Il Giornale 21 settembre 2001
PARLA
L’ESPERTO
di Felicita Pistilli
Le figure «superiori» dell’islamismo sono varie, ma i
confini di competenze piuttosto labili. Non esiste una figura che domini sulle
altre e «tutte - spiega Noja - sono nominate dal basso, dal popolo». Il popolo
è stato, ed è, fondamentale nella costruzione della religione musulmana: per
essere qualcuno devi piacere alla gente. «Non esiste investitura», continua
Noja. È la fama che ti rende Mufti, Imam o Ulema.
La terminologia è la stessa in tutto il mondo islamico, come
una sola è la strada maestra da seguire, la legge. La legge islamica si chiama
Sharia, che letteralmente significa «la via». La Sharia regola sia i rapporti
tra gli uomini sia quelli tra l’uomo e Dio e non riconosce la differenza tra
diritto religioso e diritto statale. «Ovviamente - precisa Noja - questa
identità tra diritto religioso e statale si riscontra solo negli stati
totalmente islamici, come per esempio l’Afghanistan». Negli altri Paesi, al
potere politico compete la funzione di garantire che tutti possano praticare la
religione di Maometto e la gente è solo questo che chiede alle autorità civili:
la possibilità di essere musulmano.
Essere musulmano significa seguire poche ma precise regole:
riconoscere Allah come unico Dio, recitare alcuni versi del Corano cinque volte
al giorno in ginocchio verso la Mecca, osservare scrupolosamente il digiuno in
un particolare periodo dell’anno, chiamato Ramadan. Quando pregano i musulmani
«mutano» l’Imam, «colui che sta davanti» e che più degli altri conosce la
religione. L’Imam è la guida nella preghiera, mentre gli Ulema sono le guide
nella più generale vita religiosa, essendo coloro che conoscono perfettamente.
la legge di Dio e dei «sapienti» che hanno fatto la storia dell’Islam. «Gli
Ulema - spiega Noja - potrebbero essere paragonati ai rabbini»: è a loro che
tutti i musulmani chiedono ciò che fare e non fare. «Teoricamente - prosegue -
tutti potrebbero essere un Imam, salmodiando in pubblico il Corano, ma nel
corso del tempo alcune persone si sono “specializzate” e sono state
riconosciute dalla comunità come tali».
Un ruolo di superiorità viene riconosciuto dal popolo
islamico anche al Mùfti, autorità giuridico-religiosa È lui che si preoccupa di
far rispettare il testo sacro attraverso dei responsi-editti chiamati Fatwà, al
quali tutti obbediscono in nome della fede. «L’obbedienza - puntualizza Noja -
è data dal fatto che la religione è sentita e dalla notorietà del Mùfti». Un
Mùfti inattaccabile è stato Khomeinì. Nessuno avrebbe mai osato fare una contro
fatwà a un suo responso. Ci sono poi Mùfti scarsamente considerati. L’Islam è
pieno di responsi favorevoli al suicidio che non sono seguiti perché fatti da
personalità poco conosciute e perché la fede è, a volte, più forte delle regole
terrene. Noja fa un esempio: «Poiché il Corano non prevede il Ramadan in caso
di guerra, il presidente della Tunisia Burghiba fece emettere una fatwà con la
quale dichiarava guerra al sottosviluppo. Nessuno rispettò quell’editto: il
digiuno era una cosa sentita».
L’esempio dimostra come spesso, nei Paesi dell’Islam, la
religione sia usata con finalità politiche, o comunque dalle autorità civili
per interessi propri In questa particolare interpretazione si inserisce il
concetto della Jihad, della «guerra santa», come noi occidentali erroneamente
definiamo quello che per il Corano è «lo sforzo sulla via di Dio». Per il testo
sacro dell’Islam lo «sforzo» è quello di essere un buon musulmano: sono stati i
capi politici a volerlo intendere poi come lotta agli altri credi. il Corano
«ordina» ai suoi seguaci soli pochi comandamenti, «per questo si può affermare
che l’Islam non ha regole precise», conclude Noja. «Allah ‘alam»: solo Allah sa
veramente come vanno le cose.