Il Giornale 2 luglio 2001
INTELLETTUALI
di Roberto Gervaso
La guerra era appena finita e Mario Alicata, guru culturale del Pci, testa fina e longa manus del «Migliore» nel sancta sanctorum dell’intellighensia postfascista, già fascistona, convocò in piazza Carlo Erba, quartier generale milanese della Mondadori, il suo fondatore. Molti anni dopo, in una trattoria romana, Arnoldo raccontò a me e ad Augusto Guerriero, amico di entrambi, di essersi presentato all’appuntamento come davanti ad un plotone di esecuzione. Non che temesse per la vita: ma per le sue sorti di editore, sì.
In Italia tirava una brutta aria, di cui avevano fatto le
spese il vecchio senatore Agnelli, il suo braccio destro Valletta, il conte Cini
e altri mogol dell’industria, accusati di compiacente e non disinteressata
tresca con il defunto regime. Accuse demagogiche infondate, che il presidente
del Consiglio Ferruccio Parri, uomo di molto fegato e di poco cervello, aveva
stoltamente avallato.
Mondadori era pronto al peggio e quando, dopo una lunga
riunione, Alicata gli disse: «Lei, presidente, resterà al suo posto, Arnoldo,
un po’ incredulo e un po’ imbarazzato annuì. «A noi – aggiunse il gerarchetto
del Bottegone – basterà nominare il direttore della narrativa, della poesia e
della saggistica».
Arnoldo, stavolta, non solo annuì, ma anche capì. Capì che
la linea editoriale sarebbe stata decisa altrove e da altri: nella sede del Pci
e dal suo apparato. Un apparato ligio alla volontà e agli ordini di Palmiro,
che si era appena cucito sul petto i galloni di guardasigilli, ponendo, fra
l’altro, un’ipoteca (e che ipoteca) sulle nuove leve della magistratura.
Un grande disegno, diabolico e geniale, ispirato alla cinica
e lungimirante lezione gramsciana: mettere le mani, e anche i piedi, sulla
cultura, conquistare la società civile e quella borghesia opportunista
trasformista e arrivista, che dopo aver per vent’anni osannato Mussolini, ora
non chiedeva di meglio che buttarsi fra le braccia del nuovo Principe, il
«sovietico» Togliatti.
Un grande disegno che darà grandi frutti, non importa se tossici o velenosi. Vi aderiranno intellettuali e artisti «di ogni ordine e grado», spesso di discutibile moralità e non sempre di alto lignaggio. Un carrozzone di ex pupilli dell’esecrato tiranno e della sua non meno esecrata corte. Tromboni pifferai e viole d’amore che, per almeno quattro lustri, avevano plaudito al verbo e alle gesta del «puzzone». Lecchini d’oro e d’argento, cicisbei, menestrelli e maggiordomi, aedi dell’impero e bardi dell’asse. Una genia pittoresca e tartufesca di camaleonti, che avevano voltato gabbana non per convinzione ma per convenienza.
Nel ventre molle del più duro Partito comunista occidentale,
scrittori, giornalisti, pittori, scultori, architetti, musicisti si rifecero
una verginità intingendo le penne, i pennelli, gli scalpelli e le bacchette
nell’inchiostro rosso e riaguzzando i denti. «Tutti per Uno e Uno per tutti»
diventò il loro nuovo e vecchissimo
motto.
L’«Uno» era Togliatti che in cambio di una devozione spinta
fino, e oltre, il servilismo li avrebbe ricompensati con stipendi, benefici,
prebende, sinecure, premi e riconoscimenti. Un do ut des che prostituiva
l’intelligenza (di coloro che l’avevano) all’ambizione. Un mutamento di gabbana
e di rotta vergognoso, ma di cui nessuno arrossì.
Caduto il fascismo, i nostri chierici si schieravano con il
nuovo sacerdote. E non un sacerdote qualunque: un pontefice massimo , munifico
e salvifico, che non solo gli garantiva la ribalta, ma con un cenno, una parola
cancellava il loro passato, legittimando la conversione e redimendoli da una
milizia fosca e losca. Una milizia che gli era stata imposta ed essi, per
sbarcare il lunario e per quieto vivere, avevano colpevolmente subito. Se ne
avesse avuto la forza, a Starace e alle sue tronfie pagliacciate qualcuno avrebbe forse detto di no. Ma
quella forza gli era mancata. Com’era mancata
ad amici e colleghi. Così, finita la guerra, tutti sull’arca del nuovo
Noè venuto da Mosca.
L’egemonia culturale della sinistra nacque così e per più di
mezzo secolo, fino alla débâcle del 13 maggio, ha fatto la voce grossa,
dettando legge, diffamando e infangando l’avversario. Le urne primaverili, il
trionfo del Polo e il ritorno a Palazzo Chigi del Cavaliere l’hanno messa alle
corde, assestandole un destro fatale.
Era ora, dopo dodici anni, che il Muro di Berlino crollasse
sulle spalle non di chi l’aveva abbattuto, ma di chi idealmente e ideologicamente aveva contribuito a innalzarlo. La
storia non sarà maestra di vita, ma i conti, prima o poi, li presenta. Con
tanto di interessi e senza più proroghe e indulgenze. Pagamento cash.