Il Secolo d’Italia 10 ottobre 2001
Ricostruendo la genesi dell’integralismo islamico/3
di Aldo Di Lello
Uno
dei segni più visibili della «re-islamizzazione»
delle masse arabe si coglie nei territori palestinesi, all’inizio degli anni Novanta,
dove un numero crescente di donne torna a portare il velo. Gruppi di fanatici
girano per le vie di Gara e si divertono a gettare acido sul volto delle
ragazze che vestono all’«occidentale». Gli attivisti islamici, provenienti
perlopiù dai ceti popolari, intendono combattere in questo modo quella che
considerano la «depravazione» delle classi medie, troppo attratte dallo stile
di vita che proviene dalla civiltà degli «infedeli», I palestinesi non s’erano
fino ad allora distinti per un particolare attaccamento ai precetti del Corano.
La loro battaglia politica era piuttosto espressione del laico nazionalismo
arabo. Il loro leader, Yasser Arafat,
rappresentava una delle «icone» del terzomondismo progressista degli anni
Settanta e Ottanta. E risultava popolare anche tra gli occidentali di Sinistra.
Al Fatah, Al Fatah
vincerà…», gridavano i giovani comunisti italiani, che portavano in piazza la
bandiera palestinese e si vergognavano di sventolare il Tricolore.
Beh,
alla fine degli anni Ottanta, il panorama comincia a cambiate sensibilmente. La
«nuova generazione coranica» vagheggiata dall’ideologo islamista
egiziano Sayyd Qutb fa la
sua comparsa anche tra i palestinesi. Sono i giovani nati nei territori
occupati da Israele durante la Guerra dei Sei Giorni. Il 1967 è l’anno del
trionfo di Moshe Dayan. I palestinesi che nascono in
quell’anno e in quelli immediatamente successivi hanno diciottovent’anni
nel 1987. Sono loro gli shebab,
i Ianciatori di pietre protagonisti dell’Intifada.
Tutto
nasce quasi «per caso». L’8 dicembre del 1987 un camion israeliano investe due
taxi palestinesi e provoca quattro morti. E’ un semplice incidente ma diviene
la miccia che fa esplodere una collera di massa. Per giorni e giorni gli shebab
bersagliano i soldati israeliani. Dell’Intifada si impadroniscono le
televisioni del mondo. La rivolta diventa un fenomeno mediatico globale. Le
immagini degli shebab si riversano nelle case di un’altra
generazione di giovani occidentali cronicamente «incazzati». Cominciano a
girare con la kefìah
a guisa di vezzoso foulard.
Non
hanno ancora capito che la «nuova generazione coranica» rappresenta qualcosa di
molto diverso da quella dei feddayn idolatrati dai
loro fratelli maggiori.
Gli
shebab sono
più istruiti e più frustrati dei loro padri. Le loro prospettive di lavoro non
sono esaltanti. Per ben che vada, andranno a fare i braccianti in lsraele. Oppure saranno costretti a emigrare nei Paesi
arabi più ricchi. Ma la crisi del mercato petrolifero del 1986 riduce anche
questa possibilità. E allora non c’è che la disoccupazione. O la rivolta. Ma si
tratta di una rivolta nutrita con valori che farebbero inorridire, nel caso li
sperimentassero direttamente, i giovani progressisti occidentali. Le immagini
del «villaggio globale» sono colorate ma ingannevoli: fanno apparire prossimo
ciò che, spesso, è sideralmente distante.
I
nuovi ribelli sono un soggetto sociale esplosivo. L’Olp
è spiazzata. Tra i giovani lanciatori di pietre mette presto radici un nuovo
movimento: Hamas. L’ organizzazione dello «Zelo»
islamico nasce nel febbraio del 1988, due mesi dopo l’esplosione dell’lntifada. Lo sceicco Ahmad Yassin, esponente di spicco dei Fratelli Musulmani, ha
deciso che non è più il momento di tenersi fuori dalla politica. L’appannamento
progressivo della stella di Arafat e il vento
islamico che spira forte per tutto il Medio Oriente lo convincono che è venuta
l’ora di contrastare l’egemonia ideologica del nazionalismo arabo presso i
palestinesi il nuovo movimento si presenta con contenuti assai più radicali rispetto
a quelli del]’Olp.
Certo,
il sentimento nazionalistico palestinese è più vivo che mai. Ma ora cominci a
esprimersi, non più con il linguaggio marxista e socialista dell’Olp, ma con quel lo immaginifico della «Guerra santa».
Nell’agosto del 1988 Hamas lancia la sua «Carta». E
un documento alternativo rispetto alla «Carta» dell’Olp.
Alternativo e decisamente conflittuale. Nella riunione di Algeri del 15
novembre il Consiglio nazionale palestinese «proclama» l’indipendenza dello
Stato palestinese, ma nello stesso tempo riconosce l’esistenza di Israele.
La
«Carta» di Hamas propone invece una fuga nel delirio mistico-religioso. Ecco uno dei suoi passi più incendiari:
«Non vi sarà soluzione alla causa palestinese se non attraverso la jihad Quanto alle iniziative, alle
proposte e alle altre conferenze internazionali, non si tratta che di perdite
di tempo e di attività inutili».
E’
il trionfo dell’antipolitica, ma quel linguaggio si dimostra un potente
strumento di consenso politico.
Non
c’è solo però la «nuova generazione coranica» a favorire Hamas
nel duro confronto politico che ha ingaggiato con l’Olp.
Ci sono anche, per così dire, scelte «strategiche» compiute da chi custodisce
le chiavi dei forzieri di Allah: l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi. La guerra
in Afghanistan, che vede impegnati i mujaheddin islamici contro l’Armata Rossa,
mobilita assai più l’mmaginario arabo-musulmano che
non l’ormai annoso conflitto arabo israeliano E i flussi finanziari che partono
dalla penisola arabica cominciano a essere dirottati sempre più frequentemente
verso i guerriglieri afghani Le casse dell’Olp si svuotano progressivamente. A rendere più «poveri» i
seguaci di Arafat contribuisce poi ]‘improvvida
scelta del leader palestinese di schierarsi al fianco di Saddam
Hussein nella guerra del Golfo del 1991: il Kuwait
non glielo perdona e comincia a rimpinguare le tasche dei «guerrieri» di Hamas.
Il
vento islamico spira sempre più forte tra i palestinesi: i ceti medi, la
piccola borghesia religiosa guardano con sempre maggiore simpatia al movimento
fondamentalista. il radicalismo di Hamas è però anche
il suo tallone d’Achille. Lo stillicidio di attentati antisraeliani
e di reazioni sfibra progressivamente i settori sociali strategici. La
creazione, nei 1994, dell’Autorità nazionale palestinese favorisce
indubbiamente Arafat e ne restituisce il prestigio
presso la sua gente.
Nulla
però tornerà come prima. Hamas ha ormai messo radici.
Gli ultimi anni segnano una fase di stallo. Sia per l’Olp
sia per gli integralisti. Ma si tratta di una paralisi sanguinosa. Il
radicalismo islamico continua la sua guerra a Israele. E i kamikaze alimentano
una spirale di odio. Un odio senza sbocchi che però cresce su se stesso. Gli
scontri di questi giorni, con la polizia palestinese che spara contro I
«supporter» dei Talebani, rappresentano anche
l’esplosione di una ormai storica tensione tra l’Olp
e i fondamentalisti. Il vecchio Arafat, che ha dieci
vite come i gatti, questa volta ha capito da che parte è saggio schierarsi.
Ma,
per tornare alla metà degli anni Novanta, vale la pena ricordare che le ragioni
sociali e culturali da cui trae alimento l’integralismo musulmano rimangono più
forti che mai il fallimento di un modello di sviluppo di tipo occidentale,
condotto dalle classi dirigenti moderate, l’incapacità di queste stesse classi
di promuovere una coraggiosa politica di modernizzazione che salvaguardi,
contemporaneamente, i contenuti dell’identità storica, queste lacune e questo
vuoto politico-culturale che si spalancano, continuano a offrire grandi
opportunità alle semplificazioni estremistiche degli islamisti.
Bruno
Etienne spiega così questo meccanismo perverso: «Penso che la causa principale
risieda nelle disillusioni del progresso:
il disinganno conseguente al primo ventennio di indipendenza sembra essere
stato il vero detonatore. Per “essere islamico” non basta aver acquisito una
acuta coscienza delle disuguaglianze, ma occorre credere anche che le politiche
di crescita attualmente proposte non riusciranno a eliminarle; occorre soprattutto
essere persuasi di non poter beneficiare dei frutti dello sviluppo, e aver
preso coscienza della relativa scarsità dei beni di consumo per la maggioranza,
in Paesi in cui la classe politica si “arricchisce sfrontatamente”». E’ fatale
che, in queste condizioni, la proposta dell’islamismo venga percepita come una
reazione alla «modernità anarchica o piuttosto un tentativo di ritrovare in sé
e nel gruppo (…), i mezzi per sopportare gli enormi costi della modernità, una
delle cui caratteristiche è l’avere distrutto le antiche strutture senza averne
create di nuove».
Vale
la pena leggere quanto scrisse il vecchio Governatore della Banca d’Italia,
allora già in pensione, Guido Carli, in un articolo
che risale all’agosto del 1987 e che venne pubblicato sul «Tempo» di Roma.
Nello scritto è contenuta una spiegazione ancor più «strutturale» delle ragioni
della fascinazione di tanti diseredati per
l’ideologia islamista. E vale la pena osservare che,
a quell’epoca, certi fenomeni erano ancora assai poco visibili in Occidente.
«Poiché - rilevò dunque Carli - siamo in un periodo
di crescente proselitismo dell’Islam, può essere meritevole di qualche
attenzione soffermarsi brevemente sopra i princìpi direttivi ai quali si
ispirerebbe un sistema economico di tipo islamico». La finanza islamica, nel
rispetto dei suoi principi, «esclude prestiti in danaro collegati
all’obbligazione dei debitori di restituirli maggiorati di un interesse», I
prestiti li ammette alla «condizione che i creditori si associno alle sorti dei
debitori sui quali incombe l’obbligo di investire per scopi produttivi» In
definitiva, concluse Carli, la «finanza islamica si
fonda sul principio della partecipazione».
Erano
frequenti, in quegli anni Ottanta, le sommosse popolari in diversi Paesi del Nordafrica. A causarle erano le strette creditizie che il
Fondo monetario internazionale imponeva ai governi. Per tante «illuminate»
menti d’Occidente non era altro che rabbia da diseredati. Diseredati, sì, ma
non disperati. Il messaggio islamista non si riduceva
a imporre il velo alle donne.