Corriere della Sera, 24 giugno 2002
di Pietro Ichino
Che delle tre deroghe all’articolo 18 proposte dal governo due fossero destinate a cadere, perché tecnicamente sbagliate, lo abbiamo scritto già tre mesi fa: «La realtà è che l’unica delle tre destinata a produrre qualche — pur modesto — effetto è quella relativa alle aziende a ridosso della soglia dei quindici dipendenti» (Corriere, 23 marzo 2002) La facile profezia si è puntualmente avverata.
Neppure la deroga rimasta, cioè l’esenzione dall’articolo 18 per le imprese che varcheranno in futuro la soglia dei 15 dipendenti, può peraltro considerarsi del tutto al riparo da rischi: quando due imprenditori, con uguale numero di dipendenti superiore a 15, si troveranno soggetti a due normative diverse sui licenziamenti, solo perché uno dei due avrà varcato quella soglia recentemente e l’altro no, la questione dovrà essere esaminata dalla Corte Costituzionale. Anche se la deroga supererà questa verifica, il suo campo di applicazione effettivo, nei due o tre anni previsti per la sua sperimentazione, sarà comunque modestissimo.
E i giudici del lavoro ne presidieranno con prevedibile severità i confini, come del resto hanno fatto finora, per impedire le elusioni fraudolente oggi paventate dagli oppositori.
Quanto agli effetti occupazionali, non sarà questo mini-ritocco all’articolo 18, oltretutto rivedibile a breve scadenza, a mutare significativamente il quadro delle convenienze per le imprese; sono altre e molto più ampie le deroghe sostanziali al principio di stabilità del posto che consentono ai datori di lavoro di mantenersi al di fuori dei campo di applicazione dell’articolo 18 o comunque di evitare quel vincolo nel singolo rapporto; basti pensare ai contratti di apprendistato, di formazione e lavoro, o di «collaborazione coordinata e continuativa».
La cosa più stupefacente, però, non è che contro la mini-riforma dell’articolo 18 folle sterminate siano scese in piazza e milioni di persone abbiano scioperato; ma che in questo scontro titanico non sia stata dedicata alcuna attenzione alle riforme vere, contenute nel disegno di legge-delega che il Parlamento sta approvando. Una di queste è la possibilità per le agenzie di lavoro temporaneo di svolgere anche attività di collocamento ordinario: cosa sulla quale è difficile dissentire. Un’altra è l’introduzione nel nostro ordinamento dello staff leasing un istituto proprio dei sistemi anglosassoni. Questo sì è un cambiamento profondo del nostro diritto del lavoro, che incide in qualche misura anche, per cosi dire, sul suo Dna e sul quale ci si sarebbe potuti attendere un dibattito serio: in pratica sarà possibile affidare in permanenza a un’agenzia specializzata la gestione di una parte dell’organico aziendale e dei rapporti sindacali relativi a esso.
Questo, beninteso, accade largamente già da tempo anche in Italia, sotto forma di «decentramento» di servizi logistici, di pulizia, di vigilanza, di data-entry (caricamento informatico di dati) e simili; ma lo si deve mascherare come appalto di servizi, perché altrimenti una legge ai quarant’anni fa lo vieterebbe.
Il fatto è che spiegare a decine di milioni di persone che cosa è lo staff leasing l’innovazione profonda che esso comporta nell’impianto del nostro diritto del lavoro, è pressoché impossibile. È invece enormemente più facile mobilitare decine di milioni di persone con lo slogan «no ai licenziamenti»: poco importa che i licenziamenti siano davvero minacciati oppure no. In realtà, quella dei licenziamenti, di cui si è discusso in questi mesi nelle piazze e alla televisione, non è una riforma reale, ma una riforma virtuale, esistente soltanto nel mondo della comunicazione di massa. Ed è accaduto, curiosamente che su questo terreno tutto virtuale Berlusconi, il re dei mass-media, sia stato battuto da Cofferati con uno slogan, mentre su di un altro aspetto del diritto del lavoro sta compiendosi una riforma reale e profonda senza che, almeno finora, il movimento sindacale apparentemente se ne sia accorto.
PS. Ieri su la Repubblica Eugenio Scalfari accennava alle nuove norme sulle agenzie di collocamento, di lavoro temporaneo e di staff leasing, qualificando riassuntivamente le agenzie stesse come «il volto moderno del caporalato». Ancora uno slogan. Ma le agenzie private di collocamento e di lavoro temporaneo sono state introdotte in Italia dal centrosinistra, con il «pacchetto Treu» del 1997, preventivamente approvato da Cgil, Cisl e Uil nel dicembre 1996: tutti attentatori ai sacrosanti diritti del lavoro?
Pietro lchino