Il Secolo d’Italia
22 novembre 2001
di Alessandro Massobrio
«Ho deciso di fare Io scrittore a dodici anni, quando ho incontrato Omero. Mi ero accorto di un fatto importante: tutte le cose di cui Omero parla diventano belle. Anche i morti in battaglia sono belli, perché Omero parla dei loro begli schinieri. Anche il pane, anche le onde del mare. Così ho deciso di scrivere, che in fondo è un po’ combattere, per la verità e per la bellezza. E quanto fossero importanti l’una e l’altra l’ho capito durante la ritirata dal fronte russo, dove avevo chiesto di andare per comprendere a fondo che cosa poteva essere un universo senza Dio. Un universo in cui programmaticamente si coltiva l’uomo nuovo, l’uomo ideologico del ventesimo secolo. Ecco, al termine di quella ritirata, ho distrutto i diari su cui, giorno per giorno, avevo annotato le vicende di guerra. In quelle pagine avevo narrato le cose esecrabili compiute dai nazisti, ma non volevo che cadessero nelle mani dei comunisti, che di cose ancora più esecrabili si erano macchiati. E questo perché mi ero reso conto che noi italiani, in fondo, in mezzo a quell’odio barbarico, che contrapponeva russi a tedeschi, eravamo gente civile. Gente che sa che cosa siano pietà ed umanità. Poi... poi... è successa un’altra cosa. Nello stesso luogo in cui avevo distrutto i miei diari, in mezzo alla neve che avevo smosso per ricoprirli, ho fatto un voto alla Madonna. Le ho promesso, cioè, che se mi avesse fatto uscire vivo da quell’inferno, avrei consacrato la mia vita alla diffusione e al compimento delle parole del Padre nostro, “venga il tuo regno”. E così ho fatto sino ad ora».
Eugenio Corti non sembra stanco di
parlare, nonostante l’ora sia avanzata, quasi l’una, un impegno importante lo
attenda — la visita ad una suora genovese, che tanto ha pregato per lui e il
suo lavoro — e gli ottant’anni ormai siano stati doppiati. Eugenio Corti ha
nello sguardo il meraviglioso stupore di quegli antichi bambini, i bambini di
una volta, che conoscono il mondo leggendo Omero e del mondo apprendono così
solo e soltanto le bellezze. Dimenticando le brutture, che pure sono tante e
spesso tanto atroci da far dimenticare agli uomini che Dio è amore.
Ma l’autore de Il cavallo rosso non se
ne dimentica. Sotto quegli occhi da bambino, si disegna infatti un volto
modellato dalle mani del tempo, ma dalle mani del tempo non intaccato ed una
barba bianca, che sembrerebbe appartenere ad una di quelle statuine che il
Maragliano preparava per i presepi della Genova del Seicento. Un pastore di
Bethlehem, ad esempio, che scorge nel cielo notturno stagliarsi la stella cometa.
E dietro a quella stella cammina e cammina, sinché, nella grotta gli si rivela
il Bambino e bellezza e verità gli riempiono il cuore.
«Ecco,
bellezza e verità. Per me l’arte deve mirare soltanto a questo. Me l’ha
insegnato Omero e poi Tolstoi, che di Omero mi sembra il discepolo migliore.
Anche perché ha capito che i poemi non si scrivono ormai più, ma, al posto dei
poemi si possono scrivere i romanzi. E i romanzi, vede, sono come dei poemi in
prosa, dei canti che sanno incantare. Che raccontano dell’uomo, dei suoi
segreti più profondi, dei grandi perché, che da sempre lo hanno tenuto sospeso
tra tempo ed eternità. Per cui la definizione che Sartre dava dello scrittore,
quella cioè di coscienza critica dell’ambiente sociale cui appartiene, mi
sembra inadeguata, meschina di fronte ai misteri che ci circondano. Quello
della vita, della morte, della storia e, soprattutto, della sofferenza degli
innocenti».
La
sofferenza degli innocenti è, per così dire, il leit motiv dell’intero
Novecento, questo secolo breve che la disumanità delle ideologie ha
trasformato, per molti, In lunghissimo.
Quando
parla di disumanità delle ideologie, lei deve riferirsi soprattutto al
comunismo e, all’interno del comunismo, allo stalinismo. Una tirannide
caratterizzata da un accanimento, una ferocia, una sospettosità sconosciuti a
memoria d’uomo. Una tirannide, come ho scritto nella mia tragedia «Processo e
morte di Stalin», capace di creare degli oppositori fittizi apposta per
schiacciarli. Il fenomeno-comunismo, ad ogni modo. non è stato stimato con
precisione in Occidente. Si parla di cento milioni di morti, ma in realtà
l’utopia marxista ha mietuto, in tutto il mondo, per lo meno 220 milioni di
vittime. Per questo, come le dicevo prima,
l’essenziale
diventa la verità, la trasmissione della verità e dunque la corretta memoria
storica. Chi verrà dopo di noi deve sapere, per potersi difendere. Da quando
sono rientrato in Italia, a guerra finita, il mio pensiero principale, una
sorta di idea fissa, è stata quella di raccontare. Raccontare e diffondere
quello che avevo raccontato per evitare che un’eventuale presa del potere da
parte delle forze marxiste — cosa non del tutto improbabile al tempo dell’egemonia
sovietica — potesse nientificare la mia fatica, distruggendo i miei libri.
Pensi che, negli anni Settanta, subito dopo l’uscita de «Il cavallo rosso», ogni
volta che mi recavo in Svizzera per una conferenza, non dimenticavo mai di
portare con me qualche copia del libro, che regalavo a chiunque. Purché la
conservasse oltreconfine, al sicuro da quella possibile pulizia ideologica che
avrebbe potuto scatenarsi da un momento all’altro in Italia.
Oggi, però, Io scenario è cambiato.
Oggi è di scena l’Islam.
L’lslam ha tentato due volte
di soverchiare l’Occidente. La prima subito dopo l’egira, quando Carlo
Martello, a Poitiers, respinse la cavalleria araba, che stava per dilagare nel
cuore della Francia. La seconda, circa un millennio dopo, quando i turchi
alzarono le loro tende sotto le mura di Vienna. Due fallimenti, che oggi i terroristi
islamici pretenderebbero di trasformare in altrettante rivincite sulla
cristianità. Tenga presente, oltretutto, che oggi i cosiddetti kamikaze hanno fatto
tesoro della dottrina rivoluzionaria di matrice marxista. Per cui qualsiasi
delitto, anche il più efferato, compiuto allo scopo di far trionfare la causa,
diventa opera meritoria che schiude la via del paradiso.
È giusto che il mondo cristiano
risponda a questa aggressione con la forza?
Non
soltanto è giusto, ma doveroso. Abele non deve perire sotto le mani di Caino.
Qualsiasi mezzo, anche la guerra è lecita, se mira a questo scopo.
La guerra, ecco un argomento
ricorrente nelIe sue opere. E non soltanto la guerra combattuta con armi
materiali, ma anche quella assai più insidiosa, che vede una concezione del
mondo contrapporsi ad un’altra.
Un
tipo di guerra, questa, che ciclicamente si ripropone nel corso della storia.
L’ultima opera a cui sto lavorando e che si intitolerà «Storia di Catone il
maggiore», affronta proprio questo argomento. E cioè il momento culminante
della romanità, quando nella solida struttura dello stato latino comincia ad
infiltrarsi il virus dell’ellenismo. Mi capisca bene, perché non vorrei essere
frainteso. Non mi riferisco alla cultura ellenica, quella che aveva prodotto
Platone, Aristotele, Sofocle, ma al pensiero relativistico, che si era
sviluppato dopo il tramonto dell’astro di Alessandro. Contro questa minaccia si
levò allora il grande, anche se inascoltato, insegnamento di Marco Porcio
Catone. L’uomo della tradizione, che da una parte metteva in guardia i romani
dall’edonismo ellenistico e dall’altra puntava il dito contro il pericolo
cartaginese. Un pericolo costituito dal modello latifondistico, su cui si
basava l’economia punica, e sulla mercificazione del lavoro servile. Perché a
Cartagine, a differenza di Roma, lo schiavo era soltanto uno strumento di
produzione e non un essere umano, come ancora era considerato dai latini ai tempi
di Catone.
Insomma, la storia si ripete?
Non
sempre e non da per tutto. Perché spesso Dio si compiace, con grande stupore
degli uomini, di trarre il bene dal male.