Qui Touring, novembre 2001
Libri DA NON PERDERE
di
Bruno Arpaia
Cambogia: i templi di Angkor. la millenaria storia del popolo khmer. le foreste dove “il lamento estenuante dei gibboni s’infiltrava ogni mattina dentro il brusio sommesso dei villaggi”. la terra “ricca, bella, costellata di risaie”, le campagne dove “risuonava la vibrazione dei gong”. Ma tutto questo era prima, prima di quel 17 aprile del 1975 in cui i khmer rossi di Poi Pot con quistarono Phnom Penh. Dopo. la Cambogia è stata solo un immenso carnaio, una distesa di milioni di “cadaveri dagli occhi spalancati ammassati nelle risaie sabbiose”, uno sconfinato campo di concentramento dominato dall’Angkar, I ‘Organizzazione, dal “Fratello numero Uno”, PoI Pot. e dal suo “culto dell’impersonalità”, dal tragico sogno di una purezza rivoluzionaria comunista e razziale. da una pulizia etnica su scala mai sperimentata. da una rivoluzione che divorò perfino se stessa.
L’orrore, l’orrore puro di quegli eventi continua a seguire
come un fantasma chi oggi si avventura per quelle contrade. Un orrore da
ricordare, sempre. Soprattutto se a raccontarlo non è un semplice testimone. ma
un protagonista, come François Bizot. Uno
che, a detta di John Le Carré. Autore della prefazione, “è come se avesse una
seconda anima e quest’anima fosse khmer. Giovane etnologo arrivato in Cambogia
nei 1965, Bizot fu arrestato senza motivo dagli khmer rossi nel 1971. mentre la
guerra civile cominciava a divampare nel Paese. Per tre mesi Bizot restò
prigioniero di Ta Duch, un aguzzino responsabile della morte di decine di
migliaia di persone. Bizot racconta la sua prigionia, ma sa andare oltre
l’orrore: per nulla manicheo. penetra nell’anima di Ta Duch e nello spirito khmer
come nessuno è mai riuscito a fare, contribuendo a far capire le radici profonde
di quella tragedia. E fu proprio grazie al rapporto che seppe instaurare con il
suo boia che il giovane francese riuscì a sopravvivere a quel campo. Quattro
anni dopo, alla caduta di Phnom Penh, gli toccò vivere un altra prigionia:
stavolta nell’ambasciata francese circondata dai soldati bambini di Pol Pot,
svolgendo le funzioni di interprete in un’intensa attività di mediazione per
salvare quante più vite possibili.
Quello di Bizot è un racconto secco, anche se spesso pieno
di toni lirici, dall’enorme impatto emozionale. Sono meravigliose le
descrizioni delle truppe khmer rosse arrivate a Phnom Penh, stupefatte di non
incontrare resistenza, affamate e sfinite, o le spietate trascrizioni delle
lunghe conversazioni con Duch, o il drammatico racconto dei giorni all’ambasciata.
Tragedie rafforzate, per Bizot, dal fatto che il mondo intero sembrava non
voler capire quanto stava accadendo: “Mi opprime il pensiero del plauso con cui
l’Occidente salutò la vittoria dei khmer rossi, tanto chiassoso e frenetico da
coprire l’urlo lacerante del massacro di milioni di persone”. Un’accusa
bruciante, perché viene da chi già allora testimoniò, inascoltato.
quell’orrore, da un uomo che aveva già sofferto su di sé le conseguenze del
delirio di PoI Pot e non riusciva a darsi ragione di essere sopravvissuto.