Il Giornale 14 aprile 2001

Vietnam, fuga dal paradiso rosso

di Giorgio Gandola

 

«O la libertà o New York» gridava sulla piazza in terra rossa di Pleiku, nel cuore del Vietnam, mentre mandava in frantumi a pietrate le finestre del Comitato popolare comunista. Con altri quattromila contadini in rivolta la giovane Huo Kim era scesa dagli altipiani, aveva abbandonato il suo villaggio, si era presentata davanti alla polizia e alle autorità del regime per reclamare le terre espropriate alla fine della guerra.

«Rivogliamo le proprietà dei nostri avi, la nostra libertà, le nostre chiese» aveva urlato il popolo della montagna contro il regime di Hanoi. Per la prima volta, ventisette anni dopo la fine della guerra cara alla generazione del Sessantotto qualcuno ha osato alzare la voce contro uno degli ultimi paradisi comunisti. Era febbraio, ma questa volta il mondo dei media – pur sensibilissimo  ad ogni protesta del popolo di Seattle, ad ogni richiesta di José Bové, ad ogni fremito  del subcomandante Marcos, ad ogni struggimento jovannottesco – non ha sentito niente.

«O la libertà o New York», scandivano quegli uomini e quelle donne sapendo di rischiare  la pelle. Una frase stridente e non priva di una sua cupa ironia: allora, in quel Vietnam del generale Giap e di «Full metal jacket», sembra che New York fosse l’inferno e la libertà abitasse nei santuari dell’esercito popolare. Oggi Huo Kim e 23 amici le hanno ottenute entrambe. Sono negli Stati Uniti, l’Onu  li ha considerati rifugiati politici. E sono il simbolo di una lotta sanguinosa tra le foreste del Ratanakiri (la regione che confina con la Cambogia), ma sconosciuta nel resto del globo.

Da due mesi quegli altipiani, meta privilegiata dei turisti sbilanciati verso i misteri del Sud Est asiatico, sono praticamente off limits. Chiusi, blindati, pattugliati dall’esercito di hanoi. Lo sono dal giorno in cui, mentre calala sera, una strana onda silenziosa  esce dalla foresta e camminando rasente i muri s’impadronisce  di Pleiku. La città è un simbolo: fu una delle ultime ad essere abbandonate dall’esercito sudvietnamita e dai marines in ripiegamento.

«Lasciarono 107 aerei con i serbatoi pieni, cinquemila tonnellate di munizioni, trentamila di riso», scriveva Oriana fallaci. E aggiungeva: «Grazie alle piantagioni di caucciù, tè e caffè gli abitanti degli altipiani centrali esprimono meglio di qualsiasi altra regione l’economia dell’Honda, cioè il benessere rappresentato dal possesso di una motocicletta, di un camion, di un trattore».

I contadini delle terre alte invadono Pleiku. Sono armati di pietre, zappe, bastoni e si dirigono verso la piazza, verso la centrale di polizia e il palazzo del governatore mandato  da Hanoi. Raccontati così sembrano zapatisti, peones fuori dal tempo e dall’ideologia, indiani da crepuscolo del Far West. Chiedono libertà ma questa volta non combattono i latifondisti, gli aristocratici e il soldato blu, ma l’apparato comunista che li ha ingannati.

Il centro si fa deserto in pochi minuti, gli impiegati che tentano di fuggire dagli uffici del potere vengono bombardati di pietre. Racconta un testimone al quotidiano francese Libération : «Non avevano né volantini, né microfoni ma gridavano le loro rivendicazioni.

Rendeteci le terre, rendeteci le nostre chiese». Molti di loro aderiscono al Fulso (Fronte di liberazione delle razze oppresse), un’associazione anticomunista  che chiede da decenni la restituzione delle colline degli antenati trasformate in piantagioni di caffè per decreto.

I montanari chiedono di poter praticare liberamente il loro culto religioso, un protestantesimo molto lontano da quello definito «patriottico» e controllato dal partito. Per poter dire messa  sugli altipiani, i religiosi sono costretti a mascherare da stalle le chiese. Ma invano. E’ sufficiente un rastrellamento di polizia perché icone e paramenti sacri  vengano briciati.

Pleiku cade per qualche giorno in mano ai rivoltosi, poi Hanoi reagisce. Manda i blindati, ma ricordandosi degli insegnamenti della guerriglia contro i berretti verdi i contadini allagano le strade e disseminano i percorsi di trappole. Allora il Partito dà ordine di riconquistare la città con gli elicotteri. I soldati urlano nei megafoni: «Tornate ai vostri villaggi o vi spariamo». In molti ubbidiscono ma un centinaio di persone viene arrestato e i presunti leader scompaiono nel nulla. L’esercito batte le campagne, a colpi di donazioni di riso viene a sapere chi ha partecipato all’azione dimostrativa e opera deportazioni di massa , secondo una fonte religiosa, l’armata sorprende otto capi durante una riunione e li uccide.

Le frontiere con la Cambogia vengono chiuse, i soldati battono le foreste, ma la piccola cellula libertaria sembra bene organizzata. Quel giorno a Pleiku, i dimostranti si sono mossi simultaneamente da una trentina di villaggi, cosa non facile da improvvisare. Hanoi accusa la «Montagnard foundation» (un piccolo gruppo di vietnamiti-americani che fa base a New York) di tirare le fila della rivolta.

Tutto sembra di nuovo assopirsi. Ma una settimana fa si sparge la notizia che a Mondolkiri, in Cambogia, sono stati arrestati 24 fuggiaschi vietnamiti. Qualcuno va ad approfondire: sono Huo Kim e i suoi amici, quelli che in prima fila gridavano in faccia al ritratto di Ho-Chi-Min «Libertà o New York». Hanoi si affretta a chiederne la restituzione per poter proseguire con più celerità la «vietnamizzazione». Ma l’Onu decide di proteggerli e offrire loro un biglietto per Manhattan. Il primo cheeseburger ha sempre un sapore speciale.

 

 

UN POPOLO INDOMITO

Le minoranze degli altipiani hanno una lunga tradizione di resistenza al potere centrale. Nella regione occidentale che abbraccia le provincie di Kontum, Gia Lai e Dal Lac, i «montagnard», come li chiamavano gli etnografi dell’Indocina francese, sono circa un milione, suddivisi in una decina di etnie.

Vivono in villaggi di una cinquantina di famiglie, si sostentano con caccia e pesca. Evangelizzati dai pastori americani, molti contadini sono diventati protestanti, ma la maggioranza sono animisti.

Nel 1964 i «montagnard» creano il Fulro (Fronte unito di liberazione delle razze oppresse), che batte prima contro l’esercito sudvietnamita  del regime di Saigon, poi, accanto alle truppe speciali americane, contro i comunisti vietnamiti. I «montagnard» perdono 250.000 uomini.

Dopo la caduta di Saigon, il 30 aprile 1975, l’assistenza americana al Fulro si interrompe. Da allora, il nuovo regime comunista tenta di «vietnamizzare» con la forza queste minoranze, anche con l’imposizione della lingua vietnamita.