accollarsi un coerente “Fiat
pax, pereat mundus”:
“purché sia la pace – questa pace, qui – perisca il mondo”.
Un secondo preliminare. Non sorprende che questo
avvenga nell'orizzonte delle pedagogie profonde dell'Occidente pacifico.
“Qualunque potere diminuisce l’autostima”, dicono i programmi pilota degli
educatori cui affidiamo le giovani generazioni; e anche: "trasformare il
conflitto in occasioni di incontro”. È l’orizzonte inavvertito della “fine
della storia” e della falsificazione del Regno di Dio. È il celebrato dovere di
“volersi bene”, ovvero di voler bene a se stessi chiudendosi alla sofferenza
del giudizio responsabile e della decisione conseguente. Così la protesta dei
cortei diviene gioco protetto, prosecuzione del giardino d’infanzia con altri
mezzi. E non da oggi né dal di fuori – non dalle parole di un improbabile
musulmano, ma ben da dentro la nostra cultura – l'ineccepibile corollario di
tutto questo è la deprecazione del diseducativo "cadavere" che in
luoghi pubblici pende dalla croce. Mentre interi capitoli, anzi libri, della
Bibbia riempiono il cestino dei rifiuti dei cristiani “facitori
di pace”.
Su grande scala, nel rapporto tra nazioni, questa
deriva induce a privilegiare nelle agende internazionali la riparazione delle
disarmonie tra amici, invece che l'efficace far fronte a un nemico, da parte di
chi è capace di farlo.
II. L’errore del “quieta non movere”
Una tesi insidiosa sottostà a quasi tutti gli
argomenti ostili alla posizione americana sulla guerra: che cioè non vi siano
né pericoli né nemici per l'Occidente, anzi per l’ordine mondiale. Tesi spesso
implicata nel rifiuto non ragionato delle analisi di Samuel Huntington
sullo “scontro delle civiltà”.
La stessa frequente controdeduzione
che, se anche vi fossero potenti antagonismi antioccidentali, questi sarebbero
ingigantiti da un intervento militare contro gli Stati canaglia suppone che
“rebus sic stantibus” il pericolo per l'ordine
mondiale sia minore o minimo o inesistente: con un’autoimputazione
all’Occidente di ogni eventuale responsabilità di guerra.
In profondità prevale una lettura dell’Altro statica
e aconflittuale. La visione del rapporto tra le
grandi forze mondiali che ne consegue è tipica del pacifismo teoretico, che
postula nell’Altro una sostanziale assenza di intenti aggressivi. In effetti,
nelle subculture del dialogo, è l’Ego che produce il fantasma del proprio
nemico; l’Altro è in sé il luogo del valore. Ma si tratta di un erroneo
traslato delle etiche della carità o della giustizia, necessariamente centrate
sull’autoimputazione della coscienza morale.
Trasferito in campo storico, nelle relazioni politiche e religiose, questo
assunto finisce col caricare di tutta la responsabilità dei conflitti, moralisticamente, il soggetto che pensa e decide.
Il grado ultimo del pensare inesistente qualsiasi
progetto di attacco all’Occidente è rappresentato dal suo rovescio, o meglio
dalla sua “catastrofe”: l’affermazione diffusa in molte estreme, pacifiste o di
ultrasinistra, che tutto quanto accade, ad esempio di terroristico, contro
l’Occidente è prodotto deliberatamente dall'Occidente stesso, Stati Uniti e
alleati, per motivare una strategia imperiale di controllo repressivo del
mondo.
Senza questo insieme di tesi soggiacenti non sarebbe
possibile l'attuale mobilitazione emotiva contro “la” guerra (in realtà contro
una guerra precisa) come indeterminato e generalizzato orizzonte di male. E
neppure sarebbe comprensibile la favola della “guerra di petrolieri per il
petrolio”, con la quale si vuol dire ai semplici che non abbiamo nemici se non
tra noi (il petrolio è favola in questo, non nella sua razionale rilevanza).
Ogni riflessione che solo evocasse ragioni e limiti di un intervento militare
finalizzato rappresenterebbe, infatti, una violazione della lettura statica e
comunitaria del mondo; implicherebbe pensare l'Altro come possibile colpevole
verso l’ordine internazionale. E questo confligge con
la nostra attuale coazione (di occidentali prima ancora che di cristiani) non a
imputare altri, ma a imputare noi di delitti, e a chiedere di essere perdonati
dalla storia. Che questa coazione trovi, oggi, anche senso e radici in una
metamorfosi delle culture antagoniste degli anni Sessanta/Settanta, gnostico-rivoluzionarie, di sinistra e di destra, è altra
questione, che esigerà una riflessione adeguata.
III. Sulla crisi degli organismi internazionali: Onu, Ue, Nato
Il ripetitivo sottolineare la crisi degli organismi
internazionali, dall'Onu all'Unione europea alla
Nato, l’allarme, cui non si è sottratta neppure la vigile intelligenza di
Sergio Romano (“Corriere della Sera” dell’11 febbraio 2003), sembrano non
tenere conto di un dato. Che mi pare il seguente. Le organizzazioni
internazionali menzionate sono o associazioni (universali, rappresentative)
dell’intera comunità degli stati, espresse in un organo assembleare (Onu), o comunità transnazionali subcontinentali
(Ue), o alleanze geostrategiche
militari transcontinentali (Nato). Come tali, quindi, sono vincolate nella loro
azione o dalla loro universalità formale, o dalla loro specificità funzionale o
settoriale. I rapporti internazionali, d'altra parte, in situazioni di
conflittualità e di crisi, hanno bisogno di un potere di governance
dello stato d’eccezione, capace di contenimento e controllo dei processi di
destabilizzazione. Ovvero di un “arbitro”, o di un “rappresentante” (sono
naturalmente profili diversi), dotati di effettivi poteri di sanzione su scala
mondiale, capaci anche di coazione militare. Tali poteri non possono essere
oppugnabili nell'esercizio della loro funzione. Ebbene, le tre istituzioni e
organizzazioni citate, rispetto a questa funzione, si trovano in una posizione
inidonea o secondaria o dipendente.
Inidonea attualmente è l'Onu,
perché fungendo con difficoltà da arbitro in condizioni ordinarie, non può
essere l’arbitro delle situazioni eccezionali di conflitto. L'arbitro di una
competizione, infatti, non può essere costituito dall'assemblea dei giocatori;
è altro ed è, secondo diritto, il più forte: decide della sanzione e la rende
efficace. È vero che nella comunità degli stati anche il più forte è uno stato
tra pari. Ma nello “stato d'eccezione” quell'arbitro sarà necessario, e potrà
essere rappresentato solo dal soggetto nazionale durevolmente affermatosi come
capace, di fatto, di conservare quello stesso ordine per cui l’Onu esiste e di esercitare, seppure non da solo, forza
coattiva sopra ogni altro soggetto in gioco. Questa sua doppia capacità fa del
soggetto democratico più forte colui che decide dello stato d'eccezione, cioè
colui che è temporaneamente il “sovrano”.
Questo è sempre vero e operante “de facto”. E meglio
sarebbe se si desse dello stato d'eccezione, e dell’arbitro (ovvero della
figura rappresentativa) che esso individua, un razionale profilo “de iure”. L'Onu conosce dei mandati esecutivi, finalizzati alla
repressione armata di un delitto, attribuiti a una data coalizione di forze. Ma
il problema critico è la decisione, prima ancora dell'esecuzione. Il caso
attuale è esemplare: l’Onu ha difficoltà a conferire
un mandato proprio perché, sia come assemblea che come consiglio di sicurezza,
offre costitutivamente uno spazio a ragioni, a
interessi e a coalizioni che intendono sottrarre qualcosa al ruolo del paese
dominante. Nel caso d’un grave pericolo per l’ordine internazionale in corso o
potenziale dovrebbe invece essere attribuito allo stato democratico dominante
un ruolo di arbitro che sanzioni i giocatori, dai quali non può e non deve
dipendere finché la partita è in corso: ovvero il ruolo di rappresentante
temporaneo dell'intera comunità degli stati con pieno mandato.
Quanto all'Unione europea, essa è in subordine, nello
stato d’eccezione internazionale, poiché non è in grado di esercitare efficace
capacità sanzionatoria, neppure sul proprio
territorio, come s’è visto con le guerre balcaniche.
Esemplare, ora, per l’Iraq, è il caso del piano franco-tedesco. Se respinto da
Baghdad esso non ha alcuna possibilità di essere eseguito se non dopo un
intervento armato, che l'Europa non può sostenere e che dovrebbe alla fine
essere compiuto proprio dagli Stati Uniti.
Quanto alla Nato, essa esiste dalla fondazione come
sostegno e corresponsabilità verso l'esercizio ordinario di controllo e
contenimento dei conflitti esercitato dagli Stati Uniti sulla frontiera
centroeuropea ed euroasiatica. Fa altresì da
coordinamento tra le culture politiche occidentali al di qua e al di là
dell'Atlantico. Una Nato per definizione attiva in sinergia transatlantica non
può che operare su obiettivi, in Europa e nel vicino Oriente, pertinenti la
stabilità mondiale. Separata o in conflitto, in alcune sue componenti, con gli
Stati Uniti, la Nato non ha ragione di esistere, né geopoliticamente
né militarmente.
L’attuale – e sopravvalutata – “crisi” di questi tre
organismi non è tanto crisi di dialogo ma “da” dialogo. Non ogni decisione può
essere affidata al dialogo tra le parti. Nella procedura più conforme a
giustizia che la civiltà mondiale conosca, il processo giudiziario moderno, le
parti che offrono materia e argomenti al giudice sono tra loro in dialettica,
non in dialogo. Il dialogo può essere generatore di amicizia; non è
necessariamente luogo di verità, né di giustizia. La crisi attuale di Onu, Ue e Nato è prodotta
dall'intrusione di piccoli conflitti di potenza nel loro dialogo interno.
L'Unione europea, in particolare, si aggrappa a progetti irrealistici e si
mostra capace solo di mobilitare opinione pubblica. Ma irrealismo,
effervescenza di piazza e concorrenza interna sono esattamente quello che non
serve nello stato d'eccezione.
Esaminiamo con freddezza le cose anche dal nostro
punto di vista di partner europei.
La conflittualità con gli Stati Uniti non ci rafforza
in identità e autonomia, se non emozionale e rivendicativa. Ha l'effetto di
confermare gli Usa nella solitudine del decisore, aggravata sul piano
istituzionale dal mancato riconoscimento della necessità e conseguente
legittimità di questo loro ruolo. Non attribuire, nel caso d’eccezione, un
mandato pieno agli Stati Uniti indebolisce proprio gli istituti e gli stati che
glielo negano e che, con questo, mettono in gioco la loro stessa autorità sul
piano internazionale. Infatti, facendo apparire gli Stati Uniti come gli attori
di una guerra privata, queste istituzioni e questi stati, per mostrarsi
innocenti al mondo musulmano e in genere al Terzo e Quarto mondo, si
presentano, e si dichiarano, inermi di fronte all’emergenza. E se anche la
"guerra degli Usa" non fosse attuata, ne uscirà ovunque rafforzata la
certezza che non vi è effettiva capacità di coazione su scala mondiale se non
da parte americana, e che anch'essa può essere neutralizzata senza eccessivi
costi per i potenziali trasgressori, poiché a neutralizzarla provvede
l'Occidente stesso.
La temibile crisi di Onu, Ue e Nato non è dunque quella che oggi è sotto i nostri
occhi; potrà nascere dal mancato riconoscimento "costituzionale"
della eventualità di stati d'eccezione nel mondo, e della conseguente legittimità
degli Stati Uniti, soli titolari di un inedito “imperium”
liberale (G. John Ikenberry),
a decretare lo stato d'eccezione stesso e prendere – non soli – le misure
conseguenti.
Aggiungo che anche la Chiesa cattolica, cui vitalmente e culturalmente appartengo e che amo, potrebbe
uscire indebolita da una delegittimazione della funzione sanzionatoria
degli Stati Uniti. Indebolita almeno nella sua potestà di indirizzo sui fedeli.
Quest'ultima, infatti, come mostra la sua storia sotto le autocrazie totalitarie
del XX secolo, può essere esercitata solo dove la Chiesa stessa sia esente da
costrizione e da ricatto sistematici: evenienze anche oggi ben presenti in
tutte le aree non democratiche del mondo. Ma, intrinsecamente immune da
quell’eresia cristiana che è lo smarrimento del principio di realtà, la
riflessione e azione della Chiesa, teologica e politica, sarà condizione di
uscita dal nostro disorientamento di civiltà, mascherato da emozioni troppo
sicure di sé.
IV. Regìe di crisi mondiali
Solo una esplicitazione, a
chiusura di queste note, per procedere oltre.
Appare, a chi scrive, razionale e responsabile porre
l’esistenza attuale di più regìe di crisi su scala
mondiale. Anche senza la grande quantità di evidenze, si dovrebbe postulare che
un impero liberaldemocratico centrato sugli Stati
Uniti, per il solo fatto di esistere in quanto impero e in quanto attore di
democratizzazione modernizzante, debba generare attorno a sé potenti reazioni
antagonistiche, altra cosa ancora dalla emulazione universalistica tra civiltà
di cui ragiona Huntington.
Regìe di crisi, dunque, di obbligata natura terroristica e
finalità destabilizzatrice; visibilmente attive anche
se forse non coordinate tra loro se non occasionalmente, in virtù della
disomogeneità dei diversi protagonisti in Oriente o nell'Eurasia
occidentale. Ad esempio, l'organizzazione di un Osama
bin Laden non sarà
necessariamente coordinata con una regìa di crisi
come quella nordcoreana, ma seguirà una sua più
elementare strategia di accensione di fuochi ora in questa ora in quella area
geopolitica. Lo stesso vale per le regìe che
accendono di tempo in tempo il conflitto tra India e Pakistan oppure guerriglia
e attentati nell’arcipelago indonesiano. Per non parlare di chi pensi di
incrementare l’immane potenzialità destabilizzante dell’Africa contemporanea.
In questa prospettiva il conflitto israelo-palestinese appare quasi in secondo piano. È
utilizzato in altri paesi arabi solo come simbolo mobilitante: non
secondariamente perché la resistenza israeliana l'ha condotto, regionalmente, a
uno stallo. Ma le regìe di crisi mediorientali
contano sulla equivocità e relativa indecifrabilità di quanto viene messo in
opera. L’iniziativa irachena, a partire dalla tentata occupazione del Kuwait,
conferisce nuovo pericoloso dinamismo a quest’area su un asse materialmente
molto più rilevante del territorio palestinese, quello delle riserve
petrolifere del mondo arabo.
In tale quadro, regionale e mondiale, non appare
quindi sensato lasciare risorse e operatività a queste regìe,
né lasciare gioco a un grande destabilizzatore di
area quale appunto è – e si vuole, diversamente da altri capi di stato arabi – Saddam Hussein.