Corriere della Sera,  23 -11-02

Chomsky: l’antenato che ci insegnò a parlare

di Massimo Piattelli Palmarini

Chiunque abbia un minimo di familiarità con le spiegazioni darwiniane delle origini evolutive di un carattere biologico può facilmente immaginare come si sia tentato di applicarle al caso del linguaggio. Parlare aiuta possentemente a comunicare, a raccontare ai figli le promesse e le minacce del mondo, a progettare insieme la caccia, a ricordarsi delle lezioni del passato. Ciò aumenta la probabilità di sopravvivere e di riprodursi. Quindi (tutto sta in questo innocente «quindi?>) la selezione naturale ha favorito lo sviluppo del linguaggio nella nostra specie. Infatti, siamo diventati miliardi e abbiamo occupato l’intero pianeta, mentre i nostri cugini scimmieschi sono sempre rimasti in pochi, intrappolati nelle savane e nelle foreste. Questa storia suona quanto mai plausibile e molti biologi, antropologi, linguisti e neuroscienziati si sono sforzati, nell’arco di oltre un secolo, fino ai giorni nostri, di riempirla di dettagli e di renderla rigorosamente scientifica, in articoli professionali, in austeri tomi e in saggi destinati al grande pubblico. L’articolo sull’evoluzione del linguaggio pubblicato ieri su Science dal massimo linguista vivente, Noam Chomsky, del Massachusetts Institute of Technology, insieme a un notissimo esperto di psicologia animale, Marc Hauser, di Harvard e da Tecumseh Fitch, pure di Harvard, esperto in ambedue questi campi, segna decisamente una svolta rispetto al passato. Infatti, la semplice storia riassunta sopra, in ultima analisi, faceva acqua da tutte le parti. Questo, Chomsky lo aveva segnalato più volte da almeno vent’anni a questa parte, inimicandosi non pochi evoluzionisti ortodossi. Troppe e troppo grosse erano, infatti, le falle in quella navicella ingenuamente darwiniana.

Il bisogno di comunicare non può avere veramente plasmato la nostra facoltà di parola. La seguente frase, del tutto sgrammaticata, riesce perfettamente a comunicare l’essenziale: «Gianni ieri incidente ferito guarigione ma prossima». Invece, la seguente, sintatticamente impeccabile, risulta a tutti ambigua: «Gianni vuole guarire, ma suo padre non vuole». Togliamo, per così dire, un pezzo di informazione e, stranamente, la frase non è più ambigua: «Gianni vuole guarire, ma suo padre no». Spesso, piccole e piccolissime differenze nella chimica del linguaggio creano notevoli differenze tra i «messaggi» corrispondenti, senza vie di mezzo. Pensiamo alla notevole differenza tra: «E una buona macchina, ma non si vede» e «È una buona macchina, ma non si vende». Nessuna frase è «intermedia» tra queste due. Per questo si dice che la sintassi è «discreta» o «digitale», non continua.

La spaccatura essenziale tra comunicazione e sintassi affiora in mille e mille esempi, in ogni lingua. Un fatto sintattico comune a tutte le lingue, per esempio, è che, se dico «Ogni uomo ama sua madre» dico una cosa gentile dell’universo maschile. Se invece dico «Sua madre ama ogni uomo» dico una cosa sconveniente di una singola donna. La conclusione è che avremmo benissimo potuto gettare la sintassi a mare, pur continuando a navigare, comunicando in modo abbastanza efficiente. La sintassi non è, quindi, stata plasmata dal bisogno di comunicare.

Inoltre, nessun primate oggi esistente è dotato dei rudimenti di una sintassi remotamente simile a quella dei linguaggi umani. Pur cognitivamente sofisticati, gli scimpanzé, dopo anni e anni di martellante addestramento quotidiano, arrivano a capire poche decine di parole gestuali, e a combinarle, al massimo, in mini-sequenze disordinate (devo qui insistere sul «dis-ordinate») di appena due o tre di esse. E mai si è dato che questi scimpanzé inventassero parole o frasi nuove, né che si servissero spontaneamente, tra di loro, entro il piccolo gruppo ammaestrato, di quei rudimenti tanto faticosamente imparati. Tra il più intelligente dei primati così ammaestrati e il più normale dei bimbi di appena tre anni c’è un baratro linguistico incolmabile, non una semplice differenza di quantità. L’accumulo darwiniano di piccoli incrementi non avrebbe potuto colmare questo baratro.

Capitalizzando su questi e molti altri dati, adesso, Hauser, Chomsky e Fitch, tracciano una distinzione tra una facoltà di linguaggio generica e una facoltà di linguaggio, invece, specifica. Quest’ultima è esclusivo appannaggio della nostra specie, presumibilmente evolutasi non a partire dai grugniti primordiali e dai gesti a piene braccia, bensì in modo esplosivo da remote fruste capacità di contare, di registrare inconsciamente delle regolarità statistiche, di calcolare mentalmente, sempre in modo inconscio, il miglior percorso per raccogliere cibo, ricordandosi come poi ritornare alla tana. Un bel giorno. molto tempo addietro, il cervello di un nostro antenato, di un mutante, ha probabilmente sviluppato un abaco mentale molto semplice, ma possente, capace di ri-calcolare più volte, combinandoli, i prodotti di calcoli mentali precedenti. Questo nuovo abaco cerebro-mentale, capace di fondere, un ciclo dopo l’altro, delle combinazioni mentali sempre più allargate, si è trovato naturalmente «calato» in un dialogo con dei sistemi (visivo, uditivo, concettuale e fonatorio) già molto sviluppati. Forse non troppo diversi, se presi separatamente, da quelli di uno scimpanzé. Le componenti della facoltà di linguaggio allargata c’erano probabilmente già tutte, ma separatamente, e presenti solo in nuce. Mancava solo questo abaco, questa capacità «ristretta» di abbinare in modo ottimale, discreto (nel senso visto sopra), e ricorsivo sequenze ordinate di suoni, o gesti, con sequenze di rappresentazioni mentali.

Come pazienti maestri d’ascia, i tre autori di questo denso articolo esplorano molti lavori scientifici in molte discipline, per incastellare questa diversa navicella evolutiva. Un acuto commentatore, lo psicolinguista Thomas G. Bever dell’Università dell’Arizona, un tempo allievo di Chomsky, sullo stesso numero di Science, la battezza spiritosamente (adatto il gioco di parole all’ italiano) «l’arca di Noà». In inglese, infatti, tra Noah e Noam c’è solo una di quelle ultra-minime differenze di suono che, però, forse, convertono i fiaschi evoluzionistici del passato in fischi interessanti per le ricerche future.