Il Giornale, 02-07-02

 

L’ultimo Solgenitsin

La leadership ebrea dell’Ottobre Rosso

di MASSIMO CAPRARA

 

Il Gran Rabbi di Odessa, Lev Davidovic, flssò ad uno ad uno i fervidi volti degli uomini del Politburo sovietico riuniti in una stanza disadorna del fastoso Cremlino, poi esclamò: “Siete assai più di dieci israeliti maschi potete quindi recitare un minyan, la preghiera degli adulti al nostro dio Yahveh, Colui che è. Tanti erano, numerosi e influenti, gli ebrei bolscevichi a capo della Rivoluzione del 1917 che lo zio di Trotzkij, quando ad essi fu presentato dal nipote, individuò, e riconobbe. Erano, infatti, ebrei anche Zinovev, Kamenev, Sverdlov, Radek, Litvinov, Joffe, tutti protagonisti dell’Ottobre Rosso, oltre a moltissimi funzionari del neonato Stato autoritario, della sua polizia segreta e del suo temibile braccio esecutivo, la Ceka. “Nella lunga e caotica storia umana, il ruolo svolto dal popolo ebraico - poco numeroso ma energico - è innegabile, anzi considerevole. Questo vale anche per la storia della Russia. Ma per tutti noi, questo ruolo rimane un enigma”. Così Aleksandr lsaevic Solgenitsin, premio Nobel nel 1970, scrive nel suo primo dei tre tomi dal titolo unitario Deux siècle ensemble edito recentemente in Francia da Fayard e già esaurito dopo quattro edizioni. Egli aggiunge: “È un enigma per gli stessi ebrei. Questa missione singolare ha dato ad essi tutto fuorché la felicità,. Essi hanno costituito “una forza rivoluzionaria importante - prosegue Solgenitsin, - ma sembra che abbiano dimenticato il saggio consiglio che Geremia rivolgeva agli ebrei deportati in Babilonia: cercate la pace per la città nella quale vi ho deportato; pregate Yahveh in suo favore, perché dalla sua pace dipende la vostra”. Il versetto 29-7 di Geremia, citato dall’ottantaquattrenne inquieto e trasgressivo scrittore di Rostov sul Don, ha un sorprendente, deliberato, voluto tasso di attualità. Provocato, provoca.

La plurisecolare convivenza con la “tribù di Mosè” è tuttora uno dei più scottanti problemi della storia postsovietica e, in genere, di quella di moltissime nazioni plurietniche d’Europa, del Medio Oriente e del mondo. Solgenitsin vuole toccare uno dei nervi più scoperti e mirabili, una delle spine delle passate e attuali vicende umane: non per avventura intellettualistica o saggistica d’esibizione,

ma per un sofferto interrogarsi e scrutare le ragioni. se ve ne sono, d’un inumano conflitto. Un cercare, un cercarsi “sul filo del rasoio” temerario e spregiudicato. Il proposito che mi guida, scrive l’autore “consiste nel cercare tutti i punti d’una mutua comprensione, tutte le vie possibili che, allontanata l’amarezza del passato, possano, condurci verso l’avvenire”.

“Primo geniere che mette piede in un campo minato” Solgenitsin procede animosamente senza cautele e pregiudizi nell’uno o nell’altro senso, indagando sui “reciproci rancori) che hanno contrapposto e contrappongono uomini e fatti all’interno stesso del mondo occidentale, nel suo cuore più antico e sensibile, le sue radici più appassionate, - quelle dell’antisemitismo e delle “colpe ebraiche”. La prima è un’atroce verità ricorrente della storia, le seconde una sortita dialettica e polemica, un contropiede azzardato, senza mai essere una giustificazione.

Questo primo volume copre il periodo che va dalla fine del XVIII secolo alla vigilia della rivoluzione del ‘17, dalle guerre tra la Russia di Kiev e il popolo khazaro di fede ebraica, come quello di Crimea, sterminato da Tamerlano. Solgenitsin non giunge ancora all’oggi, all’antisemitismo criminale di Stalin il caucasico di stirpe osseta che fa della lotta agli ebrei il distintivo del suo programma, della sua aberrazione antireligiosa. Solgenitsin ne vede però i presupposti: in un imperdonabile peccato che egli addossa agli ebrei. Quello di aver fatto precipitare l’impero zarista visto come garante della convivenza civile e di una possibile pacifica evoluzione del Paese, a fronte dell’apocalittico caos e auto conservazione della rivoluzione bolscevica.

Solgenitsin non minimizza il lungo elenco delle violenze del popolo russo e del suo Stato “scandalosamente impotente”, delle sue persecuzioni annientatrici, come il pogrom del 7 aprile 1903 a Kichinev in Bessarabia. Esso provocò, in un assalto deliberato e programmato con la complicità dello stesso Governatore imperiale, l’uccisione di 49 ebrei, 586 feriti e 1.500 case saccheggiate e messe a ferro e fuoco. Il successivo processo presso il Tribunale d’appello della Camera criminale di Odessa non fu che una “mascherata”, una parodia di giustizia. Gli ebrei di Russia ne ricavarono soltanto un profondo dolore, ma provarono anche “qualcosa che fece quasi dimenticare il dolore: l’onta”.

Esiste nella cultura etnografica russa un concetto sorprendente e paradossale. La chimera, secondo lo studioso Lev Gumiliov, morto nel 1992, nasce realisticamente dalla mescolanza di un gruppo etnico trascinante e quindi maggioritario con un gruppo minoritario etnicamente più nobile ma irrequieto, non coerente con se stesso, autopunitivo, cioè ebraico. Pone, per Solgenitsin, avventurosamente, una mostruosa combinazione culturale e pratica fu presente nel criminale corso della rivoluzione bolscevica un innesto innaturale, una goccia di sangue altro e opposto, un combinato esplosivo, una ferita, una rivolta conto sé. Può una chimera servire a documentare una tragedia della storia, quella comunista? Solgenitsin apre un altro caso. Lo fa, come al solito, coniugando tradizionalismo ed evoluzione.

Le antinomie, le incoerenze, i contrasti inspiegabili sono materia incandescente per l’intellettuale russo, che ha pubblicato opere d’una materialità corposa e perentoria, come Una giornata di Ivan Denisovic o Divisione Cancro e ancora si ingegna a trovare un filo per penetrare nel mistero innaturale del terrore staliniano.