Ideazione -
gennaio febbraio 2002
di Carlo Jean
Ogni epoca ha
conosciuto il proprio tipo di guerra. Gli obiettivi politici e le modalità
dell'uso della forza - cioè le strategie e le tattiche - sono sempre state
speculari alle caratteristiche delle società e dei sistemi economici. Il
fattore che più influisce sull'evoluzione di entrambi è la tecnologia. Intanto,
essa influenza i modi con cui viene prodotta la ricchezza e la potenza
militare, i quali hanno sempre presentato nella storia stupefacenti
somiglianze. In secondo luogo, essa determina il tipo di organizzazione
sociale, in modo, per l'appunto, da ottimizzare l'utilizzazione delle
tecnologie disponibili. L'era delle informazioni conosce pertanto il proprio
tipo di guerra, diverso da quelli del passato.
A proposito della guerra moderna si è parlato di tre "ondate",
corrispondenti a tre diversi tipi di società: agricola, industriale e
postindustriale. Poiché i sistemi politico-sociali che si combattono sono
asimmetrici, anche le guerre sono quasi sempre fortemente asimmetriche. Sono
tali non solo negli obiettivi perseguiti dai due avversari - che sono
evidentemente sempre diversi-, ma anche nelle loro culture etico-politiche
e strategiche,nonché nei loro armamenti e nell'organizzazione militare
adottata. Ad esempio, in Afghanistan vi sono state due guerre: quella
postindustriale degli americani e quella pre-industriale dei talebani. I conflitti simmetrici sono stati eventi
eccezionali. E' stata tale, fortunatamente a livello solo virtuale, la Guerra
Fredda. Perché un conflitto possa essere simmetrico, devono essere simili non
solo le tecnologie disponibili, ma anche i valori, le culture strategiche, il
grado di accettabilità di perdite, di rischi e di distruzioni. Devono essere
pure simili i rapporti di forza. In caso contrario, strategie e tattiche dei
due avversari devono essere molto differenti. Quello molto più debole deve fare
ricorso alla resistenza non violenta, al terrorismo o alla guerriglia. Con la
fine della Guerra Fredda ogni possibilità di guerra simmetrica è
definitivamente scomparsa.Taluni studiosi di storia militare - come van Creveld e Keegan
- ritengono addirittura che siano mutati la natura e i meccanismi dei conflitti
e che non sia più valida la teoria clausewitziana
della guerra, paradigma di riferimento di ogni riflessione strategica negli
ultimi due secoli. Le guerre non scoppiano più fra gli Stati, ma al loro
interno. Esse non vengono più combattute fra eserciti regolari, ma fra di essi
e le milizie originate direttamente dai popoli, o direttamente fra essi. Ci si
batte per la propria etnia, per la propria religione, per il controllo di
traffici illeciti, e così via. La guerra non può essere più considerata una
razionale continuazione della politica con altri mezzi (in realtà, Clausewitz l'aveva definita «continuazione della politica
con l'aggiunta di altri mezzi», poiché, durante la guerra, la politica non si
interrompe, ma continua a dirigere le operazioni militari, adeguando, al tempo
stesso, i suoi obiettivi all'esito di queste ultime). La maggior parte delle
perdite (negli ultimi 10 anni, circa il 95 per cento) riguarda le popolazioni
civili, non i militari. Sta del resto scomparendo la distinzione fra i
combattenti e i non combattenti, che aveva costituito una delle principali
conquiste della civiltà. Predominano oggi i fattori irrazionali e le visioni
messianiche. Secondo Edward Luttwak,
le democrazie avrebbero visto diminuire o addirittura perso la capacità
d'impiegare efficacemente la forza militare. Gli eserciti "borghesi"
ad alta tecnologia non sarebbero più capaci di contrastare i "barbari
guerrieri" dei conflitti etnico-identitari né i
terroristi aspiranti al martirio, fanatici sostenitori di obiettivi millenaristici, senza arrecare e subire perdite e
distruzioni e affrontare rischi, ormai inaccettabili alle opinioni pubbliche
occidentali. Sarebbero finite le "guerre eroiche" ed iniziate quelle
"post-eroiche". Le operazioni in Afghanistan dimostrano che tali
teorie sono troppo radicali.Quando viene attaccato, l'Occidente accetta rischi
e perdite. Le nuove tecnologie permettono un'azione efficace anche contro i
guerrieri tribali e contro i fanatici ad alta tecnologia. Beninteso, il soldato
delle armi combattenti rimane l'elemento centrale della potenza militare. Il
deus ex-machina della tragedia greca non è stato sostituito dal "deus in-machina" tecnologico della "nuova rivoluzione
negli affari militari" in corso negli Stati Uniti. Comunque, le
tecnologie, la capacità tattica e l'eccellenza del reclutamento e
dell'addestramento dei soldati americani sembrano permettere una risposta
ragionevolmente efficace alle nuove minacce. Le possibilità di futuro ordine
mondiale dipendono dalla vittoria della guerra contro il terrorismo
internazionale e dall'efficacia delle strategie di contro-proliferazione dei
missili balistici e di crociera e delle armi di distruzione di massa.Solo in
tal modo, l'Occidente sarà in condizioni di mantenere lo status quo derivato
dalla sua vittoria nella Guerra Fredda. Come ha affermato Pierre
Hassner, il principale pericolo - che potrebbe
portare alla frammentazione e balcanizzazione del
mondo - è che, nel confronto fra nuovi barbari e vecchi borghesi, i primi
acquisiscano le tecnologie dei secondi, obbligando questi ultimi ad imbarbarirsi
oltre il necessario, sufficiente per poterli contrastare. Le elaborazioni
teoriche sulla cosiddetta "seconda era nucleare", discussa in Texas
dai presidenti Bush e Putin
- e di cui, almeno nell'Europa continentale, non è "politicamente
corretto" parlare - dimostrano chiaramente come ci si stia avviando in
tale direzione. La proliferazione, infatti, non è più un'ipotesi, ma una
realtà. La sopravvivenza dell'Occidente è legata alla capacità di realizzare
efficaci sistemi di "dissuasione dal forte al folle" e di
"attacco al leader". Solo essi potrebbero ripristinare un certo grado
di dissuasione e, quindi, di prevenire azioni terroristiche delle dimensioni di
quelli dell'11 settembre. Essi potrebbero divenire disastrosi qualora i terroristi
impiegassero armi di distruzioni di massa. Al riguardo sono prioritari il
potenziamento dell'intelligence e la predisposizione della capacità di
effettuare "operazioni covert", per
catturare o eliminare i terroristi. E' ridicolo affermare che il terrorismo
internazionale derivi dalla miseria del Terzo Mondo o dal conflitto israelo-palestinese. Gli Stati della penisola arabica hanno
investito in Occidente centinaia di miliardi di dollari. Le organizzazioni
terroristiche confluite in al Qaeda si sono opposte a
qualsiasi processo di pace in Medio Oriente. Una di esse, l'al-Jihad
egiziana, a cui appartenevano parte dei terroristi dell'11 settembre, aveva
organizzato l'assassinio di Sadat. Non per nulla,
quando bin Laden ha cercato
di "arruolare" l'Intifada, Arafat ha subito inviato la sua polizia a sparare contro
chi dimostrava entusiasmo per tale soluzione. Non bisogna confondere il
terrorismo messianico con altri problemi. La prima cosa da fare in un conflitto
è non sbagliarsi di nemico. Il rapporto sulla Quadriennal
Defense Review (QDR),
presentato al Congresso degli Stati Uniti il 30 settembre scorso dal Segretario
della Difesa Donald Rumsfeld,
insiste più volte sul fatto che l'asimmetria - non solo tecnologica, ma anche
culturale - deve costituire la logica di base della nuova dottrina militare
degli Stati Uniti. Le Forze Armate devono essere poi in condizioni di
combattere una gamma di conflitti molto più ampia di quella del passato. Dalla
lotta alla criminalità organizzata - ad esempio quella al traffico di droga combattuta
in Colombia dalle Forze Speciali americane -, ad un nuovo grande conflitto
mondiale - peraltro ritenuto del tutto improbabile nei prossimi due decenni -
passando per conflitti regionali maggiori del tipo Golfo, per attacchi alle
reti dei terroristi e agli Stati che ne ospitano le basi. Le Forze Armate, in
particolare la Guardia Nazionale, devono poi concorrere con quelle di polizia
alla difesa del territorio nazionale. Le nuove tecnologie devono fornire i
mezzi per risposte accettabili (perdite, danni collaterali e rischi, limitati
anche per la necessità di mantenere il consenso dell'opinione pubblica), ma al
tempo stesso efficaci. La cosa sembra essere riuscita. Gli Stati Uniti sono
un'"iperpotenza" non tanto per la
percentuale di ricchezza mondiale che posseggono (è all'incirca del 20 per
cento, pari a quella che possedevano dopo la prima guerra mondiale), ma perché
dispongono di una grande superiorità militare. Le loro spese per la difesa
ammontano al 35 per cento di quelle mondiali; quelle per la ricerca e sviluppo
militare al 50 per cento, mentre le loro esportazioni di armamenti - anch'esse
strumento fondamentale di politica estera - raggiungono il 60 per cento di
quelle mondiali. Non si può parlare delle prossime guerre, che dovranno
combattere l'Europa e l'Italia, senza considerare la posizione, che non ha
precedenti nella storia, occupata dagli Stati Uniti nel contesto internazionale
dell'inizio del XXI secolo. Non solo le prossime guerre in cui sarà coinvolta
l'Europa, ma anche il modo con cui le combatterà, saranno condizionate dalle
decisioni americane, anche se essa potrà scegliere interessi da difendere e
ruolo da giocare. Oggi, l'Europa si trova di fronte ad una scelta decisiva per
il suo futuro. Da un lato, potrà decidere di continuare ad essere un partner
rispettabile - e quindi rispettato - degli Usa. Dovrà allora non solo colmare
il crescente divario di interoperabilità fra le sue
forze da quelle americane, ma anche - e direi per prima cosa - mettersi in
condizione di avere una politica globale veramente comune, non affidata ai
"capricci" della dimensione intergovernativa dell'Unione. In
alternativa, pur mantenendo l'alleanza transatlantica - essenziale non solo per
la sua sicurezza, ma anche per il mantenimento del suo attuale livello di integrazione
- dovrà specializzarsi funzionalmente o geograficamente, attuando una
"divisione del lavoro" con gli Stati Uniti. Funzionalmente, significa
che l'Europa dovrà limitarsi ad operazioni militari ausiliarie, come le
missioni umanitarie e di mantenimento della pace, lasciando agli americani
quelle propriamente di combattimento e ad alta intensità tecnologica. Con la
specializzazione geografica, le forze europee sarebbero destinate a svolgere un
ruolo regionale, e non uno globale, come invece richiedono la tutela e
promozione dei suoi interessi e valori e le ambizioni dei suoi governi ed
opinioni pubbliche. A parer mio, si dovrebbe scegliere la prima opzione. Essa
dovrebbe essere fattibile. Secondo Eurobarometro, le
opinioni pubbliche dei Quindici sono più favorevoli ad una difesa comune
europea di quanto lo siano per la stessa Unione Europea: 73 per cento contro 48
per cento. Washington sarebbe felicissima di qualsiasi soluzione, purché essa
si traducesse in un aumento delle reali capacità militari europee. La cosa più
pericolosa per gli Stati Uniti consiste nell'aumento del divario fra ambizioni
e capacità europee. Dalla scelta che Europa farà, dipenderanno i tipi di guerra
che si deve preparare a combattere.
Carlo Jean