Il Domenicale 2-11-2002
Ma Stangerup rivendica la libertà di gridare la propria colpa e chiedere perdono.
Nessuno più ricorda lo scrittore danese Henrik Stangerup. La Garzantina letteraria, per esempio, non gli ha dedicato neppure un rigo. Più di lui contano gli alti grandi scrittori anti-utopisti, autori di romanzi di culto capaci di profetizzare coi decenni di anticipo gli incubi dell’uomo d oggi: il “grande fratello” orwelliano, “mondo nuovo” di Aldous Huxley. Eppure, Stangerup aveva capito quello che stava per accadere al suo mondo. Non solo quello scandinavo, di quel welfare all inclusive che ti segue dalla culla alla tomba ti accoglie e ti coccola e ti rende irresponsabile di tutto. Stangerup aveva visto delinearsi in modo sottile qualcosa di diverso: il crepetismo. Quel tarlo del senso comune che in Italia si incarna in un noto (e presenzialista) psichiatra, che psicologizza e sociologizza ogni delitto, specie i più efferati, in diretta tv, meglio se perpetrati da qualche adolescente massacratore di madri e compagne di classe. E a furia di psicologizzare e sociologizzare, non può far altro che rinchiudere l’uomo in quelle “supercarceri della statistica” di cui parlava Giovanni Testori. Eliminando alla radice il fondamento della civiltà occidentale: la colpa personale, e dunque la libertà di sbagliare in proprio.
Ne “L’uomo che voleva essere colpevole”, del1973 (trad. it., Iperborea, Milano 1990), lo scrittore danese racconta il suo tempo. E in fondo parla anche di noi, figli dell’Occidente un po’ mammone che ha bisogno dei guru televisivi per farsi consolare, per dimenticare (o far finta) che il male esiste, come ha gridato dopo l’omicidio di Desireè il laicissimo Giuliano Ferrara. Torben, il protagonista, è uno dei tanti poveri cristi di questa terra che d’un tratto, prendono atto della propria debolezza umana e saltano in aria. Uccide Edith, la cara moglie, donna ormai schiava dei riti e dei miti della società. La uccide e si arrende, attende il giudizio, la condanna, la galera. E invece, ecco il crepetismo ante litteram. Il girotondo di assistenti e psichiatri lo avvolge, spiegano che in fondo è stato solo un incidente, che il male è una malattia della mente più che dello spirito. Alla fine lo convincono: “Sembra che sua moglie sia semplicemente caduta in anticamera picchiando la testa...”. E lui non può far altro che gridare: “Sono un assassino! Giudicatemi! Perdonatemi! Perdonate il male che ho fatto, perdonate la mia libertà buttata via”.
Nessuno però lo giudicherà. Nessuno quindi lo potrà perdonare per quello che ha fatto. Non c’è più il male, nella Supercomunità che accoglie Torben e piano piano lo rassicura, inserendolo con gli altri “malati” nel grande progetto sperimentale: il Parco della Felicità in cui l’omicida troverà il definitivo oblio. Una cosa sola è Bene: la società, la grande madre premurosa in cui definitivamente è eliminato il concetto di colpa. Che non punisce e non perdona: semplicemente, rimuove. E l’uomo resta solo con la sua disperazione. In balia del crepetismo e dei suoi rassicuranti, deboli pensieri.