Secolo d’Italia mercoledì 28 novembre 2001

 Mario Chanes, trent’anni nelle carceri del dittatore comunista, denuncia un inferno che non più essere più ignorato

Vi racconto gli orrori di Castro

«I dissidenti vengono ancora oggi massacrati nell’indifferenza dei Paesi democratici»

 

 Quest’uomo ha passato trent’anni nelle carceri di Fidel Castro. Più di Nelson Mandela, più di qualunque aItro paladino della libertà. Quest’uomo si chiama Mario Chanes e oggi è un signore dai capelli bianchi e minuto, che vive in esilio negli Stati Uniti. E’ sopravvissuto all’inferno, e ora racconta. Ma Chanes in queste ore è in Europa anche per richiamare l’attenzione dei governi e dei parlamentari sui detenuti politici a Cuba. Quella che segue è una testimonianza a futura memoria, se la memoria, come si chiedeva Sciascia, ha un futuro. Chanes ha settantacinque anni portati con amara dignità.

 

Si ricorda quando incontrò Fidel Castro per la prima volta?

Mi ricordo dove, nella sede del Partito Ortodosso di cui lui era rappresentante, al Pradò, Avana, numero civico 109. Mi ricordo perché lo incontrai. Fulgencio Batista aveva da poco promosso il suo colpo di Stato, nel marzo del ‘52, e noi giovani — io e Fidel avevamo entrambi ventisei anni — pretendevamo il rispetto della Costituzione appena violata. Dovevamo organizzare delle cellule clandestine. E Fernando Chenard Piña, il mio capo sindacale, mi disse: «Voglio che tu conosca un avversario della dittatura».

 

Ma lei che cosa faceva a Cuba?

Lavoravo nel commercio e mi occupavo di problemi sindacali. Avevo frequentato non oltre il sesto anno della scuola pubblica e poi subito la necessità di guadagnare da vivere. Questo facevo, finchè Batista cancellò la libertà e i comunisti presero le redini del sindacato nel mio settore. Ne fondai, così, un altro assieme a un gruppo di amici. E mi presentarono Fidel. lo leader operaio. lui leader studentesco.

 

Che impressione le fece?

Magnifica. Sembrava mosso da grandi ideali ed aveva un parlare convincente. Criticava ogni forma di oppressione. Criticava la Russia, che s’era fagocitata una parte d’Europa. Era uno pragmatico, preparato, spiritoso. Non un mungitore di vacche. Ci riunivamo ogni settimana e un precisa giorno della settimana, non ricordo più se il giovedì o il venerdì. Giravamo molto per i quartieri per fomentare la rivolta.

 

Rivolta con le armi?

Con le armi, certo.

 

E poi?

Ben presto Fidel tradirà ogni principio. Diceva che la rivoluzione sarebbe stata verde come le palme. Annunciava che nel giro d’un paio d’anni sarebbero finalmente arrivato libere elezioni. Ma alla vigilia dell’attacco della Baia dei Porci, dichiarerà al mondò il suo marxismo-leninismo. Quarant’anni di regime, da allora.

 

Prima ci fu anche il fallito e sanguinoso assalto alla Moncada, nel ‘53, e lei ne prese parte. Che cosa ricorda?

La Moncada non era una caserma qualsiasi, ma il secondo «accampamento» militare dell’isola, a oriente. Dovevamo impossessarcene per indurre la popolazione a ribellarsi, lo ero sulla terza macchina di una specie di corteo che complessivamente comprendeva un centinaio di persone. Fidel stava davanti a noi. A guidare la carovana era Pedro Marrero, valorosissimo. Eravamo tutti travestiti da soldati. Ma i soldati veri non abboccarono. E quando arrivammo all’alba, chiedendo d’alzare la sbarra di ferro all’ingresso per consentire al (finto) nostro generale di entrare, suonò l’allarme e cominciarono a sparare. Fummo scoperti da chi stava facendo il giro di guardia. Anche perché indossavamo scarpe colorate e assai poco marziali, le uniche che avevamo trovato per l’impresa...

Nel massacro. Fidel ordinò la ritirata e in diciannove, appena, riuscimmo a scappare alla rinfusa. Pochi giorni dopo, tolti i feriti, restammo in otto a vagare per la montuosa «Gran Piedra». Castro voleva che ci consegnassimo e temeva per la vita del fratello Raùl, catturato nell’ambito della fallita operazione. In qualche modo lui, Fidel, desiderava mettersi in salvo, magari in cambio di una nostra consegna. Alla fine, come si sa, fummo arrestati, processati, condannati e dopo meno di due anni amnistiati. Osservo che in quarantadue anni Castro non ha mai, al contrario, amnistiato nessuno.

 

In carcere sotto Batista, in carcere sotto Fidel: come spiega la sua odissea?

Ho sacrificato la mia vita perché incastrata da una falsa accusa di cospirazione contro Castro, costruita a tavolino per togliermi di mezzo. Ho passato trent’anni in galera, perché pubblicamente denunciavo il tradimento di Fidel. Ad altri, a migliaia di altri cubani, è andata peggio: sono finiti al «paredòn», al muro, per difendere la libertà. Non vivo di rancori e spero solo che un giorno s’intenterà un processo a Castro. Non è possibile che l’Europa chiuda gli occhi di fronte ai crimini compiuti e talvolta perfino rivendicati dal suo regime. Mi chiedo perché nessuno intervenga per la perdurante violazione dei diritti dell’uomo, per le carceri ancora oggi — 27 novembre del 2001 — piene di detenuti che vengono picchiati e torturati a causa semplicemente delle loro idee. Almeno ottocento dissidenti, secondo i nostri calcoli, purtroppo difficili dato il clima di repressione a Cuba, languano in prigione.

 

Può fare qualche nome?

Dovrei farne ottocento. Ma ricordo Oscar Elìas Biscet Gonzàlez, un medico promotore della lotta non violenta, che paga anche per le sue idee cattoliche. Dov’è la Chiesa di Roma? Ricordo Vladimiro Roca Antunez, proprio il figlio di Blàs Roca Calderìo, ideologo del Partito comunista e redattore della Costituzione del ‘76. Dov’è la sinistra italiana? Ricordo la morte di detenuti politici come Marcelo Diosdado Amelo Rodrìguez, Dàmaso Aquino del Pino e Rolando Millares Martìnez. Dov’è Amnesty lnternational?

 

Che cosa può fare, oggi, il governo italiano?

Intervenire per sollecitare Fidel Castro alla liberazione di tutti i prigionieri politici senza che essi vengano esiliati. Perché è questo l’ultimo e nuovo ricatto castrista:ti metto fuori, se te ne vai dall’isola. E per sempre. Non dovete dimenticare mai che nel mio Paese è più libero un turista italiano di un cittadino cubano, il quale deve chiedere permesso non soltanto per lasciare l’isola, ma pure per rientrarvi.

 

Trent’anni di carcere: qual è la prima cosa che le viene In mente, quando ci ripensa?

Mio figlio. sì chiamava Mario come me ed è morto per un’operazione di adenoide a ventidue anni. Quando è nato ero in prigione, quando è morto ero ancora in prigione. Non mi lasciarono andare neppure al suo funerale. Condizionavano il permesso all’obbligo di indossare la divisa blu, che era quella dei detenuti comuni. Ma io non avevo rubato neanche una gallina. Ero lì per amore di libertà, perché dicevo pubblicamente che Fidel. cioè l’uomo assieme al quale avevo più volte rischiato la vita per liberare Cuba da Batista, aveva tradito vergagnosamente la causa comune. Mario, il mio povero Mario, non avrebbe mai accettato di vedere suo padre con la divisa azzurra. Andai sulla sua tomba la notte fra il 16 e 17 luglio del 1991, la prima notte di libertà «per estinzione della pena». Ma mi consenta di non raccontare che cosa provai...

 

Quando l’aveva visto, suo figlio, l’ultima volta?

Lui è scomparso il 31 ottobre dell’84. L’avevo incontrato il 9 marzo dell’81 per l’ultima volta. Da allora e per sette, lunghissimi anni abolirono visite e corrispondenza, assistenza medica e ogni genere di contatto con l’esterno. Noi detenuti politici rifiutavamo il compromesso avvelenato che ci offrivano: rinunciare alle nostre battaglie ideali, magari scrivendolo a Fidel, in cambio di un trattamento più umano. E così siamo stati puniti fin negli affetti più cari.

 

Quant’era duro il regime carcerario?

Quant’e duro il regime carcerario: non stiamo parlando del passato solamente. Ho visto morire decine di detenuti «baionettati» dalle guardie. Quel che abbiamo passaio a lsla de Pinos, dove in precedenza eravamo stati rinchiusi pure da Batista, solo Dio lo sa. lo sono vivo. E ho il dovere di raccontare.

 

Quali riflessi può avere su Cuba la caccia americana a Bin Laden?

Non sono un «politico», sono solo un testimone dell’orrore castrista che cerca di smuovere l’indifferenza dei Paesi democratici nei riguardi della dittatura nella mia Patria. Osservo, però, con piacere che Putin ha abbandonato l’ultima base di spionaggio nell’isola, la base di Lourdes. Fidel l’ha presa malissimo. E poi nonostante l’abilità con cui Castro s’è mosso sulla vicenda di Bin Laden, gli americani sanno quanto egli abbia fatto per diffondere il terrorismo non solo in America Latina. La mia Cuba fa purtroppo parte della cosiddetta «lista nera» di nove Paesi. Le tragiche circostanze internazionali che stiamo vivendo finiranno per isolare sempre più il regime.

 

È una notizia o una speranza?

Malgrado la repressione, abbiamo notizie che chi dissente ha sempre meno paura dentro l’isola. Magari sono fenomeni spontanei o ingenui — come quelli, tanti, che si trovano a pregare o ad accendere una candela in casa di un amico— ma i cubani non potranno essere oppressi per sempre. Se l’Europa, se l’Italia non gireranno la faccia dall’altra parte.