La Nazione, 5 giugno 2002

 

MONDIALI

 

L’ INTERVISTA / Parla Vittorio Messori

 

«Lo stadio luogo d’odio E’ meglio picchiarsi lì»

di Piero Degli Antoni

 

MILANO — «Basta con questa ipocrisia buonista secondo cui lo stadio è il luogo dell’amicizia e della fratellanza. Lo stadio dev’essere il luogo dell’odio, del sangue. Solo così può assolvere la sua funzione di sublimare le energie negative che esistono in ognuno di noi».

Se a dirlo non fosse Vittorio Messori, qualche dubbio potrebbe venire. Ma lo scrittore cattolico perora con efficacia la sua tesi solo apparentemente provocatoria.

«Devo premettere — dice — che io personalmente, pur essendomi sforzato a lungo, non sono mai riuscito a diventare tifoso. Ho trascorso la mia gioventù a Torino e non sono mai riuscito a scegliere tra le due squadre della città: anzi finivo per gioire delle vittorie di entrambe. Il che costituisce, come sa chiunque si occupi di calcio, una vera eresia».

Con la Nazionale, però, l’identificazione dovrebbe scattare automatica.

«Ma con la Nazionale lo sport c’entra fino a un certo punto. Qui scatta l’identificazione ancestrale con la Patria, la Storia, la Tradizione, e lo dico io che odio le maiuscole. Anch’io ho ricavato un’ora e mezzo di tempo per seguire l’incontro. Detto tutto ciò, da parte dì uno che non e mal entrato in uno stadio in vita sua, aggiungo che sono contentissimo che esista il calcio e che ci sia almeno una partita al giorno. Il successo dei Mondiali deriva dal fatto che sono una chiara metafora della guerra: non a caso si parla di attaccanti e difensori, tattiche, strategie. Chi segua più gol è un cannoniere. Tutto il linguaggio dello sport è marziale. Quello a cui assistiamo è uno scontro tra due eserciti, e così deve essere. Il calcio ha una funzione catartica: sublima l’aggressività che c’è in ognuno di noi. lo vorrei che la gente si picchiasse di più allo stadio, così si picchierebbe di meno nelle strade. Secondo il politicamente corretto, lo sport dovrebbe essere la sublimazione di valori alti come la lealtà e l’amicizia: è invece vero il contrario. Senza contare l’ipocrisia della stampa, che per tutta la settimana aizza allo scontro e quando poi ci si picchia davvero si scandalizza. A questi Mondiali siamo poi arrivati alla trovata buonista dei bambini sui campi dì gioco, una trovata che davvero fa cadere le braccia».

I Mondiali come valvola si sfogo, dunque. Come ai tempi degli Orazi e dei Curiazi.

«Il Medio Evo, che era saggio e per fortuna non politicamente corretto, aveva inventato a questo scopo una serie di giochi. L’unico che è arrivato fino a noi è il Palio di Siena. Ancora oggi Siena ha un numero di reati tra i più bassi d’Europa, perché l’aggressività viene scaricata in quella metafora. Nelle gare sportive si sublima il desiderio, che c’è in tutti noi, di punire l’altro. Se anche l’India e il Pakistan partecipassero ai Mondiali di calcio, di sicuro il pericolo di una guerra sarebbe molto minore».

I Mondiali sono però anche l’unico momento in cui torna alla ribalta un valore tutto sommato desueto come il nazionalismo.

«Anche qui, è la sagra dell’ipocrisia. Nella squadra francese, i francesi doc sono solo 2 o 3. SuI nazionalismo si fa tanta retorica nobile, però il nazionalismo significa essenzialmente diffidenza verso l’altro, il desiderio oscuro di stare insieme: è uno dei peggiori killer dei nostri tempi, basta pensare alla Grande Guerra. Però, anche qui, il calcio serve a canalizzare le energie negative. La prospettiva giusta è opposta a quella buonista: il calcio non è affatto una festa della pace, ma della guerra, del sangue, dell’aggressività. Negli stadi bisogna andarci per odiare. Lo dico da cristiano, un cristiano che crede nel peccato originale. In ognuno di noi c’è San Francesco, ma anche il mostro di Firenze».