Le
estrernazioni di alcuni esponenti di sinistra sul caso Milosevic ripropongono
il tema della manipolazione del linguaggio.
Così i vecchi schemi resistono nelle formule “liturgiche” degli intellettuali
di Guido
Verna
Il Secolo d’Italia, 23-02-02
Un potere declinante, aggiungo io, in via di autoestinzione, ma pur
tuttavia sempre forte, senz’altro più forte di quanto immaginano — e non sono
pochi — quelli che finora non hanno voluto tener conto di questa considerazione
di Vittorio Mathieu che traggo dalla prefazione al libro citato: “li comunismo
ci ha liberato di sé da sé, perché aveva fondato la sua causa sul nulla, non
perché una terza guerra mondiale sia stata vinta. Ma il comunismo ci ha liberato
di sé solo di fatto, non ci ha liberato di sé come non-pensiero”.
Il locutore
portatore del non-pensiero. fruendo dell’amnesia e dell’amnistia di cui
parla sempre Besancon, continua, perciò, come se niente fosse accaduto,
nell’uso “liturgico” del linguaggio, “per piegare la realtà” alla sua obsoleta
visione del mondo che doveva trovare la conferma veritativa nella prassi e che,
al contrario, proprio la prassi ha infine falsificato. Un’ineluttabile —
perché “scientifico” — paradiso in terra si è rivelato invece una landa desolata,
una terra arida. E nel paradiso perduto, il locutore è costretto ad alzare i
toni perché l’interlocutore si sta allontanando e venti nuovi soffiano
e tendono a coprire le sue parole.
Il problema
non riguarda, evidentemente, solo l’Italia: anche oltre le Alpi l’uso del
linguaggio liturgico continua “a mascherare la soluzione di continuità tra il
sistema e la realtà”. Prendo un esempio che può sembrare di basso profilo e
poco incisivo. Ma se Il locutore è Il Procuratore capo del Tribunale
penale lnternazionale dell’Aia, il suo ruolo e la sua visibilità ne aumentano
a dismisura sia il profilo che l’incisività. Tenendo presente che anche la
storia è realtà mi riferisco a quanto ha detto in occasione dell’apertura del
processo a Milosevic il suddetto Procuratore, la ticinese Signora Carla Del
Ponte — Involontaria ma felice sintesi di giuriste nostrane, la signora Paciotti
e la signora Fumagalli Carulli, un po’ allo yogurt come la prima e molto
sinforosa come la seconda —: “Alcuni degli incidenti hanno rivelato una
ferocia medioevale”. Un’affermazione che sul Corriere della Sera si è meritata
il titolo in prima pagina (12 feb.) ma anche l’intelligente nota di Paolo Mieli
(18 feb.), che concludeva così: “Altro che epoca di oscurità e di ferocia; al
Medioevo dobbiamo probabilmente la parte più importante del nostro essere
civili, e delle nozioni sulla base delle quali oggi ci accingiamo a processare Milosevic”.
Glisso sulla falsità e sulla rozzezza
dell’accostamento storico del Procuratore, che dà comunque la misura —
tuttavia non sorprendente, se non altro per la diffusione altrettanto
“liturgica” che l’accostamento ha nel milieu culturale in cui si situa
la Signora —della sua raffinatezza nei giudizi. Non senza però invitarla a
informarsi un po’ meglio: per comodità — dal momento che la lettura dei
libri ha una durata non minima e potrebbe perciò privare la nascente giustizia
del mondo della sua opera di levatrice — potrebbe per esempio limitarsi fuggevolmente
a visitare una cattedrale e a sentire un po’ di musica medioevale: se è vero
che architettura e musica sono tra le manifestazioni più rappresentative e descrittive
di una civiltà, sono certo che ne ricaverebbe rapidamente molti elementi
finalmente di giudizio e noti più di pregiudizio.
Chiuso l’inciso,
quello che invece mi pare opportuna sottolineare ancora è la conferma, a più
di dieci anni dalla caduta del Muro, della vigenza almeno europea della
liturgia di quel linguaggio, che è l’estrinsecazione fonetica della camicia di
forza della tuttora permanente egemonia culturale comunista. Il pesante velo
sui crimini del comunismo è stato squarciato — anche se, per chi voleva
vedere, questo velo è stato sempre sufficientemente trasparente —; Milosevic è
stato l’ultimo presidente dichiaratamente comunista d’Europa: e allora perché
scomodare il medioevo? Non era molto più chiaro — e comprensibile e al passo
coi tempi — dire semplicemente: ferocia comunista? Infine: perché succede tutto
questo? La risposta, assolutamente condivisibile, la trovo in un libro
splendido e troppo presto dimenticato, Gli archivi segreti di Mosca, (ed.
Spirali), di Vladimir Bukovskij: “I potenti di questo mondo non hanno interesse
a scavare fino a raggiungere la verità. Chi lo sa cosa potrebbe saltar fuori?
Cominci coi comunisti e finisci con te stesso. Effettivamente, come dicono gli
inglesi, è meglio non lanciar pietre se vivi in una casa di vetro”, (pp. 54) E
più avanti (pp. 60): “Ma una cosa è certa: né la stampa né il mondo degli affari
né le personalità pubbliche né gli uomini del mondo occidentale hanno conservato
la propria innocenza. E sebbene il comunismo sia crollato, sono rimasti i
pilastri della società e del suo establishment. Sono proprio loro adesso
quelli che gridano più forte degli altri che la guerra fredda è finita, ma non
vogliono dire chi l’ha persa.
Nemmeno l’ombra del pentimento nemmeno il minimo tentativo di rivisitare il proprio passato, nemmeno un briciolo di onestà. Mi tornano Involontariamente in mente i versi di Galic: Sulla tomba stanno i predatori / sono loro il picchetto d’onore”.