Corriere della Sera, 18 maggio 2002

 

Tra storia e riforma

 

Fondazioni? Chiedete ai francescani

di Giuseppe De Rita

 

Le attuali polemiche sulle fondazioni bancarie non hanno certo bisogno di essere alimentate da prese di posizione troppo appiattite sugli interessi di parte, ma piuttosto di una collocazione storica che aiuti a capire quali siano i veri problemi in gioco.

Storicamente il patrimonio delle fondazioni appartiene alle comunità locali, frutto delle vicende proprietarie delle Casse di Risparmio, che a loro volta avevano, a fine Ottocento, assorbito la titolarità dei tanti Monti di Pietà. Questi erano sorti quando alla fine del periodo feudale i nuovi protagonisti economici ebbero bisogno di denaro (i contadini per comprare attrezzi, gli artigiani per comprare macchinari, i mercanti per comprare mezzi di trasporto).

Gli unici che disponevano di «circolante» erano gli ebrei del tempo, che applicavano tassi troppo alti per le citate categorie; e allora i monaci francescani inventarono i Monti; dopo aver per quaranta giorni di Quaresima tuonato contro «l’usura degli ebrei», al Venerdì Santo organizzavano una sfilata di carri, nell‘ultimo dei quali (raffigurante il Calvario, Mons pietatis) si raccoglievano le offerte della comunità per costituire l’accumulazione finanziaria (il primo patrimonio bancario che la storia conosca) alla quale i nuovi protagonisti dell’economia potevano attingere con bassi tassi d’interesse.

Fra il 1470 ed il 1482 nacquero circa cento Monti nel territorio che va da Terni al Veneto. E furono in grado di far supporto quasi da banca locale ante litteram  al grande sviluppo economico e civile di tutte le aree in cui operarono. Chi ha studiato quello straordinario processo di responsabilizzazione «bancaria» della comunità locale ha anche sottolineato la sua qualità teorica ricordando la polemica fra domenicani e francescani.

Per i domenicani, contrari all’iniziativa, parlò Sant’Antonino da Firenze dicendo «tu non puoi vendere il denaro perché non vendi il denaro ma il tempo. ed il tempo non è tuo ma è di Dio» (era un antesignano, evidentemente, del concetto di moneta-tempo); mentre per i francescani rispose San Bernardino da Feltre dicendo che «la moneta potest esse considerata vel rei vel, si movimentata est, capitale» (usando il termine qualche secolo prima di Marx). E ci volle un Concilio, il Laterano Terzo, perché la Chiesa desse ragione ai francescani e legittimazione alla storia dei Monti.

Quei primi patrimoni bancari furono a fine Ottocento incorporati nelle Casse di Risparmio, create dalle comunità locali (gli atti costitutivi furono sottoscritti da nobili e imprenditori locali, istituzioni, preti, eccetera) per continuare a sostenere finanziariamente il sempre più complesso sviluppo economico dei territori di competenza. E non è quindi un caso che lo sviluppo economico italiano del secondo dopoguerra si sia identificato con la nascita e la crescita di tanti distretti industriali, tutti debitori del grande supporto delle Casse di Risparmio: da Parma a Fermo, da Prato a Fabriano, da Verona a Santa Croce sull’Arno, da Forlì a Pescara. Le comunità locali e le Casse sono cresciute in ricchezza parallela e sinergica: il patrimonio bancario serviva allo sviluppo locale, lo sviluppo locale accresceva il patrimonio bancario delle comunità.

All‘inizio degli anni ‘90 alcune istanze modernizzatrici tesero alla crescita delle dimensioni delle banche, anche spingendo i piccoli istituti a essere inglobati nei grandi gruppi. Fu deciso quindi che le Casse sarebbero tutte diventate società per azioni (quindi vendibili ed accorpabili sul mercato mentre il patrimonio da esse accumulato nei secoli sarebbe andato alla nuova figura privatistica delle Fondazioni bancarie. Si aprì così la strada ad una trasformazione capitalistica del sistema bancario, senza però espropriare le comunità locali di un patrimonio che apparteneva loro da sempre.

Il richiamo dei vari passaggi storici serve a chiarire dove siano oggi i «paletti» su cui può e deve articolarsi il futuro delle Fondazioni; sono le custodi di un patrimonio storico privato in quanto accumulato dalle comunità locali (mai una lira di intervento statale è riscontrabile in una storia secolare); hanno il vincolo ereditario di contribuire dal di dentro allo sviluppo dell’economia locale; devono poter progettare il loro intervento in coerenza con tale sviluppo, operando come «fondazioni acting» di stampo tedesco (cioè con scelte strategiche autonome) più che come «fondazioni granting» all’americana (con contributi su domanda di altri); comunque devono avere un rapporto stretto con tutti i protagonisti dello sviluppo locale, siano essi politici o sociali, istituzionali o associativi. economici o culturali.

Chi legga in filigrana queste considerazioni è facilmente in grado di orientarsi nelle fiammeggianti polemiche di questo periodo, senza farsi imprigionare da aspetti ideologici (il primato della politica o della società civile) o da aspetti di bottega (le remunerazioni troppo alle dei dirigenti o la inelegante invasività del settore non profit). E’ cioè in grado di capire che è corretta la volontà del governo quando spinge a finalizzare gli interventi delle Fondazioni con lo sviluppo economico locale e spinge verso un ulteriore allontanamento delle Fondazioni dalla proprietà bancaria. Mentre occorre comunque ribadire che non si può non rispettare il carattere privato ed autonomo delle Fondazioni come eredi di un patrimonio che è delle comunità e non dello Stato; così come non si può richiamare l’esigenza che nel loro assetto di governo siano presenti tutte le espressioni delle comunità locali, senza privative accordate ai poteri politici operanti in esse. Ricordiamoci che in cinquecento anni si sono succedute centinaia di maggioranze politiche locali, ma nessuna di esse (signorie o ducati come giunte rosse) è riuscita a coartare il lungo processo di sviluppo dei Monti e delle Casse.

Di fronte quindi ad un processo storico che dura da secoli, che ha dato buoni frutti, che ha arricchito le comunità locali e la comunità nazionale (e che può continuare ad innervare i diversi protagonisti di tali comunità) sarebbe giusto evitare tentazioni di impossessamento particolaristico (politico o sociale che sia). I processi di lunga durata richiedono di essere accompagnati con intelligenza, ricordando magari la banale verità che governare significa accompagnare e non comandare.