Per gentile concessione delle Edizioni Ares, pubblichiamo un brano del secondo capitolo dl “No Global” la formidabile ascesa dell’antagonismo anarchico”, il nuovo libro del giornalista-scrittore Maurizio Blondet.
Dalle Comuni medievali ai Centri sociali, una inarrestabile ascesa politica
all’insegna di odio, invidia e tornaconto
Origine e obiettivi
degli Antiglobal, consumisti
autentici e rivoluzionari per burla
di Maurizio Blondet
Libero, 17-01-02
Il Manifesto pubblicava il 16 gennaio
1996 la seguente lettera: “Sono un venticinquenne privilegiato dell’hinterland
milanese; ho potuto studiare, ho una famiglia mediamente benestante. Eppure il
10 settembre ero in piazza Cavour e quando
(finalmente) è scoppiato l’odio, fazzoletto sul viso, ho caricato gli sbirri
provando una gioia e un senso di liberazione mai provato prima”. Illuminato da
questa “gioia dl odiare” il giovane scrivente, che si
firma Marco Vite da Monza teorizza su un metodo per liberarsi dalla
“rassegnazione collettiva” attraverso la manifestazione dell’odio. E lo affida
ai Centri Sociali: “Vorrei che i Centri Sociali riuscissero a trasformare il nostro informe permanenti di conflitto sociale”. Questo
auspicio è diventato realtà a Genova tra il 19 e il 22 luglio 2001: quando
decine di migliaia di contestatori antagonisti,
egemonizzati dai Centri Sociali, hanno “liberato l’odio”
in violentissimi fatti di guerriglia urbana e devastazioni gratuite. A Genova, nei moti contro il vertice del G8, si sono poste
le basi per trasformare migliaia di odii
corpuscolari, individuali, in “forme permanenti di conflitto”.
Carlo Giuliani, il ventenne ucciso a
Genova dal Carabiniere che stava cercando di uccidere, avrebbe potuto
scrivere la lettera apparsa sul Manifesto cinque anni prima. Anche lui “privilegiato”,
iscritto all’università, figlio di un sindacalista
della Cgil benestante, con villetta al Righi,
quartiere-giardino. Anche lui nel suo giorno fatale,
calato il passamontagna sul viso, ha “caricato gli sbirri” con una violenza
liberatoria da posseduto. Si aggiunga che Carlo Giuliani,
il figlie benestante, da tempo s’era intruppato tra i “punk-bestia”, chiedeva
l’elemosina accompagnato da una torma di cani randagi, frequentava i
Centri Sociali della sua città. Al suo funerale, la sua bara (glorificata e
accompagnata da pugni chiusi) era coperta da una bandiera: ma non la rossa
bandiera del comunismo né la nera dell’anarchia, bensì quella della Roma, la squadra di calcio preferita.
Agghiacciante particolare che la dice lunga sui “valori” (perché una bandiera è
sempre un simbolo di valori) che hanno portato Carlo Giuliani a trovare la
morte. (…)
Questo tipo umano, che a Genova ha
trovato il pretesto permanente per “liberare l’odio” di cui ha bisogno per
illudersi di esistere, è stato nutrito, allevato e
coltivato nei Centri Sociali per anni. E dominerà, se non la
storia, la cronaca nera per molti anni a venire. Per capire come mai,
dobbiamo prima domandarci: che cosa sono i Centri Sociali? Quale tipo
d’umanità radunano? Un testo “di lotta dei circoli
proletari giovanili di Milano” intitolato “Sarà un
risotto che vi seppellirà” così rievoca la nascita dei primi Centri Sociali:
“Anche le panchine erano stanche di sopportarci; dai bar ci cacciavano perché
drogati, Capelloni, ma soprattutto perché si
“consumava poco”. C’era la sede di Lotta Continua, ma era troppo stretta. Non
fisicamente, ma non la sentivamo nostra. E poi sempre scazzi
con i dirigenti, con gli operai … dovevi
sorbirti menate moralistiche o facevi il missionario: aiutavi le vecchiette
ad autoridursi le bollette della luce, vendevi il
giornale, attacchinaggi ecc. Alla lunga, ti chiedevi che rapporto c’era coi tuoi bisogni di vita. Allora preferivi stare al freddo,
sulle panchine... Le panchine però non bastavano più,
perché c’erano sempre più giovani qualsiasi che s’incontravano lì, non più solo
per droga. Lentamente è maturata la decisione di fare qualcosa di più,
finalmente qualcosa: si è troppo giovani per accettare
di marcire. Poi c’era uno che si bucava, stava male e noi volevamo fare
qualcosa, perché era uno di noi e poteva accadere a chiunque di noi di scivolare
nell’eroina. Con questa coda di paglia, e
con tanta voglia di fare qualcosa,di contare, di affermare i propri bisogni,
si è passati all’occupazione di una chiesa
sconsacrata. È bellissimo occupare chiese”.
Il tipo umano che appare in filigrana in questa autodescrizione, e che s’è agglutinato nei Centri Sociali (anche il più noto, il milanese “Leoncavallo”, nacque nel 1975) non è affatto nuovo. La frangia antropologica qui descritta, se non è mai emersa davvero nella luce della Storia dell’occidente (perché, come vedremo, semplicemente non è in grado di farlo) ha premuto, presenza costante per secoli, nell’area crepuscolare che s’addensa ai margini della storia. Sempre eguale a sé. L’autodescrizione datata 1977 è un ritratto di sintomi psicologici già comparsi, e notati, in epoche assai lontane. Capelloni, drogati, che “consumano poco” denota vite informi (incapaci di darsi una “forma”), subpersonalità incompiute o malferme, inerti e insieme irrequiete. Non stupirà apprendere, come c’informa un’altra indagine su questo ambiente; che molti dei giovani frequentatori dei Centri Sociali sono (in Lombardia!) senza lavoro o lavoratori senza qualifica nella “Piccola fabbrica”, vittime predestinate del “precario e del lavoro nero”. Più che disoccupati, dei non occupabili. Le oscure sette millenarista che nel Medio Evo espIosero e misero a sacco intere regioni d’Europa reclutavano immancabilmente dagli “irregolari” di questo genere: marginali per incapacità a reggersi all’interno della società, a rispondere alle esigenze minime del vivere comune. I loro capi erano personalità altrettanto borderline. Frà Dolcino, figlio illegittimo di un prete, nel 1300 stava per prendere i voti, ma dovette fuggire perché sorpreso a rubare i soldi del suo maestro. Sappiamo che, riconosciuto capo della setta dei “fratelli apostolici”, predicò l’abolizione delle leggi civili e l’instaurazione di una società spontanea, fondata sul puro amore. Per questo motivo, propugnò la collettivizzazione delle terre, e anche delle donne (nell’amore tutto andava messo in comune). Nel 1304, raccolti attorno a sé cinquemila marginali, fissati, vaneggianti, maniaci, fondò tra le valli alpine una comune dove mettere in pratica i suoi principi. La comune, incapace di produrre alcunché, campò per tre anni depredando le campagne circostanti, dunque di mero parassitismo banditesco: un Centro Sociale ante litteram.(…)
il Giardino delle Delizie
“Cera la sede di Lotta Continua,
ma non la sentivamo nostra. Li dovevi sorbirti menate
moralistiche o facevi il missionario”, si lagnano i primi “autonomi”: “alla lunga ti chiedevi che rapporto c’era coi tuoi bisogni
di vita”. Questo tipo umano, privo di unità interiore,
di volontà e fermezza, semplicemente non può dedicarsi a un progetto
qualunque, che in qualche modo lo trascenda. È inutilizzabile anche per
la Rivoluzione, perché vive ossessionato dalla necessità di soddisfare,
immediatamente, i “suoi bisogni di vita”.
Questa frangia
antropologica non sa far altro che obbedire ai suoi impulsi primari: voglia di
godere, fame, paura, odio. Non solo socialmente, ma in modo più radicale (cioè come gli animali) essa vive nel bisogno. La sola
utopia che concepisce è entrare nel Giardino delle Delizie dove unica norma è
il godere, nel Paese di Cuccagna dov’è l’abbondanza senza lavoro, nel Paradisus Voluptatis che Bosch, seguace dei “fratelli del libero spirito” dipinse
come luogo dei piaceri soddisfatti.
Del resto, nelle sette
medievali proliferate dalla gnosi catara non si facevano
quasi altro che “festini”, o “riti” consistenti in unioni sessuali, spesso
contro natura. Feste che in Italia si chiamavano “barilotti”, mentre in
Germania i luoghi delle orge erano chiamati “paradisi”. Nei Centri Sociali la
parola d’ordine è la “lotta per il diritto alla festa”.
Che costoro siano giovani (categoria dell’irresponsabilità, che può
prolungarsi smisuratamente fili oltre i trent’anni)
e che a loro si uniscano sempre più giovani “qualsiasi” (ossia non ideologizzati) tutti sull’orlo della tossicomania, “consapevoli
che poteva accadere a ciascuno di noi di scivolare nell’eroina”, può stupire
solo chi sia accecato dall’errore pedagogico illuminista: il quale presuppone
o finge nell’adolescente una “personalità”, strutturata, “razionale” per
giunta, consapevole, libera nei giudizi. La verità è che il “giovane” è per
natura, ma si spera transitoriamente, una personalità vaga, fluttuante,
marginale come quella che da secoli si fa arruolare nelle sette eversive millenariste.
Il soggetto che segue frà Dolcino e si fece anabattista
e partecipò a barilotti e saccheggi, è lo stesso che
oggi sì arruola nell’insurrezione permanente della
nuova anarchia antagonista”: entrambi si caratterizzano per l’incapacità di
unificare gli “io” pIurimi è temporanei che li
abitano (come Carlo Giuliani al tempo stesso “bravo ragazzo” e punk-bestia,
“studente universitario” e tifoso della Roma). Questi “io plurimi” sono
nutriti dalle forze profonde dell’inconscio in tempesta ormonale, da impulsi
primari, da micro-ossessioni
o fissazioni deboli, e rendono il soggetto incipiente che li porta in sè irrequieto, vagante, incapace di costanza e coerenza,
dunque “ribelle" e al tempo stesso invincibilmente gregario. Folle dl marginali e di psicolabili restando in modo
permanente in questo stadio, che è proprio appunto del “giovane” adolescente.
La sola differenza è
che nel giovane la mancanza di unità interiore e
fisiologica, in qualche modo “normale”. (…)
Chiunque ha un figlio
adolescente si domanda perché egli venga travolto in
modo a volte ridicolmente, dolorosamente coattivo da mode giovanili ricorrenti;
perché di colpo voglia vestirsi in un certo modo, "come tutti i ragazzi
della mia età”, e non in un altro; e come soffra se glielo si impedisce; e
come gli piaccia una certa musica che piace a tutta la sua generazione; e come
si comporti in modo stupidamente gregario, obbedendo all’istinto della banda
di eguali. La risposta è: perché, non essendo ancora formato - e maturo non è
capace di reggere lo sforzo di vivere in proprio.
Avere personalità è, essenzialmente, saper reggere il disagio della
solitudine radicale, sopportare l’atmosfera psichica anonima del momento. Al
punto - come sa chiunque ricordi la sua adolescenza - da sentire come una
disperata privazione di sé
l’impossibilità, o il divieto dei genitori, di agire "come tutti i
miei compagni”. di parlare come loro, di frequentare
i luoghi che frequentano “tutti”, di adorare gli idoli del gruppo giovanile,
e soprattutto di indossare i jeans, le magliette e le scarpe Nike che “danno identità" ai suoi coetanei, beninteso
un’identità collettiva, di gruppo sociale, di banda. Cioè
esattamente il contrario della spontaneità e della originalità, che pure il
giovane persegue perdutamente, narcisisticamente.
Quanto più la società incita il
giovane a essere “libero”, tanto più egli sente
necessario adeguarsi inlineficamente al gruppo coetaneo:
perché, quell’età, sentirsi “liberi" significa
sentire con tutta l'angoscia il vuoto, il nulla del suo io incipiente.
Narcisismo patologico
La pedagogia contemporanea, che invita gli scolari
delle elementari a “esprimere il proprio io” o addirittura la “propria creatività”
non fa che fissarli in un narcisismo patologico: chi non ha (ancora) nulla da
esprimere, finisce per esprimere violenza chimicamente pura. Chi viene dichiarato “libero” senza avere
ancora le qualità per esercitare la libertà, viene gettato nel vuoto: e nel
vuoto psicologico nasce l’aggressività.
Che questo vuoto
(pieno d’angoscia, di dubbi stilla propria adeguatezza) sia
oggi spesso riempito dalla droga è quasi inevitabile vista la
valorizzazione che la pedagogia criminosa del nostro “illuminato” ed edonista
conferisce al “provare emozioni.
Bisogna vedere un diabolico sarcasmo, un’atroce
freddura satanica nel fatto che le droghe spacciate ai nostri ragazzi abbiano
nomi che alludono alle alte cose di cui vengono defraudati: eroina al posto
dell'eros e dell'eroe, ecstasy come surrogato dell’Estasi ascetica, crack al posto dello schianto dell’io che
esce da se stesso