Il Giornale lunedì 27 agosto 2001
di Giuseppe Sermonti
Le cronache
estive ci annunciano che è di moda negli Usa una nuova droga. Si chiama «salvia
dei veggenti». Dà l'illusione di viaggiare nello spazio e nel tempo, di assumere
l'identità di altre persone, è usata nei riti magici dei discendenti degli
indiani Mazatechi, forse non dà assuefazione e il Dipartimento antidroga di
Washington sconsiglia vivamente di farne uso. So di concorrere, con questo
trafiletto, alla sua diffusione, ma voglio fare di peggio: voglio insinuare
l'idea che drogarsi non sia poi cosi male, e che, anzi, raggiungere la felicità
per via biochimica sia perfettamente in regola con lo stile di vita corrente.
Parlando seriamente, anzi gravemente, per quale solida ragione dovremmo
preferire la felicità raggiunta con il sacrificio o con il cilicio a quella
farmaceutica? Nella filosofia corrente non c'è alcun principio che condanni la
felicità biochimica o artificiale. Al contrario, essa appare più scientificamente
accreditata, più egalitaria, più politicamente corretta e più
«centrosocialista» di quell'altra felicità dei buoni, che sa di sacrestia, di
vecchie basiliche e di tempi passati. Mi ha colpito una risposta di Walter
Bonatti a una domanda di Piero Angela sull'uso degli elicotteri per raggiungere
le vette montane. «Gli elicotteri hanno rovinato tutto». Le vette raggiunte a
motore non sono più vette. L'alpinista o lo scalatore faticano, soffrono,
rischiano non per masochismo o per gusto del sacrificio. Lo fanno perché
quell'impegno dà maestà alla montagna, quel freddo rende sublime l'altitudine,
dà significato all'impresa, rende umana la grandezza e grande l'uomo. Penso che
lo stesso valga per un'isola lontana raggiunta con un jet. Non è più lontana,
non è più un'isola, salva magari l'illusione dei primi giorni. I telefonini
portatili (utilissimi, prego) stanno dissolvendo quel po' che c'era rimasto di
spazio, di distanza, di solitudine, di compagnia. Che dire dei figli
artificiali? Sarebbero figli? Sarebbero uomini? Un precetto antico insegna a
raggiungere i risultati per le loro vie, con giusta fatica e onestà, con stile.
Insegna che conta più la via che l'esito, che la vita è un percorso e va
riempito di significato. In modo più potente, il Santo Francesco ci ha invitato
a considerare vera letizia la padronanza di se stessi. La droga e il suo
«sballo» sono proprio l'arte del perderla. Purtroppo sono proprio i più giovani
che si lasciano condurre verso gli abissi dove in tempi antichi osavano solo i
veggenti. Salvia divinorum è appunto
il nome della nuova droga verso la quale vengono invitati I più sprovveduti,
educati ad irridere le parole del Poverello, mentre in ogni immagine che li
raggiunge attraverso i media vengono loro insegnati la goduria e la violenza
facile e il furbo principio che il denaro non ha odore. Sono convinto che il
primo dovere umano (da cui discendono tutti gli altri) sia quello di rispettare
la propria dignità, esercitare cioè la padronanza su se stessi. Dovere che
nessuna legge può prescrivere e controllare e che si oppone a un principio ben
in voga: di me stesso faccio quel che mi pare! («La pancia è mia» delle
femministe). La persona che ci è stata affidata, per miracolosa concessione,
deve essere rispettata. Di questo principio, romano e cristiano, è fatta la
nostra civiltà, e da esso discende il rispetto per il prossimo. O preferiamo
concludere con Jean Rostand, che «l'uomo è un miracolo senza interesse»? La
droga è il simbolo di un'altitudine raggiunta senza sforzo, di un precipizio
affrontato senza preparazione, mentre una voce faustiana ti esorta a «non
tremare davanti al baratro, (...) a risolverti sereno al gran passo, e sia pure
col pericolo di dissolverti nel nulla».