Il
Foglio quotidiano,
anno VIII, n. 59,
Milano sabato
1-3-2003)
Quello strano cristiano di Bush che
vuole esportare la democrazia
Milano.
“Missed you at Bible Study”,
hai bigiato l’incontro
sulla Bibbia. David Frum giura che furono le prime
parole rivoltegli da George W.
Bush alla Casa Bianca. Frum
non è un funzionario qualsiasi: brillante saggista conservatore, columnist, è stato speechwriter del presidente e gli ha poi dedicato una biografia elogiativa
ancorché pettegolina, “The right man”. Dalla quale emergono indizi
su una questione cruciale per l’Amministrazione
e di cui si parla sempre meno a bassa voce: la God Governance, lo strano e per alcuni
irresistibile, per altri pericoloso connubio tra la Casa Bianca e la religione.
Segnatamente il cristianesimo di matrice protestante, più evangelico-messianica
che tradizionale e conservatrice. Mai visto un posto in cui si parla tanto di
Dio, dice Frum, e lascia intendere che quel primo
richiamo da cappellano in capo di Bush lo ha reso
accorto sullo stile dei suoi speech, gli ha fatto coniare headline di biblica potenza quali
“asse del Male”. Del resto c’è poco da fare, con un presidente che ogni mattina si
inginocchia e parla con Dio, fa pregare prima delle riunioni, definisce Gesù “il miglior filosofo della storia” e si
è scelto per Attorney
un pentecostale duro come John Ascroft,
che ogni mattina guida incontri di preghiera nel suo dipartimento. Mentre i
siti Internet si riempiono di satira sulla devozione presidenziale, Internazionale
ha messo in copertina un articolo di James Harding sul Weekend
del Financial Times di
qualche settimana fa, succoso di notizie e aneddoti sul côté religioso di Pennsylvania
Ave. Pure l’Economist ha
preso molto sul serio i rapporti tra “Dio
e la diplomazia americana”, anche perché “era dai tempi di Jimmy Carter che non c’era un uomo così religioso alla Casa Bianca”.
Già, i tempi di Carter. Il problema che questi sono altri tempi, in cui i marines nel
Kuwait settentrionale si inginocchiano con a fianco il fucile e ricevono il
battesimo. E i racconti e le foto sul Washington
Post di ieri sono racconti di forza ritrovata prima della battaglia, di
risveglio religioso prima della Grande Prova. Anche Bush
è un born again, un
risvegliato alla fede. Non sfugge a nessuno che, nella visione dell’Amministrazione che si prepara alla guerra, una
certa vocazione messianica laica degli Stati Uniti — in questo momento è la convinzione
di dover non solo difendersi, ma anche esportare la democrazia — si mescola all’aspirazione cristiana per il trionfo della vera fede.
Non è solo politica estera. C’è che
una grossa fetta dell’elettorato
di Bush è religiosa (l’80 per cento dei cristiani conservatori), in maggioranza
protestante. Gli input antiabortisti all’Onu, gli appelli all’astinenza sessuale, i niet sulla clonazione vanno letti in questa luce. Mentre gli strateghi
di Bush ripetono che ci sono almeno altri 4 milioni
di religiosi, dispersi nell’area
del non voto, che aspettano la loro “redemption”.
Disputa teologica col
Vaticano
Ieri l’Economist ha
salutato il discorso di Bush sul Medio Oriente come
la nascita di una “nuova dottrina di
enorme ambizione”. Se c’è una
cosa che preoccupa il presidente è che qualcuno la consideri frutto di
fideismo. Bush in questo è prudentissimo,
nessuno, nemmeno l’Europa
post-religiosa è autorizzato a farlo. Eppure l’inclinazione dell’Amministrazione ha già prodotto qualche notevole
effetto di spiazzamento/riposizionamento,
sulla cui entità ci si comincia a interrogare. Non è tanto il raffreddamento
con la Chiesa cattolica americana, schieratasi contro la guerra. Piuttosto si
avverte una frattura con i conservatori tradizionali alla Pat
Buchanan e i paladini, anche in chiave religiosa,
dell’America First. E nonostante l’attivismo pro-war
di vecchi “ottantanovisti” come Michael Novak o George Weigel, i conti con il
cattolicesimo conservatore americano appaiono tutti da fare. Basterebbe
ricordare un pensatore come Russel Kirk che, a proposito della Guerra del Golfo, stigmatizzava
già in Bush padre la sostituzione della classica
“dottrina Nixon” con una vocazione neowilsoniana a “salvare
il mondo con la democrazia”. Lo scontro in atto col Papa lascia pochi dubbi
sul carattere “teologico” della contesa. Lo ha notato Baget
Bozzo, cogliendo lucidamente la paradossale inversione tra “la pace temporale del Vaticano” e “la guerra spirituale degli Usa”. Resta che la miscela tra profonda
religiosità, neoconservatorismo e messianesimo
democratico è una novità per la storia americana, ancora non sappiamo quanto
benefica o pericoloso. Per il momento ai laici eredi di Thomas
Jefferson basta che la separazione tra Stato e fede
non venga a mancare. Poi si vedrà.