Il Foglio – 28-11-2002

Vent’anni per un aborto.

Ma può essere solo una questione di mesi?

di Luigi Amicone

Signor direttore - Vent’anni di galera sono troppi per una quantità imprecisata di aborti al settimo-ottavo mese? Non lo so. Pur tuttavia sono meno dei trenta richiesti dall’accusa. Però, al di là del fatto che rappresenta una violazione delle norme vigenti in Italia in materia di aborto e che dunque tale violazione abbia comportato una pena convenzionalmente stabilita in vent’anni, in che cosa consiste precisamente il “caso Villa Gina”? Per favore non titilliamo il lato emotivo della faccenda, le condizioni igieniche da mattatoio, i feti buttati nella spazzatura, un pugno di milioni a chilo di carne umana. Tutte cose spiacevolissime e negriere, si intende. Ma non è qui il problema. Un errore lo si capisce quando lo si urge fin nelle sue ultime conseguenze. In un certo senso, è l’operazione logica che hanno fatto Spallone&C. Che hanno fatto? Aborti al settimo-ottavo mese. Facciamo qualche passettino logico indietro: e che differenza c’è tra buttare un feto al settimo-ottavo mese o buttano al secondo-terzo?

Un momento prima di protestare, nessuno vuole mettere in discussione “il diritto all’aborto”. Non in questa sede, almeno. Stiamo solo osservando che la ragione, che è una e indivisibile (questa è laicità, se non siamo vagamente razzisti e lombrosiani, non che uno sia cattolico e l’altro framassone) si chiede: d’accordo, quelli han violato la legge 194. Ma, legibus solutus, chi lo decide qual è il discrimine tra essere e non essere? Da che minuto; ora, giorno, mese, scatterebbe la polizza Onu-Unicef di copertura e difesa del “diritto umano del nascituro”? E perché lo Stato o una pluralità di Stati dovrebbe avere il monopolio della ragione legittima per stabilire discrimini, temporalità e modalità assicurative dell’umana specie. Scusate, vogliamo solo gonfiarvi la faccia di domande.

C’è’ chi, libero dalle leggi del Principe, risponde sostanzialmente ai quesiti evocando un “diritto naturale” proprio e irriducibile della “persona umana”. E va bene. Però francamente ci pare che oggigiorno “diritto” e “natura” dicano poco assai. Men che meno quando, a fronte di quel che si vede in giro per il mondo, qualche filosofo o magistrato ci racconta di averli visti passeggiare insieme da qualche parte, nel chiostro dell’Università Cattolica di Milano o nel Palazzaccio Vecchio romano. Invece: si può non escludere a priori l’ipotesi fatta propria nel Parlamento italiano da un Papa - ipotesi il cui valore sta tutto nell’hic et nunc in cui viene brandita e investita dall’autorità, dal peso umano, dagli anni di una persona seria — che vi sia una “verità sull’uomo”? Che ha discrimini, tempi e diritti tutti suoi, originali, dunque “verità” superiore a morali, opinioni, costumi, consuetudini sociali e leggi di Stati presenti e futuri? Ma certo che si può, altrimenti come avrebbe potuto scrivere in incipit alla legge 194/78 il nostro legislatore - che Papa non era-: “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”?

Chiaramente il corno del problema sta nella parolina inizio. Quale? Su questo punto le scuole di pensiero si dividono. Vanno da quelle che per “inizio” intendono il nanosecondo dopo la fecondazione dell’ovulo, a quelle del last-minute del novanta-centoventesimo giorno. E quindi variano di legislazione in legislazione, tanto che per “inizio” si possono intendere tutte la gradazioni che vanno dall’irlandese antiabortista “fin dal primo concepimento”, al caso Cina che, chi se ne frega il mese e il giorno, l’importante, dice il Partito, è che non sia femmina, altrimenti la gentile domanda che ti fa lo Stato è: la strozzo io o procede lei?

Tutto questo solo per dire che l’uomo ragionevole può non escludere certe ipotesi (perfino papali). Può escluderle solo per il timore che prendendole in considerazione poi sarà chiamato a trarne le conseguenze, e magari dovrà rimettere in discussione alcune “conquiste civili” e una sua certa tranquillità di coscienza. Non si tratta di coerenza, questo è un altro affare, questo sì, e contrariamente a quello che credono gli sfessati — assolutamente disperato.

Ricapitolando. E mi rivolgo alle donne. E’ o non è l’aborto un fatto che ha attinenza con la questione della vostra emancipazione e con un certo movimento di liberazione femminile? Il caso Villa Gina se vogliamo parlare e ragionare seriamente; ci ripropone per vie infelici una questione di felicità: davvero l’interruzione volontaria della gravidanza — cioè la decisione di riportare al non essere quello che già è o per lo meno basterebbe che noi non interrompessimo perché sia (giratela come volete e mettete l’interruttore on-off là dove vi aggrada dire che c’è un “inizio”)— collabora all’emancipazione della donna e introduce nel mondo un certo quid di liberazione? No? La vostra risposta c’entra con l’ipotesi del Papa. Sì? E allora, perché non a otto mesi ma a tre sì? Lo dice la legge? Scontato. Lo hanno stabilito scienziati come la Montalcini? Ma allora dove finisce la liberazione dell’ ”utero è mio e me lo gestisco io”? E’ una convenzione? Un po’ poco come emancipazione. E’ un comodo borghese? Bè , possiamo capirvi. E’ un consiglio ginecologico? Vi capiamo. E’ una premura psicologica? Idem. A otto mesi? Che schifo! Ma non lo vedi ché è già”un bambino? Be’, questo ce lo aspettavamo da delle sentimentali come voi.