Avvenire 14 novembre 2001
di Bernardo Cervellera
L’Italia,
e l’Italia cattolica, forse non era preparata a incontrare o a scontrarsi — con
l’islam «guerriero» di questi mesi. Ma i missionari? Quelli che da
anni vivono in ambiente musulmano? Possibile che non ci abbiano mai avvertiti
del pericolo?
Forse
c’è stato davvero uno scollamento, mia mancanza di comunicazione fra esperienze
in missione e vita in Italia. Come mai? Anzitutto per un motivo di cautela.
Preti che lavorano in Africa del Nord e in Paesi asiatici-musulmani, dove i
cristiani sono minoranza, non possono sbandierare ai quattro venti le violenze
che i cristiani (e i musulmani) subiscono dal potere politico o dai gruppi fondamentalisti.
In più, siccome il cristianesimo è visto come una religione straniera, le notizie
date ad occidentali sono lette come una nuova forma di colonialismo culturale.
Con tutto questo non si può dire che i missionari non abbiano dato «da pensare»
all’Occidente. Per esempio, sono stati proprio loro ad avvertire che prestare
chiese agli immigrati per la preghiera islamica significava perderle per
sempre, perché esse divenivano di fatto «terra dell’islam».
Quando
ero corrispondente in Libano, si faceva fatica a convincere l’Occidente che i
cristiani libanesi volevano convivere coi musulmani e che rischiavano di essere
buttati fuori dal loro Paese. Tutti parteggiavano per i profughi palestinesi e,
in ogni caso, pensavano che i cristiani fossero dei persecutori che volevano
far fuori i «poveri musulmani». Al tempo dell’Iran di Khomeini, vi è stato un
periodo in culla stampa italiana, anche cattolica, osannava la liberazione dell’ayatollah
contro i soprusi di Reza Pahlevi.
Un
atteggiamento a priori così ”filo-islamico” penso abbia due cause. Anzitutto
negli anni del post-Concilio si è sottolineato così tanto il dialogo con le
religioni da ritenere gli atteggiamenti missionario critici verso l’islam (o
alcuni elementi dell’islam) una specie di frutto retrogrado di mentalità
conquistatrice. Il punto è che il dialogo, anche quello religioso, non si può
fare solo sulle cose spirituali: c’è bisogno del corpo, della cultura, del
confronto con gli stili di vita In Occidente, invece, mentre si cercava di eliminare
il «corpo» greco-giudeo-cristiano della propria cultura, si sospirava un
incontro etereo (e forse inesistente) sui «valori spirituali».
Inoltre,
sulla questione della missione e dell’immigrazione musulmana non si è tenuto
conto dell’elemento culturale, dando invece tanta enfasi alla giustizia, alla
carità, alla generosità Per anni - e questa è forse una colpa di diversi missionari
- parlando dei popoli del Terzo Mondo, si è sottolineata la povertà e la
dimensione economica, senza mai domandarsi troppo sulla loro cultura e religione.
Quando poi centinaia di migliaia di immigrati sono approdati alle sponde
italiane, nessuno ha messo in luce la questione dell’integrazione culturale.
preferendo solo spalancare il cuore alla generosità senza intelligenza. Chi ha
osato levare la voce sui problemi che nascono nell’incontro fra due culture e
religioni è stato bollato come razzista. Non considerando la cultura e lo spinto
di questi immigrati, si è preferito ridurli a quantità di forza lavoro o ami
numero per le nostre azioni meritorie. Si è persa l’occasione di considerarli
individui (e non gruppo o umma, comunità)
e chi presentare un altro stile di rapporto con la fede, che esalta la libertà
di coscienza e di adesione personale.
Quanto
detto finora non è per chiudere le frontiere e lanciare crociate contro
l’islam. Voglio solo dire che la presenza di musulmani in Italia è una
questione di dialogo fra culture e religioni. Esso va quindi preparato e
chiarito all’estero e in patria perché l’ospitalità di un’altra cultura e
religione non soffochi la cultura ospitante. Occorre quindi che i governi
creino strutture per l’integrazione culturale, ma occorre pure che gli
occidentali e i cristiani non dimentichino di testimoniare la loro fede nella
cultura, nel loro impegno e lavoro, anche quello a favore dei musulmani