Corriere della Sera
7 dicembre 2001
Islam e
terrorismo. L’intervista
Il premio Nobel per la letteratura Naipaul: «Il fanatismo non deve essere compreso, ma punito»
Vidiadhar Surajprasad Naipaul, lo scrittore anglo-indiano consacrato dal Nobel 2001 per la letteratura, non teme la polemica. Molte organizzazioni islamiche gli hanno rimproverato l’ostilità nei confronti dell’Islam e hanno visto nella scelta di Stoccolma una connotazione politica.
Che cosa le dà questo premio?
«E’ soprattutto
una sferzata al mio lavoro e una seconda chance ai miei libri. Ma non scriverò sicuramente più molto. Ho
69 anni, ho firmato un contratto per due nuovi volumi. Scriverò il primo, poi si vedrà. Sono stanco».
Le sue distinzioni hanno suscitato reazioni ostili in certi ambienti islamici. Cosa ne pensa?
«Questo nasce
soprattutto dal modo in cui la stampa ha riferito l’avvenimento. Altrimenti la
cosa non avrebbe affatto provocato reazioni. Non dobbiamo concedere troppa
attenzione a queste imbecillità, oppure parlare francamente. Quella è gente che
non legge molto, è contro la civiltà. Vogliono portare ovunque il silenzio del
deserto. In Afghanistan hanno distrutto i vecchi monumenti,
hanno fatto tabula rasa della loro storia. Nei Paesi dove fanno regnare
la loro fede sono riusciti a far regnare quel silenzio».
Ritiene che siamo a
uno “scontro di civiltà”, per citare Samuel Huntington?
«Non
ho letto Huntington, a parte qualche stralcio. Quello
che si può dire è che il concetto di guerra religiosa è fondamentale nella
religione musulmana. Finché si è deboli,
evidentemente, non ci si può battere, se non vi fondo a se stessi. Ma appena si
crede di essere forti, politicamente, militarmente,
allora si può condurre una vera e propria guerra. Quando si funziona in questo
modo, non si deve mai dimenticare di avere un nemico, bisogna sempre essere
pieni di odio, si deve pensare che non esiste
coesistenza possibile, a meno di esservi costretti. Non so come si sviluppi il
pensiero di Huntington, ma non ho mai sentito parlare
di conflitto di civiltà fra gli indiani e l’Occidente né fra il Giappone e
l’Occidente. So che la sinistra ha una serie di spiegazioni per
il fatto che una ventina di individui abbia scelto di immolarsi per
guadagnare il paradiso: la crisi israelo-palestinese,
l’imperialismo americano. Per me gli avvenimenti dell’il
settembre sono atti di puro odio religioso».
Anche quello di Bush è un conflitto
religioso?
«No,
lui vuole vendicarsi. E punire il fanatismo, che non si deve
cercare di capire, al quale non ci si deve adattare. Non ci sono negoziati
possibili con il fanatismo. Bisognerebbe far pagare per tutti i danni provocati
Bisognerebbe esigere dei risarcimenti dall’Arabia Saudita, che è alla testa del
mondo islamico. Bisognerebbe far pagare tutti i Paesi che sostentano il
terrorismo o dicono che attaccare l’Afghanistan è come attaccare tutti i Paesi
musulmani. Bisognerebbe rigirargli l’argomentazione: se c’è un Paese attaccato
da terroristi islamici, tutti i Paesi islamici sono responsabili e devono
pagare. L’Arabia Saudita, ma anche l’Egitto o l’Algeria, che hanno
alimentato il terrorismo. Devono pagare per tutti questi morti, per tutte queste
vite spezzate, per tutti questi impieghi perduti, per tutti questi edifici distrutti.
Non tocca alle vittime pagare: tocca agli aggressori.
Purtroppo succede il contrario. Li si ricompensa. Il
Pakistan viene ricompensato. E
un’assurdità. Il Pakistan non ha alcun programma economico, ne
sociale o educativo, l’idea di jihad là è molto diffusa. L’unica cosa che
funziona in un Paese del genere è il manganello».
Lei è un uomo in collera.
«Non sono un uomo in collera. Chi lo dice non ha letto i miei libri. Non
sono un polemista. Detto ciò, nessuno scrittore dovrebbe essere uno scrittore
del consenso. Ogni scrittore guarda il mondo e lo racconta. Quello che cerco è
semplicemente di dire ciò che mi sembra evidente. Ripetere quello che tutti
credono di sapere non ha alcun interesse. Bisogna veramente guardare, cercare,
e poi ritrascrivere. Nei miei libri non voglio provocare
nessuno. Ascolto delle persone, presto molta attenzione a ciò che dicono, cerco di rendere conto della loro visione del mondo, della
loro forma mentis. Ho
scritto dei libri, uno dopo l’altro, ho cercato di vivere di questo. È stato
un percorso lungo e difficile. Chi mi attacca in realtà ha delle sue idee, in
particolare delle intenzioni politiche. La vita degli scrittori è circondata di
falsificazioni, di errori, diffusi soprattutto da chi
non il legge. Un libro richiede uno sforzo, è più facile leggere qualche
insulsaggine su Internet, se ne trovano molte. Se i miei libri non fossero
seri, interessanti o originali, nessuno più ne
parlerebbe. Invece sono sempre vivi. Ci sarà pure una
ragione».
Lo scrittore è condannato alla polemica?
«Non mi sento ne eroico ne coraggioso. Cerco soltanto di descrivere la
realtà nel modo più esatto possibile. All’inizio può crearsi dell’incomprensione,
che però con il tempo si deve chiarire. Per mia sfortuna, quando ho esordito
quasi nessuno si interessava ai miei libri. Poi il
mondo è cambiato, politicamente. Perché bisognerebbe
dire sempre bene del mondo in cui si vive, soprattutto se si tratta del Terzo
Mondo? Si chiederebbe mai a uno scrittore americano di
dire sempre bene dell’America o a uno tedesco di elogiare sempre la Germania?
Sarebbe stupido. Perché mai sarebbe necessario uno
spartiacque del genere in letteratura e che oltre quel confine non si dica che
bene del mondo da cui si proviene? E condiscendenza, è
disprezzo. La gente è piena di pregiudizi, non vuole vedere quello che succede,
un buon scrittore deve sempre disturbare».
Antoine De Gaudemar
Traduzione di Monica Levy © Libération