Tempi
n.39, 27
settembre- 3 ottobre 2001
È stato l’eroe della resistenza antisovietica. Era scampato a decine attentati. Fino a due settimane fa. Quando sicari algerini al servizio di Bin Laden, spacciandosi da giornalisti, Io hanno raggiunto e ucciso nel suo rifugio sulle montagne del nord Afghanistan. E ora sì scopre che la sua morte era il segnale che ha dato il via all’attacco terroristico all’America. Il comandante Massoud nel ricordo di un amico.
di Fausto Biloslavo
Lo incontrai la prima volta nel 1987, nel suo nido d’aquila
mimetizzato fra le aspre montagne dell’Hindu Kush. Ahmad Shah Massoud mi
attendeva davanti ad una tavola imbandita sopra una tovaglia, un tempo
lussuosa, e distesa come d’abitudine sul pavimento di una casupola fatta di
pietre e fango. Riso e carne erano conditi con un ottimo yogurt, che in
Afghanistan viene offerto in segno di rispetto nei confronti dell’ospite. Mi
sbalordì un altro onore concesso dal famoso comandante guerrigliero: dato che
non si usano posate, spezzettò con le sue mani le parti migliori del montone
servendole nel mio piatto. Seduto per terra a gambe incrociate, con i piedi
scalzi nonostante il freddo, Ahmad Shah sembrava un mujahed qualunque, con un
fisico smilzo e un pizzetto di barba dannunziana. Quello che colpiva erano gli
occhi di brace con i quali ti fissava ed il modo di parlare accompagnato, a
tratti, da un gesticolare messianico.
Quarantotto ore prima dell’attacco terroristica all’America
due kamikaze arabi hanno ucciso il paladino della libertà dell’ Afghanistan,
facendosi saltare per aria in un attentato suicida nel nord del paese. I
terroristi si erano spacciati per giornalisti facendo leva sul grande amore del
comandante nei confronti dei media, che accoglieva anche sotto le bombe.
Moriva, cosi, a 48 anni, un mito che continuava a lottare per il suo paese,
contro i talebani, gli integralisti islamici che hanno trasformato
l’Afghanistan in un emirato governato dalla Sharià, la dura legge del Corano.
Massoud era diventato famoso durante l’invasione sovietica degli anni Ottanta,
quando Mosca cercò di farlo fuori con ogni mezzo. Riuscì sempre a beffare
l’Armata rossa diventando il “leone del Panjsher”, la valle mai occupata dove
era nato. Nonostante fosse un combattente indomito, lo vidi piangere dopo una
grande battaglia a tremila metri di quota, per la perdita di un pugno di
mujaheddin, che andò a seppellire di persona avvolti nel sudano bianco dei
martiri musulmani. Lo incontrai di nuovo nel 1992, nella Kabul espugnata dai
mujaheddin, dove divenne ministro della Difesa. Sempre gentile e scherzoso
aveva un solo difetto, essere di etnia tajika, un popolo minoritario
dell’Afghanistan, che non dominerà mai il paese. Nella maggioranza pasthun
nacque la valanga talebana, che dal 1994 iniziò a travolgere anche Massoud.
Dopo aver perso Kabul e altre città strategiche era asserragliato nel nord est
del paese, ma non mollava. Per i talebani rappresentava l’unica spina del
fianco, di una riottosa alleanza di oppositori unita solo dal suo carisma.
L’ultima volta che lo intervistai era il 1998 e Ahmad Shah, con vent’anni di
guerra alle spalle, mi disse profetico: «Non abbandonerò mai l’Afghanistan,
essendo la ragione stessa della mia lotta. Fra le montagne del mio paese mi
batterò fino alla morte».