Il Giornale, 21-12-2002

Le urla di silenzio da un gulag albanese

di Giovanni Orsina 

E’ lontana la Siberia di Shalamov e Solgenitsin. Sono lontanissime la Cina di Zhang Xianliang, autore di un terribile libro di memorie sui lager di Mao, Zuppa d’erba, e la Cambogia di Le urla del silenzio. E se in termini geografici è più prossima, cronologicamente rimane distante pure la Auschwitz di Primo Levi più di mezzo secolo ormai. Gli avvenimenti di cui parla Fatos Lubonja nel “Diario di un intellettuale in un gulag albanese”, invece, ci sono vicinissimi. Nello spazio, perché dall’Albania ci separano poche decine di chilometri di mare; e nel tempo, perché gli eventi narrati dal diario sono dell’anno 1990.

Questa prossimità basterebbe già di per sé a rendere interessante il Diario di Lubonja, pubblicato dall’editore Costantino Marco qualche anno fa e recentemente insignito del premio Moravia. Interessante perché consente di misurare fino in fondo quanto diversamente drammatiche siano statele vite Vissute sulle due sponde dell’Adriatico - e basti soltanto pensare a Sali Berisha simbolo della speranza di rinascita democratica in Albania, bersaglio d’una notissima trasmissione satirica in Italia. Il Diario, però, non si segnala soltanto perché denuncia dall’interno quello fra i regimi di socialismo reale ch’è stato più vicino a noi, ma anche perché trova consonanze forti con molte altre memorie sopravvissute all’universo concentrazionario comunista, e perché introduce allo stesso tempo spunti di riflessione originali e tutt’altro che banali.

La narrazione della brutalità e del settarismo caratteristici del regime di Enver Hoxha trova il suo culmine nella storia di Aqif, stritolato dal sistema perché aveva incontrato in sogno il console americano. Paralleli a quella narrazione scorrono però anche numerosi esempi della straordinaria capacità che il marxismo ha avuto di colmare le coscienze, capacità tanto forte e intensa che spesso nemmeno gli internati dei gulag hanno voluto rinunciare al loro ancoraggio ideologico.

Al di là di queste pagine, in virtù delle quali possiamo inserire il comunismo albanese al fianco dei tanti altri comunismi che hanno funestato la storia del ventesimo secolo, il Diario di Lubonja ha però una caratteristica peculiare: è stato scritto a ridosso della crisi del regime, e con la consapevolezza della sua imminenza. Il racconto della vita di un prigioniero politico e dei suoi compagni di sventura si trasforma così in un’acuta riflessione sul problema della moralità in un regime totalitario, e su come gli effetti e le memorie di questa moralità possano condizionare la transizione a un nuovo regime e l’edificazione di un sistema politico democratico.

Benché riconosca nella dittatura di Hoxha molti tratti del dispotismo orientale e sottolinei la natura tribale del suo potere, non per questo Lubonja assolve gli albanesi da ogni colpa. Al contrario, tiene conto delle tante adesioni più o meno entusiaste, dei molti compromessi, dei moltissimi esempi di omessa opposizione - a partire dal caso del maggiore e più noto dei poeti albanesi, Ismail Kadaré - per sottolineare fino a che punto il Paese sia stato corresponsabile con il regime.

La coscienza di quanto sia difficile districare l’Albania dal governo comunista non lo porta a sciogliere i delitti del tiranno, del suo clan e dei suo successori nel mare del «tutti colpevoli, nessun colpevole». Lo rende però avvertito di quanto sarà difficile chiudere i conti col passato nel momento in cui il Paese riuscirà a trasformare il suo ordinamento politico. Allora chi, come lui, CV ha avuto la vita distrutta dalla repressione avrà il diritto di chiedere che i suoi aguzzini siano puniti. Ma deve sapere che proprio quella sua richiesta rischierà di diventare un ostacolo insormontabile sulla via della riconciliazione nazionale, condizione prima e imprescindibile del definitivo affossamento del regime comunista.