Il Sole 24 Ore 6 maggio 2001

LOUNG UNG

Un libro di memorie rievoca la tragedia della Cambogia sotto la dittatura comunista

Un’infanzia color rosso sangue

di Goffredo Fofi

 

Dietro un titolo deviante e generico si nasconde  una “memoria” storica significativa. Una ragazza ora residente negli Usa e militante dell’associazione che combatte le mine anti-uomo (insignita del Nobel per la pace nel ’97) vi evoca la sua infanzia tra i cinque e i dieci annidi vita, nella Cambogia martoriata dalla dittatura di Pol Pot e degli Khmer rossi.

Il rosso francese del titolo italiano viene da lì, ed è un rosso-sangue, non un rosso-rivolta o un rosso-speranza. (“Rouge” era anche il nome di un giornale filotrotzkista parigino degli anni post-’68, non un brutto giornale, non un gruppo di fanatici…). Vi sono due “rossi” nella storia del secolo: il rosso dell’aspirazione alla libertà e all’eguaglianza di milioni di persone, tradito quasi sempre dal rosso delle organizzazioni politiche cui essa si è affidata o che dal suo seno sono nate.

La vicenda narrata in questo libro evoca una delle esperienza più atroci del secolo di sangue appena trascorso, e la famiglia della narratrice non era certo di quelle che credevano nel rosso-rivoluzione tradito da Pol Pot. Il padre di Loung era capitano della polizia militare a Phnom Penh quando nel ’75 la guerriglia Khmer sbaragliò le forze del governo che aveva detronizzato Sihanuk, sua figlia certo non lo ignora, ma tende, comprensibilmente, a dare di lui un’immagine molto rosa; la sua famiglia era una famiglia privilegiata e ovviamente schierata nella Phnom Penh di quegli anni.

Altrettanto ovviamente, le esperienze tragiche che questa famiglia come migliaia di altre fu costretta a subire non hanno giustificazioni, e la crudeltà degli Khmer rossi di Pol Pot è tra gli episodi più orribili del fanatismo generato dalle ideologie dentro contesti di rivolta a regimi repressivi.

Si calcola che le vittime degli Khmer rossi siano state negli anni tra il 1975 e il 1979 due milioni di persone su una popolazione di circa sette milioni. Il contesto internazionale del Sud-Est asiatico di quegli anni, tra guerra del Vietnam e latente conflitto sino-americano, era indubbiamente caldissimo, ma il comunismo degli Khmer rossi vi portò dentro una propensione all’eccesso di netta matrice ideologica, e la figura di Pol Pot resta per questo esemplare  nel suo freddo, criminale estremismo. Pol Pot aveva studiato a Parigi, seguito i corsi di economisti e filosofi marxisti e intendeva strappare  nella sua patria le radici dell’”uomo vecchio” e impiantarvi quelle dell’”uomo nuovo”, liberato dai lacci del capitalismo e dell’egoismo. E non esitò di fronte a niente in questa operazione di “bonifica” che teorizzò e rivendicò ben presto anche i caratteri della “pulizia etnica” verso i cittadini cambogiani di origine vietnamita o cinesi, nei complessi incroci di cui il paese era ricco specialmente nelle sue aree di confine.

Uno dei cardini della sua teoria tradotta brutalmente in pratica fu la convinzione che la città (Phnom Penh, la capitale, la più grande delle città cambogiane, era al di sotto dei quattrocentomila abitanti) fosse la madre di tutti i vizi, e che la base dell’identità cambogiana dovesse essere trovata nella campagna, in forma di comunismo agrario da imporre ai contadini. Liberata Phnom Penh, ne deportò in massa tutti gli abitanti, che finirono vagando per le campagne trovando talora accoglienza in campi-lager, sempre sottoposti a uno spietato controllo da parte degli Khmer rossi.

Il loro arbitrio nell’oppressione e nel massacro dei profughi e dei sospetti di comportamenti e simpatie da “vecchio uomo”, superò ogni esempio dei precedenti poteri monarchici o militari. E’ questa storia che Loung Ung rievoca con una minuzie di particolari, da una fuga all’altra, nello sgretolamento progressivo della sua numerosa famiglia (padre, madre e otto figli), nell’insicurezza e nella fame, e infine, nel suo caso, nel tentativo di farne una  “donna nuova” in campi di formazione dei bambini e adolescenti strappate alle famiglie e addestrati a diventare  Khmer rossi, fedeli a Pol Pot, capaci di ogni ferocia nei confronti degli “uomini vecchi” e dei nemici vietnamiti.

Piccola saga familiare tra affetti e paure decisamente primari, la memoria di Loung Ung è puntuale e credibile, e lo spirito che la anima non è tanto quello dell’odio e della vendetta quanto quello dell’onestà documentativa, del dovere di ricordare perché la storia non abbia a ripetersi. Pagine intensissime la compongono, e le più terribili sono forse quelle che vedono i protagonisti – e migliaia e migliaia di persone come loro – alle prese con la necessità di sopravvivere cogliendo, catturando, divorando tutto ciò che la natura può offrire di commestibile, e quelle che descrivono di cosa può diventare capace una persona che vive nel terrore e nella fame. I campi sono in qualche modo, nel libro, una realtà secondaria poiché tutta la Cambogia era un enorme lager di sofferenze e di morte.

L’ultima parte del libro narra la fuga dei sopravvissuti verso il Vietnam e da lì, come “boat people”, verso l’America dove la narratrice trova infine tra mille difficoltà, accoglienza dentro gruppi e associazioni umanitarie al cui interno ha compiuto la sua crescita e opera oggi per ridurre il dolore di altri bambini come lei, di altre famiglie come la sua.

 

Loung Ung, «Rouge (First they killed my father)», traduzione di Lucia Cornalba , Le Vespe, Pescara 2001, pagg. 254, L.25000