Il Giornale sabato 13 ottobre 2001

 PACIFISTI/2

La via di fuga di chi non vuole schierarsi

di Alessandro Maggiolini

 L’inizio dei bombardamenti in Afghanistan ha reso drammatica la situazione di conflitto. Con il rischio di obnubilare il giudizio circa la «legittima difesa» sotto la spinta emotiva. Circa l’interpretazione dei fatti, desolatamente sembra non esserci nulla di nuovo sotto il sole. Ricordate il «Né con le Br, né con lo Stato» degli anni Settanta? Era un modo per non schierarsi, tutto sommato, magari col pretesto che si volevano risolvere tutti i problemi del mondo in un botto. L’universo o il nulla. Cioè, il nulla. O quanto l’ideologia aveva già stabilito. Ed ecco che ci risiamo: «Né con i terroristi, mi con Bush». Come se l’Inghilterra, la Germania, la Francia, l’Italia, l’Europa insomma e molti Paesi arabi e altri non si fossero scomposti a dare qualche sostegno all’America e un poco a tutto il mondo, che è divenuto possibile campo di distruzione terroristica.

Il motivo più serio della decisione di intervenire, sia pure con sofferenza? Pare indiscutibile: non si sa con certezza assoluta chi siano i nemici. Se di guerra si tratta, questa guerra è mossa contro ignoti: appare senza volto, ubiquitaria, priva di confini, di fronti, destituita di dichiarazione - e di vittoria e di sconfitta, forse -, indistinta nella scelta delle armi e così via kafkianamente confondendo. E cresce un senso di insicurezza confuso e acuto.

Che cosa si pretende per l’identificazione di chi proditoriamente organizza e usa la violenza? Che lo si colga sul fatto? Ma allora cesserebbe il fattore sorpresa che è fondamentale nella tecnica del terrorismo. Nel caso di bombe umane, poi, addirittura non esisterebbe più l’avversario. Resterebbe il mandante. I terroristi, presumibilmente non esibiranno i documenti pregando di essere accolti, quando colpiranno.

Il mandante, poi, di solito, non lascia il biglietto da visita sul luogo dei misfatti gioca- è terribile- a depistare le ricerche e, seppur rivendica un intervento in seguito, subito dichiara in pubblico la propria inafferabilità. Se si pretende la flagranza, tanto vale ammettere che occorre esporsi a qualsiasi incursione terroristica, senza batter ciglio. Si riconosca a priori la propria sconfitta e amen. Arrivi ciò che arriva. Il che si può fare da parte di pacifisti magari anche a motivo della fede. Ma senza coinvolgere chi la pensa diversamente - pur credente - e non è un guerrafondaio. Si capisce: qualsiasi indagine che tenda a stabilire l’origine di atti terroristici non potrà pretendere di avere l’apoditticità - l’incontrovertibilità - dell’evidenza o di una dimostrazione cogente. In humanis è raro raggiungere tali certezze. Potrà bastare l’influenza che risulti da prove sufficienti: prove non necessariamente da mettere in piazza. E che pure sono diventate superflue dopo la rivendicazione esplicita del principale indiziato. Cade qui il discorso rituale sull’esigenza- per stare ai fatti recenti - di non stabilire l’equazione terrorismo uguale a Islam. Cioè, di non segnalare una religione come genesi di violenza. In altre parole: di non descrivere l’attacco e la difesa come una guerra di religione.

E chi mai - persone pensose almeno - può cedere a tale inaccettabile semplificazione? Tanto più che l’islam in modo singolare non è una credenza e un complesso di comportamenti che si articolino in modo univoco nei diversi contesti socioculturali. L’islam che si concreta nell’Arabia Saudita, per esempio, non è quello che si può trovare nello Stato indiano del Tamil, o in Marocco, o in Iran, o in Pakistan ecc. Si può - per esempio - andare da una tolleranza che risenta il relativismo a un fondamentalismo che applica la pena di morte per un nonnulla e magari predica la guerra santa Le differenze di attuazione attraversano anche i singoli Stati secondo le scuole teologiche e le accentuazioni di spiritualità islamica. Il rilievo viene ammesso dagli stessi musulmani La difficoltà di comprendere e di qualificare l’Islam deriva soprattutto dal fatto che questa tradizione religiosa non ha rappresentanti gerarchici né derivanti da una successione sacrale, né stabiliti per maggioranza democratica. Stando così le cose, con chi esattamente si ha a che fare? Forse con movimenti culturali sociologicamente intesi e non sempre facili da decifrare. Forse - più di frequente - con assetti politici ed economici Occorre rendersi consapevoli della complessità di questa lettura critica.

Ci si può cavar d’impiccio rimanendo al Corano e ai detti ulteriori del Profeta. Ma anche qui, non si viene a capo tanto agevolmente. Vi si può trovare tutto e il contrario di tutto. E quanto già avviene tra i musulmani. A loro stesso riconoscimento. Il «né con i terroristi, né con Bush» non è forse un modo neppur troppo originale per lasciare che siano altri a risolvere problemi che sono di tutti? O per segnalare bersagli prestabiliti, chiudendo gli occhi a quelli che si hanno davanti? Senza canonizzare Bush, ma anche senza cedere a un antiamericanismo pregiudiziale. L’impresa concerne pure noi italiani, del resto