Italia Oggi, 07 giugno 2002
di Giuseppe Ripa
Confindustria e Banca d’Italia in prima linea contro la riforma fiscale Tremonti. Nel nome della grande impresa. E’ un vero e proprio scontro politico quello che si sta accendendo in questi giorni. E la posta in palio è il destino delle piccole imprese.
Non è un mistero che in Italia la dimensione media delle aziende è pari a 2,6 addetti e che su circa 4 milioni di imprese circa il 90% ha volumi di affari sotto i 10 miliardi di vecchie lire.
Ora, per il governatore Antonio Fazio, «il contributo che le piccole imprese hanno fornito allo sviluppo della nostra economia è stato importante, ma la frammentazione rischia di incidere negativamente sulla capacità di crescita». Anzi, la piccola dimensione delle imprese italiane, addirittura, rallenterebbe anche lo sviluppo tecnologico e l’innovazione.
La sintesi delle analisi apparsa in questi giorni è dunque questa: le imprese di piccole e medie dimensioni che rappresentano una realtà impressionante, hanno poca produttività per addetto e, siccome occorre aumentare la produttività per fare gli investimenti e le infrastrutture, le stesse dovrebbero scomparire o aggregarsi per far posto o far decollare la grande impresa. Anche il presidente di Confindustria irrobustisce tale analisi forte dei dati Istat inerenti al Rapporto annuale sulla situazione italiana nel 2001. Si mostra preoccupato del fatto che in Italia, dove il tasso di imprenditorialità è tra i più alti del mondo, è invece molto basso il numero delle grandi e medie imprese (Corriere della Sera del 3 giugno 2002).
Questo è un danno, si dice, per la crescita economica; tante grazie, quindi, alle piccole imprese ma è ora di dirsi addio.
Eppure sulla crescita economica il ministro Tremonti ci punta proprio e non pare che si sia lasciato impressionare da tali negatività. Prosegue per la sua strada introducendo leve fiscali di generale spessore: la Tremonti-bis, l’emersione del lavoro sommerso e, non ultima, la riforma fiscale già varata dalla camera e ora in discussione al senato.
Anzi, è proprio in questo disegno di legge che si può leggere un approccio contrario alle affermazioni appena ricordate. Innanzitutto, la riforma dell’imposta sulle società ha la finalità dichiarata di «incrementare la competitività del sistema produttivo».
Lo si fa introducendo l’esenzione delle plusvalenze realizzate sulla cessione dì partecipazioni specifiche con la corrispondente esclusione dei dividendi dalla formazione del reddito imponibile e, simmetricamente, l’indeducibilità delle minusvalenze. in aggiunta sì è previsto il riconoscimento fiscale dei gruppi di imprese: di pari passo, verrà eliminato il meccanismo del credito di imposta che affosserà, finalmente, l’assurdo strumento legato ai canestri. Riguardo alla piccola impresa la sua salvaguardia passa attraverso alcuni interventi di ampio respiro. Innanzitutto, la riduzione dell’aliquota al 23% per le imprese sottoposte all’imposta personale sul reddito. Secondariamente con la normalizzazione dell’imposta mediante il potenziamento e l’ampliamento degli studi di settore e con la stabilizzazione del prelievo grazie all’introduzione del concordato preventivo a regime. Tali interventi, si è detto, costituiscono un forte stimolo alla crescita competitive e alla rimozione degli ostacoli formali all’emersione.
In verità è la combinazione della massiccia accettazione degli studi di settore, insieme con l’introduzione di una aliquota base del 23%, a dare la misura di come la riforma tenda proprio a ridare spinta allo piccola impresa e, quindi, a favorire la crescita economica. La relazione di accompagnamento precisa che lo scaglione ampio del 23% rappresenta in particolare la sinergia ideale con la scelta di potenziare l’utilizzo degli studi di settore in termini di recupero dell’evasione.
Oggi ci si adegua di malavoglia o non lo sì fa in quanto l’eventuale maggiore imponibile verrebbe colpito, ricorda ancora la relazione, con aliquote alte, per lo più non sentite come giuste dal contribuente.
Anche con la graduale eliminazione dell’Irap si tende a dare uno stimolo alla crescita delle piccole imprese rendendole più competitive.
Infine l’abbandono di Dìt e Superdit a vantaggio della Tremonti-bis ad ampio raggio la dice lunga circa l’avversione per interventi dì leva fiscale miranti a salvaguardare il grosso capitale. Ma è proprio con il ritocco o con la eliminazione dell’Irap che si mostra per intero la volontà di salvaguardare settori importanti quali il tessile, le calzature, i mobili, gli elettrodomestici ecc. di enorme peso.
L’introduzione dell’Irap, dice sempre la Relazione di accompagnamento, «ha reso più gravoso il carico fiscale sulle imprese individuali, sui lavoratori autonomi e sugli enti non commerciali: questi soggetti, in precedenza esclusi dall’Ilor, contribuiscono in specie attualmente per il 35% al gettito complessivo dell’Irap». Con l’eliminazione di tale tributo insomma, si vuole evitare di continuare a penalizzare l’occupazione. Ciò in quanto l’Irap favorisce la robotizzazione e la delocalizzazione a danno delle risorse umane.
Le affermazioni del presidente di Confindustria e del governatore della Banca d’Italia (le piccole imprese penalizzano la crescita, quelle grandi la favoriscono) sono quindi in netto contrasto con lo spirito della riforma fiscale in atto con la quale, invece, si riconosce in pieno il ruolo delle pmi come spina dorsale del paese- (riproduzione riservata)