Le Scienze 394/giugno 2001

Sul principio di Precauzione.

La sua applicazione, invocata a garanzia del cittadino e dell’ambiente, ha spesso provocato più problemi di quanti non ne abbia risolti.

di Franco Battaglia

 

Di recente abbiamo avuto modo di sentire invocato il «principio di precauzione» a sostegno di scelte politiche su questioni di protezione della salute o dell’ambiente. Penso che il principio andrebbe al più presto soppresso. Sia chiaro: la precauzione è cosa sacrosanta quanto difficilmente contestabile e senz’altro da adottare  in ogni attività umana. Ma il tentativo di dare forma giuridica a questo principio sembra essersi rivelato un fallimento: non solo inutile ma anche dannoso. Consideriamo allora la formulazione datane nell’articolo 15 della Dichiarazione di Rio del 1992: «Ove vi siano minacce di danno serio o irreversibile, l’assenza di certezze scientifiche non deve servire come pretesto per posporre l’adozione di misure, anche non a costo zero, volte a prevenire il degrado ambientale». Solo a chi non abbia una educazione scientifica può sfuggire la vacuità di questa enunciazione: la certezza scientifica è sempre assente. Di certo non è passata inosservata alla Commissione dell’UE che, però, anziché rifiutare il principio, ha tentato, arrampicandosi sugli specchi e aggiungendo problemi anziché risolverne, di giustificarlo e di stabilirne i limiti e l’applicabilità. (Un resoconto della vicenda lo si trova alla pagina web: www.roma2.infn.it/carboni/campi-EM, approntata da Giovanni Carboni, docente di fisica all’Università di Roma «Tor Vergata»)

La «certezza scientifica» è assente giacché il dubbio è nella natura stessa  della scienza: solo le parascienze, le scienze alternative, l’astrologia, offrono certezze. Il rischio del principio di precauzione è che lo spazio di dubbio la sciato dalla scienza venga riempito da affermazioni arbitrarie che, dando voce solo ai singoli risultati della scienza che tornano di volta in volta comodi, consentano ad alcuni la razionalizzazione dei loro interessi di parte, in contrasto con gli interessi della collettività e con l’analisi critica della totalità delle acquisizioni scientifiche. E il passo da affermazione arbitraria a (finta) certezza è breve. Certezza che rimane tale anche quando la scienza ne dovesse decretare l’insussistenza: le preoccupazioni dell’opinione pubblica per il deterioramento ambientale sono viste dai politici come trampolini di lancio per le loro carriere.

 

DALLA PRECAUZIONE AL PRIONE

Esaminiamo alcuni tipici casi in cui il principio di precauzione  è stato invocato a sproposito, cominciando con due esempi ante litteram. Di per sé, l’uso di certi scarti di macelleria per produrre mangime ricco di proteine non ha nulla di grave (certo, non si sarebbero dovute usare carcasse di bestie malate) ed è una pratica di lunga data. Alla fine degli anni ’70 il metodo di lavorazione delle carcasse per ottenere integratori alimentari proteici fu abbandonato a favore di un altro. Un tempo per eliminare l’acqua e il grasso, gli scarti venivano ridotti in polpa, riscaldati a 130 gradi sotto pressione e trattati con un solvente atto a sciogliere i grassi: il diclorometano. Producendo grasso e mangime di ottima qualità. E non contaminato dal prione, che veniva distrutto dal procedimento.

Senonché alcuni ambientalisti avviarono una lotta al diclorometano, in base a due argomentazioni. La prima, alquanto cervellotica, sosteneva che siccome i CFC  (che contengono atomi di cloro legati ad uno di carbonio) distruggono l’ozono, lo stesso avrebbe forse avrebbe fatto il diclorometano (anch’esso contenente due atomi di cloro legati a un carbonio). In realtà, questa molecola, per azione della luce e dell’ossigeno, si ossida decomponendosi rapidamente senza nuocere all’ozono. L’altra argomentazione invocava una pubblicazione scientifica che riportava un aumento dell’incidenza di cancro in topi esposti a diclorometano (topi, peraltro, geneticamente modificati in modo da essere predisposti a contrarre tumori). La pressione degli ambientalisti indusse le imprese britanniche  ad adottare un procedimento che, senza far uso di diclorometano, trattava a soli 80° le carcasse e poi le pressava.

Con quel procedimento il prione rimase inalterato e si trasmise al mangime delle vacche. Non è improprio sostenere che il caso «mucca pazza» sia nato da un uso improprio del principio di precauzione.

Ed ecco il secondo esempio. Com’è noto la clorazione delle acque è forse il metodo più efficace di purificazione idrica: basta una piccola concentrazione di ipoclorito per liberare l’acqua da germi patogeni. Forse  l’acqua clorata non è il massimo per il gusto ma dobbiamo scegliere: il sapore cristallino  o l’assenza di pericolosi germi. Sempre grazie al solito articolo scientifico che ipotizzava la rischiosità della clorazione delle acque che avrebbe potuto, presumibilmente, trasformare i residui organici presenti nell’acqua in composti organoclorurati che, sempre presumibilmente,  avrebbero potuto favorire  l’insorgere di tumori, gli ambientalisti trovarono, alla fine degli anni ’80 un nuovo nemico. L’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro  (IARC) e l’OMS pubblicarono nel 1991 un rapporto secondo cui non vi erano prove che giustificassero l’allarme, sottolineando che, comunque, l’ipotetico rischio  andava confrontato con quello certo derivante dal bere acqua non clorata. Quello stesso anno il Governo peruviano decise di dar ascolto agli ambientalisti e non all’OMS, e fece interrompere la clorazione dell’acqua potabile. Ne seguì un’epidemia di colera che colpì un milione di persone, uccidendone 10.000.

 

VALUTARE RISCHI E BENEFICI

La Conferenza dell’Aia si è conclusa in modo prevedibile. Ma non con un fallimento, come i più lamentano, Quella del riscaldamento globale, in ordine sia alle cause, sia agli effetti, sia alle eventuali misure da prendere, è una questione aperta e non una certezza scientifica. Adottare il protocollo di Kyoto significa dare una risposta al problema del riscaldamento globale: ma una risposta inadeguata scoraggia la ricerca della risposta corretta. Oggi sappiamo che, anche se ci fosse bisogno di contrastare un presunto crescente riscaldamento globale, ridurre le emissioni di anidride carbonica come previsto a Kyoto avrebbe effetto zero sul riscaldamento globale: dovremmo ridurle dell’80 per cento per sperare, dopo diversi decenni, di ottenere un qualche, peraltro irrilevante, effetto. Per contro, l’effetto sulle economie dei Paesi industrializzati sarebbe disastroso. Il principio di precauzione andrebbe forse più utilmente sostituito da un «principio di adattamento».

Il principio di precauzione è stato invocato anche per chiedere la moratoria sui proiettili all’uranio impoverito. Per evitare lo scandalo bastava la «Garzantina» della chimica  e l’informazione che, nel classificare gli agenti in base al loro eventuale potere cancerogeno, la IARC ha inserito l’uranio impoverito nella IV classe (nella I c’è il fumo del tabacco, nella II le radiazioni UV, nella III il caffè). Forse la moratoria andrebbe fatta sulle guerre.

La teoria dell’esistenza dell’elettrosmog era una semplice ipotesi di lavoro. In mano ad ambientalisti e politici irresponsabili, è diventata certezza. Sulle radiazioni non ionizzanti l’OMS dichiara: «Su questo agente sono stati scritti circa 25.000 articoli in oltre 30 anni di ricerche e la conoscenza scientifica in questo campo è superiore a quella  disponibile per la maggior parte delle sostanze chimiche. I requisiti per l’applicazione del principio di precauzione, come sono stati precisati dalla Commissione Europea, non appaiono soddisfatti né nel caso dei campi elettromagnetici a frequenza industriale, né in quello dei campi a radiofrequenza». Qualora siano vere le ipotesi più nere, gli attuali campi da elettrodotti potrebbero al più esser la causa, in Italia, di una leucemia puerile ogni due anni. Senonchè, secondo un rapporto dell’OMS, un’esposizione  continua a benzene (leucemico certo) entri i limiti di legge (10 microgrammi/metrocubo), porterebbe a un aumento annuo di 2.500 casi di leucemia. Invocare il principio di precauzione per eliminare la causa (presunta) di un certo effetto quando per esso vie è un’altra causa (accertata) 5.000 volte più significativa, è certamente ingiustificato. L’unico effetto della legislazione (voluta in nome del principio di precauzione) contro l’inesistente elettrosmog è quello di arricchire le aziende, più o meno private, incaricate di misurare i campi elettromagnetici in giro nelle città (misurazioni peraltro superflue visto che le equazioni della fisica ci danno i valori dei campi una volta note le sorgenti), e tutte quelle incaricate di mettere «a norma» i vari impianti (solo per quelli dell’ENEL il suo presidente ha  stimato una spesa di 50.000 miliardi, cifra con la quale, ha ricordato il ministro veronesi, si sconfiggerebbe il cancro).

Il principio di precauzione è stato invocato anche per l’etichettatura dei prodotti agrobiotecnologici. Ma quelli fonte di rischi per la salute, non verrebbero comunque messi in commercio: come è stato per la soia ingegnerizzata con un gene della noce brasiliana che esprimeva una proteina causa di allergie in chi è allergico a quelle noci. Se sono ammessi alla commercializzazione è perché non presentano rischi aggiuntivi rispetto a qualsiasi altro alimento. L’etichetta avrebbe il solo effetto di lanciare messaggi discriminatori e allarmistici (e di arricchire le agenzie, più o meno private, incaricate di controllare se ci sono tre chicci transgenetici in un sacco di riso chiamato ogm-free).

Per concludere, penso che nelle questioni ove si possono ottenere risposte col metodo scientifico, non solo l’individuazione, ma anche la gestione dei rischi debba essere demandata alle commissioni di organismi scientificamente accreditati, ufficialmente riconosciuti e indipendenti da eventuali interessi economici attinenti al problema in questione. Altrimenti il vero rischio diventa quello di veder riscritte le leggi fisiche e i libri di medicina nelle aule dei Parlamenti prima, e dei Tribunali poi.

 

 

L’AUTORE 

FRANCO BATTAGLIA è docente di chimica –fisica presso il Dipartimento di fisica dell’Università degli studi «Roma Tre»