Il Secolo
d’Italia 5 ottobre 2001
Ricostruendo la genesi dell’integralismo islamico/2
di Aldo Di Lello
Gli anni Ottanta sono il decennio dell’esplosione politica
islamica. L’evento centrale è la rivoluzione, nel 1979, dei mullah iraniani «I
nuovi padroni dell’Iran - scrive Giiles Kepel - sono conùvinti di
incarnare l’islam per eccellenza, ben oltre la specificità sciita» («jihad,
ascesa e declino», Carocci ed.. 2001). Lo sciismo di Khomeini non
rappresenta un ostacolo all’ «onda d’urto» che da Teheran si propaga per tutto
il mondo musulmano, ma il diverso orientamento del clero sunnita,
assai più prudente di quello sciita, sarà determinante nell’insuccesso dei
primi colpi di mano tentati dagli islamisti radicali
al di fuori dell’Iran.
Il terremoto produce un primo effetto nel 1981 in Egitto. Un
gruppo di integralisti, che si sono abbeverati ai testi di Qutb,
si rende protagonista del tremendo (e tragicamente spettacolare) assassinio di Sadad. Hanno formato una piccola organizzazione chiamata aljihad e
sperano, uccidendo lo statista che voleva li pace tra arabi e israeliani, di
dare il la all’insurrezione popolare. Sperano che la gente egiziana si ribelli
come il popolo iraniano e sognano di instaurare così, sulle rive del Nilo, una
seconda repubblica islamica. Ma si sbagliano. I dottori della legge egiziani,
gli ulema, da sempre ostili al radicalismo di Qutb, operano una scelta opposta rispetto à quella dei
mullah iraniani. Il messaggio degli integralisti egiziani rimane confinato solo
agli studenti e ai sottoproletari.
L’«onda d’urto» khomeinista si
estende comunque ben al di là dell’Egitto. Nel 1982, gli integralisti siriani
provano a rovesciare il regime di Assad, il
nazionalista arabo amico di Mosca. La rivolta verrà repressa brutalmente. Nella
città di Hama sarà una carneficina.
In generale, nei primi anni Ottanta, gli integralisti
musulmani rimangono vittime della loro tragica ingenuità. Osserva Kepel: «I movimenti di ri-islamizzazione
dall’alto, che all’inizio degli anni Ottanta pensano di impadronirsi facilmente
del potere si rinchiudono in una logica golpista e molto minoritaria nel mondo sunnita mentre i loro compagni sciiti s’impossessavano del
potere» (dal »Corriere della Sera» del 15 marzo 1992).
La situazione sociale nei Paesi arabo-musulmani, in piena
esplosione demografica, rimane però incandescente e gli integralisti soffiano
sul fuoco. Scoppiano sommosse in tutto il Nordafrica:
«Queste sommosse - annota Bruno Etienne chiamate ”sommosse della fame” o
“del pane” sono scoppiate in situazioni identiche. Stessa causa: la Banca
mondiale esige che il paese indebitato metta ordine nelle sue finanze, il che
implica una riduzione delle sovvenzione di prodotti alimentari di prima
necessità; stesse tecniche di guerriglia urbana, stesse forme di saccheggio
(vengono presi di mira principalmente le Mercedes e
gli edifici moderni) e stesse spiegazioni fornite dai governi: la mano dello
straniero». Questa volta però c’è una novità: questa mano non è dell’Occidente,
«ma, a seconda dei casi, anche di Gheddafi o di Khomeini» («L’islamismo radicale», Rizzoli
1988).
In Algeria, gli integralisti islamici scelgono un’altra
strada: quella della penetrazione paziente e silenziosa nella società civile.
Le velleità golpiste. sono abbandonate: gli islamisti
radicali tentano di catturare il consenso dei più poveri attraverso iniziative,
per così dire, di volontariato sociale.
Gli islamisti algerini, rileva Kepel, «svilupparono un’importante rete nei quartieri
abbandonati, nelle bidonville, e vi crearono numerosi servizi sociali marcati
da una rigorosa obbedienza religiosa. In seguito a questa operazione si
costituì quella nebulosa che doveva diventare più tardi il Fronte di salvezza
islamico».
Questa operazione diede i suoi frutti alla fine del
decennio. Fu la «società civile che il Fis
capitalizzò al momento dei suoi successi alle elezioni municipali del giugno
1990 e al primo turno delle elezioni amministrative del 26 dicembre del 1991».
Ma anche qui la mancanza di un clero schierato con gli islamisti
risultò determinante. La reazione del potere politico fu decisa e il golpe
militate assestò un colpo mortale alle aspirazioni degli integralisti. Il
popolo algerino però non si ribellò. Nessun ulema lo
incitò alla rivolta. La reazione degli islamisti fu,
come è noto, feroce e, a tratti, terrificante, I «benefattori» degli anni
Ottanta si trasformarono, nel decennio successivo, in un vero incubo per il
loro popolo, abbandonandosi a una raccapricciante serie di stragi che fecero
inorridire l’opinione pubblica internazionale.
L’unico paese in cui gli islamisti
risultano vittoriosi è il Sudan, la terra del Mahdi,
che sconfisse gli inglesi del generale Gordon
suscitando un’enorme impressione mondiale alla fine dell’800. A Khartoum gli
integralisti riescono a conquistare il potere nel 1989 attraverso un golpe. Gli
uomini chiave del regime islamico sudanese sono Omar al Bashiir
il leader, e Hassan al Toùrabi,
l’ideologo. Il loro successo, spiega sempre Kepel, è
la conseguenza di un lungo lavoro di infiltrazione nell’apparato dello Stato,
dell’esercito e del sistema finanziario da parte dell’intellighenzia islamista, in connessione con una borghesia religiosa
emergente».
Quella di Khartoum è insomma una «rivoluzione dall’alto» e
assomiglia alla presa del potere in Palkistan del
generale Zia ul-Hac, un seguace dell’ideologo islamista Mawdudi che nel 1977
aveva destituito Ali Bhutto. Sia in Pakistan sia in
Sudan «una parte della gerarchia militare aveva adottato l’ideologia islamista e assicurato così la vittoria del movimento,
evitando però di far ricorso alla gioventù dei ceti urbani poveri, le cui
rivendicazioni sociali sono sempre foriere di rovesciamenti incontrollabili
dell’ordine costituito».
La strategia di Bashir e Tourabi è diversa da quella dei loro «confratelli» egiziani
e algerini, ma l’obiettivo è lo stesso: l’instaurazione della «legge islamica»
e la cancellazione violenta di ogni traccia di secolarizzazione nel Paese. La
«rieducazione» islamica è brutale. «La tortura delle persone interrogate e
condotte nelle ghost houses,
le case fantasma dei servizi di sicurezza, divenne una pratica corrente,
denunciata dalle organizzazioni internazionali, ma di cui Tourabi
doveva minimizzare la portata, attribuendola all’”estrema sensibilità dei
sudanesi”».
A subire le conseguenze della shari’a sono soprattutto i cristiani. Il Sudan è Paese multietnico e multiconfessionale: al Nord arabo-musulmano si contrappone
un Sud animista e cristiano. La politica di Bashir e Tourabi è l’esatto opposto dell’ecumenismo. In Sudan
vengono chiuse missioni, chiese, scuole cattoliche. I missionari cristiani
espulsi dal regime raccontano che i generali islamici distribuiscono gli aiuti
umanitari alle popolazioni più povere in base alla confessione religiosa: per
molti sudanesi, la conversione all’islam non è un bisogno religioso ma una
necessità alimentare. In nessun luogo, come nelle terre in cui impera la shari’a, il rispetto dei diritti umani è
diventato una barzelletta. Il bello (o il brutto) della faccenda e che gli islamisti, quando si trovano nelle conferenze
internazionali, si fanno paladini dei «popoli oppressi del Terzo Mondo» contro
il «nuovo colonialismo dell’Occidente». La tragicommedia di Durban di qualche
settimana fa è la rappresentazione più fedele di questa ipocrisia disastrogena.
E l’Occidente cosa fa, come reagisce all’onda montante e
impetuosa dell’ideologia islamista negli anni
Ottanta? Non reagisce affatto. Fa finta di nulla. Osserva con sufficienza,
arrampicato sulla vetta dei propri alti livelli di reddito, la bufera che si
sta abbattendo su una grande area, culturale prima che geografica, della Terra.
L’integralismo? Quando non produce episodi sanguinosi, rimane un fatto «folkloristico», un bizzarro prodotto storico che verrà
spazzato via, presto o tardi, dalla modernizzazione planetaria.
Non mancano certo studiosi (come i Kepel,
gli Etienne o i Bernard Lewis)
che lanciano l’allarme, che mettono in risalto l’estrema complessità del
problema. Ma, ancora negli anni Novanta, l’opinione pubblica occidentale
continua a non essere attrezzata per capire la «rinascita islamica». Il
cosmopolitismo e il globalismo non ammettono la
possibilità che i «grandi spazi» di civiltà obbediscano, ciascuno, a leggi
diverse, leggi che provengono dall’identità storica.
Tra le tante opinioni che rivelano l’impreparazione della
cultura occidentale, scelgo come emblema questa frase di Alberto Jacovello, tratta da un ingiallito ritaglio de «la
Repubblica» del febbraio 1992: «Nessuno ha mai spiegato che cosa abbiano in
comune il Pakistan e l’Algeria e dunque quale potrebbe essere, oltre alla
religione, il cemento reale che dovrebbe tenerli insieme». Già cos’hanno in
comune il Pakistan e l’Algeria? «Oltre alla religione» non molto, ma la
religione è già abbastanza.