del card. Camillo Ruini
Avvenire 18-04-02
Uno degli interpreti
più qualificati dell’identità culturale europea, Johan Huizinga, ha scritto che
la centralità etica della persona umana è il referente primario e il principio
d’individuazione di questa identità.
Mi sembra tuttavia
intellettualmente onesto riconoscere che un riferimento e fondamento di questo
genere viene oggi, di fatto e al di là delle intenzioni, rimesso radicalmente
in discussione. Sta imponendosi, infatti, ed appare destinata ad accompagnarci
e a divenire sempre più pervasiva, nel secolo che è appena iniziato, la
cosiddetta “questione antropologica”: L’uomo stesso, nella propria consistenza
biologica come nella coscienza di sé, risulta cioè messo sempre più
profondamente in questione. Se negli ultimi due o tre secoli la vicenda storica
dell’Europa e dell’Occidente è ruotata intorno alle grandi questioni
politico-istituzionali e sociali, già ora e vieppiù nel futuro una ancora più penetrante
questione antropologica appare destinata ad accompagnarle e a condizionarle.
Non c’è bisogno di
molte parole per richiamare i fatti e le dimensioni di questa sfida. E’ in
corso un processo grande e multiforme che tende non solo a interpretare l’uomo,
ma soprattutto a trasformarlo: è un processo che si sviluppa con una
progressione molto rapida, attraverso l’applicazione al soggetto umano degli
sviluppi delle scienze e delle tecnologie. Esso finisce così per apparire quasi
indipendente dalla nostra volontà.
In concreto, le
tecnologie stanno appropriandosi dell’insieme del nostro corpo, compreso il
cervello, e della genesi del nostro essere, ossia della generazione umana. Le
modifiche dei nostri stati mentali indotte per via farmacologica e le straordinarie
prestazioni delle cosiddette “intelligenze artificiali” sembrano fornire il più
efficace supporto e quasi una definitiva conferma a “filosofie della mente” che
ritengono di poter ricondurre la mente umana al funzionamento dell'organo
cerebrale, come tale a sua volta uguagliabile o anche superabile attraverso lo
sviluppo delle intelligenze artificiali.
Si può certo
obiettare che la riduzione della mente al cervello, e più in generale dello
spirito alla materia, è una posizione presente fin dall'antichità nel pensiero
occidentale. Ma di nuovo c’è che oggi questa o simili posizioni possono
rivendicare, sia pure impropriamente, il fascino e la credibilità del sapere
scientifico e delle sue realizzazioni concrete.
Si fa strada così una
concezione puramente naturalistica o materialistica dell’essere umano, che
sopprime ogni vera differenza qualitativa tra noi e il resto della natura.
Tutto ciò è certamente incompatibile con la visione cristiana dell’uomo creato
a immagine di Dio e chiamato a un eterno destino, ma pone anche un pesante
interrogativo sul fondamento e sulla plausibilità di quel ruolo centrale e di
quella dignità specifica del soggetto umano – da considerare sempre come un
fine e mai come un mezzo, secondo la nota formula di Kant – che costituiscono
il punto di riferimento decisivo della civiltà europea e più ampiamente
occidentale, sul piano non soltanto filosofico ed etico, ma anche giuridico e
politico, esistenziale e perfino estetico.
Non sono tra coloro
che pensano di dover esorcizzare nuove acquisizioni intellettuali o
scientifiche semplicemente evidenziando le loro pericolose implicazioni.
Ritengo però che proprio il sapere scientifico e le sue straordinarie
applicazioni pratiche, se valutati con animo aperto in tutto il loro
significato e in primo luogo nelle condizioni che li rendono possibili,
inducano a confermare quella posizione unica dell’uomo rispetto alla natura che
ha sempre trovato il proprio fondamento razionale nella considerazione delle
singolari capacità che il soggetto umano ha mostrato e mostra nel corso della
storia.
Il discorso
sull’identità culturale europea ha conosciuto un nuovo e purtroppo brusco
rilancio a seguito dei tragici eventi dell’11 settembre. Contestualmente è
apparso quanto mai chiaro che sul piano storico concreto questo discorso, per
non restare monco e in qualche misura artificioso, deve estendersi ad
abbracciare l’identità dell’intero Occidente, e in particolare quella degli
Stati Uniti. Senza minimizzare le differenze anche profonde tra l’una e l’altra
sponda dell’Atlantico, la comunità di origine, di valori e di destino che li
unisce, nel momento della prova è infatti nuovamente emersa in tutta la sua
forza e vorrei dire la sua cogenza ineludibile.
Ma dopo l’11
settembre ha assunto un nuovo e ben concreto rilievo anche la questione, per
altro assai nota e dibattuta, del rapporto tra l’Occidente moderno e il
cristianesimo. E’ divenuto infatti evidente a tutti ciò che prima non era molto
recepito, e ancora meno preso sul serio, dall’opinione pubblica, specialmente
europea. Mi riferisco all’affacciarsi di altre civiltà che si sentono
“schiacciate” dall’Occidente, o almeno tenute da esso in posizione subordinata,
sul piano economico, politico, culturale, della comunicazione sociale e che
intendono e vogliono uscire da questa condizione di minorità: queste civiltà
non hanno, a differenza dell’Occidente, il cristianesimo tra le proprie
principali matrici storiche e culturali.
Certamente il
sottosviluppo e la povertà, e quindi l’impegno per superarli, costituiscono uno
snodo ineludibile di tutta questa problematica, che chiama in causa sia i Paesi
sottosviluppati sia lo stesso Occidente. E’ altrettanto chiaro però che quella
della povertà non è l’unica questione: anzi, in certo senso si può affermare
che la maggior sfida per l’Occidente viene alla luce man mano che quelle
nazioni escono dalla condizione di sottosviluppo, come sta facendo, per citare
solo il caso più rilevante, la Cina. Per quanto riguarda i Paesi arabi, le
tragiche vicende di questi ultimi tempi mettono in ancor più forte evidenza
come il problema dei rapporti con Israele sia ai loro occhi certo non meno
importante delle questioni che riguardano lo sviluppo socio-economico.
La matrice religiosa
e “identitaria” cui ha preteso di richiamarsi il terrorismo islamico,
specialmente in occasione degli attentati dell’11 settembre, se da un lato è
stata contestata e respinta da dalla grandissima maggioranza dei responsabili
politici e religiosi di quelle nazioni, e per parte nostra non può certo
indurci ad entrare nella logica di guerre di religione o di civiltà, ci stimola
comunque a prendere coscienza che anche per costruire con il mondo islamico,
come con le altre grandi civilizzazioni che hanno matrici religiose e culturali
diverse dalle nostre, rapporti non di scontro, ma di rispetto reciproco, di
collaborazione e di pacifica convivenza è concretamente indispensabile che la
nostra civiltà, di origine in larga misura cristiana, si mostri non priva di
anima – in ultima analisi della propria anima cristiana – e sia come tale da
noi stessi percepita ed amata, e dove necessario difesa. Solo così essa potrà
essere meglio compresa e apprezzata anche dai nuovi – ma in realtà antichi –
interlocutori che il divenire storico pone davanti a noi.
Di fatto, sia pure in
forme assai diversificate e talvolta paradossali, una tale presa di coscienza
dopo l’11 settembre è certamente in atto, negli Stati Uniti ma anche nei Paesi
europei, compresa chiaramente l’Italia.
Accenno solo ad
alcune condizioni che sembrano indispensabili perché questa presa di coscienza
possa essere duratura e feconda.
E’ chiaro anzitutto
che sarebbe sbagliato e controproducente puntare su una qualsiasi
identificazione tra cristianesimo e Occidente: vi si oppongono da una parte
l’indole spiccatamente universalistica del cristianesimo stesso, come messaggio
di salvezza rivolto concretamente a tutte le genti e capace di incarnarsi nelle
culture più diverse; dall’altra i processi di secolarizzazione da molto tempo
in atto in Occidente e oggi per vari aspetti più radicali che nel passato.
Non per questo viene
meno però il rapporto storico tra cristianesimo e Occidente: un rapporto del
cui sviluppo sia l’Occidente che il cristianesimo hanno largamente beneficiato
e che già per questa ragione non sarebbe saggio interrompere. Dobbiamo tuttavia
essere consapevoli che l’eredità culturale di una religione – e in special modo
di una religione incentrata su una precisa fede, come il cristianesimo – è
destinata ad estinguersi, magari assai lentamente ma comunque progressivamente,
in quelle popolazioni tra le quali quella religione non sia più creduta e
praticata.
Di queste sfide le
Chiese cristiane, e in particolare la Chiesa cattolica, sono ormai ben
consapevoli, e la risposta che esse cercano di sviluppare è quella dell’evangelizzazione,
rivolta in primo luogo alle persone ma anche alla cultura e alle forme della
convivenza sociale. Penso che anche da parte di coloro che, con termine assai
ampio e poco definito, vengono chiamati “laici”, questo problema dovrebbe
essere fatto oggetto di attenta e spassionata considerazione, proprio in vista
del futuro dell’Occidente.