Secolo d’Italia 12 ottobre 2001

 Ricostruendo la genesi dell’integralismo islamico/5

Il terrorista globale

di Aldo Di Lello

 

L’essenza dell’islamismo radicale consiste nell’incontro tra religione e modernità: lo abbiamo sottolineato fin dalla prima puntata di questa serie. Oggi affrontiamo una fase del tutto nuova perché parliamo di quell’integralismo che si presenta con la tetra immagine di Osama Bin Laden. Ebbene, a differenza della precedente, questa fase segna l’incontro ancor più aberrante, tra l’islamismo stesso e la post-modernità. Bin Laden islamista post-modemo? Certamente. E non si tratta di una conclusione molto tranquillizzante, dal momento che ci troviamo di fronte all’esasperazione del conflitto e ad una strategia che punta a superare definitivamente politica e razionalità per dilatare sullo schermo globale il nichilismo puro e la distruttività estrema.

E’ «post-moderno», Bin Laden, perché, nel suo messaggio, l’immagine annulla la materia, l’immaginazione cancella il discorso, l’emozione supera il pensiero. Che cosa propone Bin Laden? La fuga dalla storia. Non si accontenta di realizzare una Repubblica islamica o una federazione di Stati teocratici. Lui vuole restaurare il Califfato universale. Si propone come l’erede di Maometto. Il suo «discorso» è eversivo e blasfemo anche rispetto alla cultura e alla tradizione islamica. E’ post-moderno, Bin Laden, perché raccatta frammenti sparsi, di discorso musulmano ricombinandoli in una soluzione priva di profondità ma di grande (e tragico) effetto.

Con lo sceicco del terrore, l’ideologia islamista raggiunge il suo culmine. Ma poi si dissolve. Osama è «post-ideologico»,come è «post-ideologico» l’Occidente che egli ha scelto come nemico mortale , l’Occidente che si «smaterializza» nello spazio virtuale e supera gli Stati, le frontiere, le organizzazioni di massa della modernità politica nella dimensione della globalità. Se l’ideologo islamista Sayyid Qutb capì che la moderna società di massa è la società dei messaggi semplici che viaggiano velocemente nel sistema della comunicazione, Bin Laden ha capito che, nella società interconessa, la comunicazione è resa stessa della globalizzazione. Se Khomeini diffondeva le registrazioni in cassetta dei suoi discorsi per aggirare i controlli sulla stampa imposti da Reza Pahlavi, lo sceicco del terrore utilizza gli spot che raggiungono inevitabilmente l’emotività della sua platea globale aggirando i controlli imposti dalla ragione. Il suo è un «popolo», non di «militanti» (come gli agitatori delle «rivolte del pane» del Cairo, di Tunisi e di Casablanca), ma un «popolo» di consumatori di immagini, un target pubblicitario, un segmento, più o meno grande, dell’audience globale. Dice la scrittrice pakistana Tehmina Durrani in un’intervista pubblicata mercoledì scorso dalla «Stampa»: «Ovunque i giovani islamici sono colpiti dal potere di Osama, perché è riuscito da solo a far crollare le Due Torri». Per questi giovani, le immagini del World Trade Center che si dissolve non rimandano a una terribile tragedia a un’inaudita barbarie che ha reciso la vita di migliaia e migliaia di esseri umani concreti, ma è un «megaspot» che vellica le loro frustrazioni e le indirizza su sentieri aberranti. La malvagità assoluta di Osama non è solo quella di aver provocato la morte di tanti innocenti ma è anche la perversione che s’è prodotta nella mente dei suoi «fan»: la perversione che consiste nel gioire dell’altrui disgrazia, l’assassinio della pietà, l’uccisione» del dio della misericordia e l’adorazione del dio dell’odio e della vendetta. Avverte ancora Tehmina Durrani che ci troviamo di fronte a «una situazione che sta montando a dismisura e continuerà con sempre maggior vigore, cosi come i sentimenti che si trascina».

La guerra scatenata da Bin Laden non è solo una guerra moderna di tecnologie, di materiali, di mezzi, di uomini inquadrati e organizzati, ma è anche una guerra postmoderna, una sofisticata «psico-guerra» e, nello stesso tempo, un conflitto arcaico e barbarico: l’immagine digitale dell’aspirante califfo si impone in parallelo con quella medievale dei Talibani, delle loro barbe da nomadi degli altipiani iranici, dell’oscurità tribale del loro Stato fatiscente. La posta in gioco non è la conquista di un territorio da occupare militarmente, ma l’occupazione di un territorio mentale. Il campo di battaglia è l’immaginario. L’immaginario militarizzato dei sottoproletari di Islamabad o delle masse umane che premono sul «Limes» dell’Occidente e l’immaginario ansioso degli ex-proletari dell’Europa e dell’America, che vedono in Osama il Nemico della civiltà.

Il suo è un esercito di ombre. Le sue armi sono i sentimenti che riesce a suscitare, la paura che può produrre in Occidente. Per questo, il concetto stesso di guerra si trasforma. In questo primo conflitto del XXI secolo, gli eserciti euro-americani non combattono contro altri eserciti, ma contro gruppi di terroristi Il terrorismo non è più un’arma «tattica» ma un risorsa «strategica». Quella iniziata l’ 11 settembre, è probabilmente la prima vera guerra «globale». Non si svolge solo a Kabul ma ovunque, ovunque, ci sia il sospetto di cellule terroristiche pronte all’azione. Una guerra globale contro un terrorismo globale.

Ma perché è avvenuta questa trasformazione? Perché l’islamismo radicale ha scelto questa strada estrema? Un po’ perché Osama Bin Laden e i suoi accoliti hanno compreso che la globalizzazione degli anni Novanta stava cambiando la cultura mondiale e sono stati veloci ad adattarsi Se, nel 1981, i «jihadisti» egiziani puntano alla spettacolarità dell’attentato a Sadat illudendosi che le masse del Cairo non aspettino altro che sollevarsi contro il regime, i terroristi degli anni Novanta non si pongono più il problema di conseguire immediati effetti politici. Lo «spettacolo» è esso stesso politico. Questa strategia ispira il precedente attentato al World Trade Center, quello del 1993. E ispira anche la strage di Luxor del 1997, quàndo gli islamisti massacrano un gruppo di turisti occidentali. Bin Laden, che aveva studiato in Occidente, aveva anche imparato a usare bene la tecnologia dell’Occidente: «Intorno al 1998 - scrive Gilles Kepel - creò un database in cui erano inseriti tutti gli jihadisti e gli altri volontari che erano passati per i suoi campi». E’ allora che nasce al Qa’ida, cioè “la base” dei dati.

Ma il «rilancio» dell’islamismo fu anche il sintomo di una crisi di consensi L’impossibilità di realizzare il progetto politico di Qutb, di Mawdudi e degli altri ideologi radicali stavano spegnendo, nel corso degli anni Novanta, la passione popolare. La geografia politica delle terre dell’Islam era mutata di poco. Dopo quindici anni di proclami, le uniche Repubbliche islamiche rimanevano solo l’iran del mullah e il Sudan di Bashir: troppo poco per chi si era ripromesso di islamizzare» la modernità.

Le classi medie arabo-musulmane erano stanche per lo stillicidio di sangue, attentati e ritorsioni. La proposta del Fis algerino s’era tramutata nell’orgia sanguinaria del Gia. A simpatizzare per la causa estremista erano i soggetti di sempre: i sottoproletari e gli studenti. Ma i settori sociali strategici, la borghesia religiosa, erano sempre più distanti, indifferenti, se non addirittura ostili.

Ecco allora l’idea, il delirio di scavalcare classi e interessi per conquistare, stupire e affascinare le masse. Kepel spiega con molta lucidità le dinamiche dell’escalation del terrore «Le stragi di Nairobi e Dar es-Salam si inseriscono nella stessa logica di quelle avvenute a Luxor nel novembre del 1997 o in Algeria nello stesso periodo: la corrente islamista estremista,. che ha perso la sua base sociale, fa ricorso a un terrorismo più o meno adornato di giustificazioni religiose, le cui vittime non hanno generalmente nulla a che vedere con il nemico designato dagli “jihadisti”. Il terrorismo spettacolare che un’occasione, grazie alla copertura mediatica che fornisce, per assumere il ruolo di campione della causa e riconquistare il favore del popolo, ovviando, attraverso la rappresentazione televisiva, allo scarso radicamento sociale».

Il «rilancio» di Bin Laden è il rilancio di una frustrazione rabbiosa. Per noi, la sua «icona» è un’icona» di morte e terrore. Per i popoli musulmani è, in fondo, l’icona» di un fallimento. Il fallimento ideologico e politico dell’islamismo radicale: -.