Duomo di Pisa

Scoppia la polemica per il nuovo altare

di Simonetta Bartolini

 

Era da tempo che la polemica cercava la strada per venire alla luce, almeno da quando il giorno di San Ranieri, protettore di Pisa, il Duomo della piazza dei Miracoli era stato mostrato ai fedeli nel suo nuovo assetto: un nuovo altare, nuovo ambone, via la balaustra che separava il presbiterio dalla navata, via anche i due angeli del Giambologna. Lì per lì lo sconcerto fu generale, alcuni protestarono con l’arcivescovo, ma tutto fu stemperato dalla contemporanea riapertura della torre pendente. Fino a quando Arturo Carlo Quintavalle non ha messo il dito sulla piaga, e ha gridato, dalle colonne del «Corriere della Sera», “il re è nudo”. L’effetto è stato devastante, anche perché con il nuovo ministro dei Beni culturali, Giuliano Urbani, e con un sottosegretario che risponde al nome di Vittorio Sgarbi, l’attenzione alle malefatte in campo artistico non avranno vita facile, né tantomeno godranno della generale complice indifferenza che per troppo anni ha imperato in Italia.

Il primo, e forse incolpevole, a reagire all’articolo-denuncia di Quintavalle è stato proprio l’autore dei due nuovi pezzi del Duomo di Pisa, Giuliano Vangi, che ha affidato ad una nota d’agenzia la sua costernazione e anche la sua ribellione alle aspre critiche ricevute, anche se, ad onor del vero, il «Corsera» puntava l’attenzione sull’incongruità con il contesto e non sulla qualità delle opere. «In tutte le epoche – ha dichiarato l’artista – è stato aggiunto qualcosa al Duomo di Pisa, anche nel Settecento e nell’Ottocento, senza alcun problema. Non capisco perché non si possa fare adesso con un segno del Novecento. Ho lavorato un anno studiando le proporzioni, ho fatto disegni, bozzetti, modelli, ho compiuto una scelta accuratissima dei marmi tra i più belli del mondo, ho girato mesi prima di trovarli e prenotarli in cava. Sono stato chiamato e mi sono impegnato al massimo. Io faccio sempre il mio lavoro con serietà e spero che gli altri facciano altrettanto».

Indirettamente gli risponde Vittorio Sgarbi che abbiamo sentito sulla vicenda: «Il problema non è l’opera di Vangi, scultore che peraltro apprezzo, ma il suo inserimento all'Interno di un contesto con il quale non si amalgama. E non si amalgama perché ormai si è rotto il continuum storico durato fino all’Ottocento per cui era possibile una stratificazione culturale svolta secondo un filo  che, nella variazione cronologica nonché di gusto, manteneva una sostanziale omogeneità». Quel continuum storico, cui fa riferimento Sgarbi, si interrompe di fatto con i grandi movimenti delle avanguardie storiche, con la rottura volontaria, al tempo certo necessaria, ma poi divenuta incomponibile, con il passato.

Naturalmente la prima domanda che si pone di fronte al caso del Duomo di Pisa è chi abbia dato l’autorizzazione  per un intervento di tale portata. Ce lo spiegano dalla Sovrintendenza Pisana , il dottor Malchiodi ricostruisce a grandi linee l’iter della vicenda: «la proposta è arrivata dall’arcivescovado per, per necessità liturgiche, ci hanno presentato un progetto che per competenza abbiamo inviato al Ministero dei Beni Culturali da dove è arrivata l’autorizzazione. Per quanto ci riguarda abbiamo solo posta la condizione che le opere tolte dall’interno del Duomo, e in particolare i due angeli del Giambologna, fossero destinati alla musealizzazione in tempi brevi, questo ci è stato garantito».

Dunque la questione passa al Ministero dei Beni Culturali e Vittorio Sgarbi ci racconta cosa è successo dopo l’articolo di Quintavalle: «Mi sono subito messo in contatto con Urbani che mi ha pregato di fare una lettera al Corriere  per spiegare la posizione del Ministero. Io sono assolutamente d’accordo con Quintavalle. Il problema è che questa è una ennesima dimostrazione della politica culturale portata avanti dal duo Veltroni-Melandri che ha permesso scempi indiscriminati come quello di Pisa. Noi ci troviamo a raccogliere un’eredità, in questo senso pesante e dobbiamo cambiare politica culturale, per garantire soprattutto la conservazione delle nostre opere d’arte. Attenzione, questo non significa – prosegue Sgarbi – che si debba fare un falò dell’arte contemporanea, tutt’altro, l’arte contemporanea è giusto che venga valorizzata in un contesto che le è consono, in una bella chiesa moderna. Qui si parla di questioni di opportunità, di un contesto che deve essere rispettato».

Dicono però che metteranno le opere del Giambologna in un museo, non è una sorta di “uccisione” dell’arte? «Certo, l’arte vive nel suo contesto e lì deve essere lasciata fino a che è possibile».

Già ma ora che il “danno” è fatto cosa pensate di fare: «Prima di tutto impedire che cose del genere si ripetano, poi studieremo i termini della questione pisana  per stabilire se è possibile riportare le cose allo status quo ante, ovviamente sono decisioni difficili che devono essere meditate e fatte con intelligenza».

Stiamo parlando telefonicamente con Vittorio Sgarbi, lui è in macchina, da Parma si sta recando alla Versiliana per il programmato incontro  con Paolucci e Alain Elkan, mentre stiamo parlando improvvisamente il blasonato  sottosegretario esclama, evidentemente all’indirizzo di qualcuno che è con lui, «Guarda, guarda che meraviglia!». Segue un attimo di silenzio. «Macché, non guardano!» aggiunge un po’ sconsolato. Lui invece continua a guardare, a guardarsi intorno, a fare la sentinella al nostro incredibile patrimonio artistico, e questa per tutti è una garanzia.