Il Giornale sabato 13 ottobre 2001
di Alessandro Maggiolini
Il motivo più serio della decisione di intervenire, sia pure
con sofferenza? Pare indiscutibile: non si sa con certezza assoluta chi siano i
nemici. Se di guerra si tratta, questa guerra è mossa contro ignoti: appare
senza volto, ubiquitaria, priva di confini, di fronti, destituita di dichiarazione
- e di vittoria e di sconfitta, forse -, indistinta nella scelta delle armi e
così via kafkianamente confondendo. E cresce un senso di insicurezza confuso e
acuto.
Che cosa si pretende per l’identificazione di chi
proditoriamente organizza e usa la violenza? Che lo si colga sul fatto? Ma
allora cesserebbe il fattore sorpresa che è fondamentale nella tecnica del
terrorismo. Nel caso di bombe umane, poi, addirittura non esisterebbe più
l’avversario. Resterebbe il mandante. I terroristi, presumibilmente non
esibiranno i documenti pregando di essere accolti, quando colpiranno.
Il mandante, poi, di solito, non lascia il biglietto da
visita sul luogo dei misfatti gioca- è terribile- a depistare le ricerche e,
seppur rivendica un intervento in seguito, subito dichiara in pubblico la
propria inafferabilità. Se si pretende la flagranza, tanto vale ammettere che
occorre esporsi a qualsiasi incursione terroristica, senza batter ciglio. Si
riconosca a priori la propria sconfitta e amen. Arrivi ciò che arriva. Il che
si può fare da parte di pacifisti magari anche a motivo della fede. Ma senza
coinvolgere chi la pensa diversamente - pur credente - e non è un
guerrafondaio. Si capisce: qualsiasi indagine che tenda a stabilire l’origine
di atti terroristici non potrà pretendere di avere l’apoditticità -
l’incontrovertibilità - dell’evidenza o di una dimostrazione cogente. In
humanis è raro raggiungere tali certezze. Potrà bastare l’influenza che risulti
da prove sufficienti: prove non necessariamente da mettere in piazza. E che
pure sono diventate superflue dopo la rivendicazione esplicita del principale
indiziato. Cade qui il discorso rituale sull’esigenza- per stare ai fatti
recenti - di non stabilire l’equazione terrorismo uguale a Islam. Cioè, di non
segnalare una religione come genesi di violenza. In altre parole: di non
descrivere l’attacco e la difesa come una guerra di religione.
E chi mai - persone pensose almeno - può cedere a tale
inaccettabile semplificazione? Tanto più che l’islam in modo singolare non è una
credenza e un complesso di comportamenti che si articolino in modo univoco nei
diversi contesti socioculturali. L’islam che si concreta nell’Arabia Saudita,
per esempio, non è quello che si può trovare nello Stato indiano del Tamil, o
in Marocco, o in Iran, o in Pakistan ecc. Si può - per esempio - andare da una
tolleranza che risenta il relativismo a un fondamentalismo che applica la pena
di morte per un nonnulla e magari predica la guerra santa Le differenze di
attuazione attraversano anche i singoli Stati secondo le scuole teologiche e le
accentuazioni di spiritualità islamica. Il rilievo viene ammesso dagli stessi
musulmani La difficoltà di comprendere e di qualificare l’Islam deriva
soprattutto dal fatto che questa tradizione religiosa non ha rappresentanti
gerarchici né derivanti da una successione sacrale, né stabiliti per
maggioranza democratica. Stando così le cose, con chi esattamente si ha a che
fare? Forse con movimenti culturali sociologicamente intesi e non sempre facili
da decifrare. Forse - più di frequente - con assetti politici ed economici
Occorre rendersi consapevoli della complessità di questa lettura critica.
Ci si può cavar d’impiccio rimanendo al Corano e ai detti
ulteriori del Profeta. Ma anche qui, non si viene a capo tanto agevolmente. Vi
si può trovare tutto e il contrario di tutto. E quanto già avviene tra i
musulmani. A loro stesso riconoscimento. Il «né con i terroristi, né con Bush»
non è forse un modo neppur troppo originale per lasciare che siano altri a
risolvere problemi che sono di tutti? O per segnalare bersagli prestabiliti,
chiudendo gli occhi a quelli che si hanno davanti? Senza canonizzare Bush, ma
anche senza cedere a un antiamericanismo pregiudiziale. L’impresa concerne pure
noi italiani, del resto