France News 17 marzo 2003

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Stati Uniti e Francia: frattura e ritorsioni

 di Andrea Tani,

 Comunque vada nel Golfo Persico, un fatto sembra ormai assodato: è venuta definitivamente allo scoperto e si è consolidata una dichiarata ostilità politica, strategica, culturale e comportamentale fra le élite attualmente al potere in Francia e negli Stati Uniti. Ad essa corrisponde una robusta antipatia a livello delle rispettive pubbliche opinioni, che non si sono mai amate, pur subendo nel corso degli ultimi due secoli una forte attrazione l'una per l'altra: una specie di complessivo odio-amore che ha pochi equivalenti nella casistica dei rapporti internazionali. Il principale catalizzatore di questo incattivirsi dei rapporti è stato, come noto, la vera e propria aggressione che il vertice di Parigi sta portando avanti nei confronti della mobilitazione statunitense verso la dittatura di Saddam Hussein.

Quella che era nata come una estemporanea dichiarazione buonista scaturita dalla necessità di dare colore alla celebrazione del sodalizio franco tedesco si è trasformata in una vera e propria dottrina consolidata che ha abbondantemente tracimato le sue presumibili intenzioni originarie. L'intensificarsi progressivo delle critiche francesi e il veemente proselitismo a tutto campo che Parigi ha compiuto con un successo piuttosto scontato dato il tema, hanno assunto una dinamica irrefrenabile. Favoriti in ciò da una rara mancanza di tatto politico da parte di alcuni esponenti della Amministrazione americana, il Segretario alla Difesa Rumsfeld in testa. A questa hanno corrisposto speculari prese di posizione di importanti personalità del governo e dell'opposizione francesi, concordi come non mai sul tema dell'antiamericanismo.

Le ragioni di questi comportamenti e i possibili sviluppi sono stati esaurientemente analizzati da William Plaff e Joseph Fitchett in due articoli comparsi sulla edizione week-end dell'International Herald Tribune del 15 marzo. Le prime risiederebbero - secondo gli autori - nella esplosione incontrollata di taluni caratteri nazionali gallici che condizionano perennemente la condotta degli affari internazionali da parte del governo di Parigi, quale che sia la sua coloritura ideologica: vanità, eccessiva ambizione, arroganza, inclinazione per i gesti inutilmente spavaldi, soffocante nostalgia per un glorioso passato, tendenza a privilegiare la forma rispetto alla sostanza.

A tali consueti moventi si devono associare alcune motivazioni casuali legate alle contingenze specifiche. In primis il petrolio, che viene comunemente accreditato come una delle molle principali della politica americana verso l'Iraq. Probabilmente a torto, dato che gli Stati Uniti hanno un bisogno relativo di incrementare il proprio predominio in materia. Essi controllano il mercato mondiale, tramite le Sette Sorelle, condizionano i principali produttori - dall'Arabia Saudita, al Kuwait, al Venezuela, alla Nigeria, alla recente Russia, tutti puntualissimi fornitori, a dispetto della loro scarsa affidabilità politica - e sono detentori delle più aggiornato know how del settore. Oltre a disporre in proprio delle maggiori riserve strategiche del mondo e di enormi giacimenti non utilizzati in Alaska.

I francesi, invece, sono fuori dei principali giochi, hanno strutture estrattive e commerciali limitate (anche per il loro encomiabile impegno sul nucleare civile) e nessuna risorsa sul proprio territorio. Le loro maggiori opportunità risiedono proprio nei giganteschi contratti che la Total Fina ha stipulato con il regime di Baghdad. Oltre cinquanta miliardi di dollari, ossia sei volte gli interessi economici che la Russia vanta nei confronti dell'intero Iraq. Le cifre sono eloquenti, anche se poco pubblicizzate e forse poco conosciute all'esterno degli addetti ai lavori, e riportano la questione nei suoi giusti termini.

Un altro motivo dell'atteggiamento francese potrebbe essere la sensazione da parte di Parigi che l'evento iracheno potrebbe favorire il processo di integrazione della Unione Europea guidato dalla Francia, catalizzando su un "cattivo" esterno (non Saddam Hussein ma l'egemonismo americano) le sollecitazioni centripete dei Quindici. Questo prima che l'allargamento della UE all'area filo-yankee est-europea allontani definitivamente la prospettiva. E' una tesi avanzata e auspicata in un certo modo anche da Sergio Romano, in una sua recente conferenza al CASD (Centro Alti Studi Difesa). Se così fosse, il tentativo sembra fallito su tutta la linea. La crisi irachena ha fatto non poco retrocedere la UE sulla strada dell'integrazione. L'Europa non è mai stata così frazionata e discorde come adesso. Divisa fra una componente atlantica fedele all'impostazione originaria dell'alleanza euro-americana - con vecchi e nuovi adepti - e un ristretto nucleo renano che, se ha trovato nel mondo consensi e plausi nella sua americafobia, è rimasto sostanzialmente isolato nella propria area di interesse geopolitico.

 

Il consensi e plausi si vanno configurando in un improbabile Rassemblemant intercontinentale, variopinto e trasversale, da Castro a Saddam, a Schroeder, al Papa, ad Arafat, a Chirac, a Lula, all'Arcivescovo di Caterbury, a Jimmy Carter, ai post comunisti russi e cinesi (postcomunisti anche loro, non è un refuso). Scrive Plaff nel suo articolo: "Come Stalin chiese al Papa quante divisioni avesse, così ci sarebbe da chiedere agli stati africani, arabi, latino americani che partecipano a questa lobby, quanto PNL allocheranno a questa inedita alleanza" (e competenza politica, sviluppo tecnologico,e progresso sociale, certezza del diritto e immunità dalla corruzione, aggiungiamo noi). Oltre che irritare massimamente l'opinione pubblica di un grande alleato come gli Stati Uniti, aggredito e ferito da fiancheggiatori obiettivi di Saddam e compagni, nonché ritardare e rendere forse più oneroso l'esito della vicenda, quale altro risultato questa velleitaria operazione porterà a casa?

 

Il mistero è fitto, anche perché a parte dichiarazioni vagotoniche quanto banali sul rifiuto pregiudiziale di considerare inevitabile una guerra per qualsiasi ragione che non sia l'estrema autodifesa - in Iraq ma è anche da presumere, coerentemente, contro la Germania il 3 settembre del 1939, l'Indocina, il Marocco, la Tunisia, l'Algeria, l'Egitto nasseriano, l'esercito libico nel Chad, i ribelli della Nuova Caledonia, persino il battello Raimbow Warrior di Greenpeace nel porto di Wellington - la leadership francese non riesce a fare capire quali siano le sue profonde, meditate e coerenti ragioni per le quali ciò che normalmente appartiene alla sua praxelogia politica non debba essere considerato, con ben altre cautele, anche da altri.

La stessa leadership sottintende molto, ma questo molto si concentra su una ossessione maniacale volta a impedire che gli USA diventino lo sceriffo del mondo. preferendo alla sua autorità - che è comunque l'unica possibile in un pianeta in subbuglio, percorso da violenze feroci e corpose vene di follia - nessuna autorità (a quanto pare) o quella dei vili e degli inetti. Neanche un presidente francese o un prestante ministro degli esteri di nobili natali, innamorato di se stesso e biografo di Napoleone (in mancanza forse di altre personalità per le quali valga la pena prender la penna), potrebbero arrivare a farneticare di un surrogato gaulois o europeo guidato dalla Francia. Questa ultima ipotesi sollecita solo ironie, anche se nessuno osa formularla apertamente.

Al di là di come la vicenda irachena finirà, è più che probabile che i rapporti franco-americani usciranno comunque con le ossa rotte. Di fronte alla tradizionale antipatia dei transalpini verso i loro plurisalvatori - segno che la gratitudine non si coniuga facilmente con l'eccelsa considerazione di sé - è più che certo che per gli americani i francesi sono diventati una specie di Detestati Numero Uno. I primi stanno cercando di trovare qualche motivo razionale e presentabile per giustificare un disgusto che ha soppiantato l'insieme di commiserazione e ammirazione che ha caratterizzato il tradizionale atteggiamento yankee verso i loro attuali rivali quando erano solo dei brillanti bonvivant un po' stravaganti. Si può essere certi che il motivo sarà trovato. Come ha detto Edward Luttwak, sulle rive del Potomac - e anche altrove - è in preparazione un conto salatissimo che verrà presentato al momento opportuno, quando questa storia sarà finita. Qualche anticipazione in tal senso dell'IHT, solitamente ben informato, con qualche estrapolazione da parte di chi scrive:

indebolimento del ruolo ONU di Parigi attraverso una riforma del Consiglio di Sicurezza che aumenti il numero dei membri permanenti e modifichi il meccanismo del veto: saranno necessari due membri e non solo uno, per rendere possibile la sua attivazione;

intensificazione delle iniziative volte alla riduzione dell'influenza francese nel mondo, particolarmente in Africa (il Centroafrica e la Costa d'avorio sono solo l'inizio);

bastoni tra le ruote del carro francese in tutte le altre organizzazioni internazionali, NATO, G-8, WTO, OSCE, eccetera;

limiti alla cooperazione industriale e al trasferimento di tecnologie americane, soprattutto nei settori strategici (nucleare, spazio, aeronautica, information technology, elettronica, petrolio, chimica di punta), fino a intaccare, se necessario, le regole WTO;

fine delle collaborazioni militari e della fornitura di tecnologie belliche o dual use; interdizione all'accesso all'intelligence statunitense; rigetto dei tentativi di penetrazione dell'industria militare francese al lucroso mercato statunitense; good bye agli accordi Thales-Raytheon nella Guerra Elettronica e SNECMA - General Electric per i motori d'aereo; negazione alla partecipazione francese alla Network Centric Warfare del Pentagono, ossia allo stato dell'arte della guerra per i prossimi cinquanta anni;

riduzione degli investimenti USA in Francia, che oggi assommano a un quarto del totale dall'estero;

boicottaggio dei prodotti francesi in USA, dai più tradizionali (moda, lusso, auto, entertainment, vini, culinaria) a quelli più innovativi e a elevato valore aggiunto (aerei commerciali, payload spaziali messi in orbita da Arianne, TGV, telematica, biogenetica, eccetera);

ovviamente esclusione totale della Francia dalla risistemazione dell'Iraq post Saddam, sia come voce in capitolo negli assetti politici che come contrattistica per ricostruzione e petrolio, nonché dal riassetto della Palestina che dovrebbe seguire.

Questo naturalmente nel caso che siano fandonie le voci circa un litigio franco americano da intendersi come gioco delle parti concordato per depistare il mondo islamico, ipotesi a quanto pare sempre meno probabile. Qualunque sia stata la sua origine iniziale, l'ostilità è diventata reale e concreta. D'altra parte, per la Francia gli Stati Uniti hanno fatto le seguenti cose, solo nell'ultimo secolo:

 

salvato il Paese dai tedeschi due volte, nel '18 e nel '44, risollevandolo dalla perdita di coscienza e di dignità che sarebbe potuta essergli fatale nel '40-47;

sfamato letteralmente la popolazione con il Piano Marshall;

ricostituito il suo ruolo di Grande Potenza, con tutti gli orpelli del caso (seggio nel Consiglio di Sicurezza, invito ai summit, area di occupazione in Germania, impero coloniale), portaerei, e altro, senza che la capitolazione ai tedeschi del '40 e la vergognosa collaborazione di una larga parte dei francesi (non solo quelli di Vichy) rendessero tale ricostituzione doverosa (persino la consegna di 80.000 ebrei alla Gestapo è stata obliata;

protetto il Paese per un quarto di secolo con il proprio deterrente nucleare e per due quarti di secolo con la propria 7^ Armata in Germania;

accettato e permesso lo status nucleare voluto da De Gaulle, e in seguito agevolato il suo perfezionamento mettendo a disposizione i suoi laboratori di simulazione (durante la presidenza Clinton, che oltretutto oppose il suo veto in Consiglio di sicurezza alla condanna della Francia per la ripresa degli esperimenti nucleari a Mururoa ordinata dalla colomba Chirac);

permesso dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale un ruolo neo colonialista di Parigi, osteggiandolo il meno possibile e anzi, in Indocina, dando una mano per il suoi mantenimento (forniture di portaerei e velivoli d'attacco poco prima di Dien Bien Phu);

fornito tecnologie critiche in ogni settore di rilevanza strategica;

sopportato personaggi scomodi nonchè di alto profilo come De Gaulle, favorendone l'ascesa attraverso l'eliminazione della concorrenza di mediocri competitori che avrebbero dato meno fastidio agli Alleati e slancio alla Francia

Gli Stati Uniti hanno fatto tutto questo, in particolare l'ultima mossa, non solo per simpatia e idealismo e per mantenere un contrappeso alla Germania che prima o poi sarebbe risorta dalle ceneri, ma perché sapevano che nei momenti cruciali - al di là delle discrasie occasionali - la Croce di Lorena si sarebbe trovata a fianco delle Stelle e Strisce, come successe a Cuba nel 1962, e si sarebbe portata appresso una Francia rigenerata e possente.

Sotto colui che si ritiene l'erede più autentico del Generale (bontà sua!) la Francia è sempre ragguardevole, nei limiti dei suoi numeri, ma la Croce di Lorena non è più a fianco del suo grande alleato e liberatore. Senza che niente sia veramente accaduto per giustificare un rovesciamento di atteggiamenti così radicale. Saddam è lo stesso e, se Bush padre non avesse fermato Schwarzkopt sulla via di Baghdad, la Divisione Daguet inviata in Iraq dal socialista Mitterand avrebbe continuato a macinare sabbia dietro i tank americani e britannici nella medesima direzione. Più che di una azione nefanda dal punto di vista morale - da considerarsi tale per tutte le ragioni sopradette, anche se in politica la morale è spesso un lusso -. si tratta di un formidabile errore che tutti i francesi, e non solo Chirac, pagheranno caro.