Il Giornale martedì 12 giugno 2001

MAGGIOLINI

«La nostra cristianità è morta. L’Italia è da evangelizzare»

di Andrea Tornielli

Il suo libro provocatorio, intitolato Fine della nostra cristianità (Piemme, pagg 240, lire 25 mila) ha fatto  discutere già prima della pubblicazione, suscitando reazioni negative  anche da parte di chi non l’aveva ancora letto. Alessandro Maggiolini, vescovo di Como, è una voce fuori dal coro nella Conferenza episcopale italiana: la sua è un’analisi sofferta e cruda sullo stato del cattolicesimo nel nostro Paese.

Si aspettava tante critiche al suo libro specialmente da alcuni ambienti cattolici?

«Non mi aspettavo nulla. Ho steso il libro come un obbligo di coscienza e perché me lo sentivo dentro come una puerpera la monta del latte. Registro delle incomprensioni che creano turbamenti forse fuori luogo. Non parlo di un cristianesimo che finisce; parlo di una cristianità che è finita, ed è cosa diversa: cristianità è il cristianesimo vissuto in un contesto culturale preciso. Chiesa apostolica della prima generazione dopo cristo. Chiesa delle persecuzioni e dei martiri. Chiesa del monachesimo. Sacro Romano impero. Ordini mendicanti. Riforma cattolica. Eccetera. Son tutti modi in cui l’essenza del cristianesimo  - che non esiste in sé, allo stato puro – trova possibilità di rendersi concreto dentro la storia. La Chiesa permane, comunque; viene tenuta salda dalle robuste mani del Signore».

Per questo lei insiste nel dire che il cristianesimo non muore, mentre possono morire delle cristianità?

«Uno di questi schemi culturali animati da un poco di fede religiosa, è quello che stiamo lasciando alle spalle».

Non pensa di apparire  nostalgico per una «cristianità» che ha concluso la sua funzione storica?

«Non me lo sono chiesto. So che, quando sarà totalmente cambiata la situazione, forse avremo perso dei valori notevolissimi come soprattutto quelli umanistici con ascendenza ebraica, greca e cristiana, legati alla nostra civiltà  italiana e, in generale,  alla vecchia Europa e al Nord America. E si dica che è poco. Posso soffrirne? Mi chiedo se il nostro Continente, con la cultura marcescente che lo invade, meriti ancora di esistere. C’è dell’altro».

Che cosa?

«Il rischio è che il cristianesimo non riemerga quasi più nella nostra vicenda umana. Non è la prima volta che Chiese locali fiorenti scompaiono  dalla mappa del cattolicesimo. Si pensi alle comunità suscitate  da San Paolo: Corinto, Efeso, Colossi, Tessalonica, ecc. Si pensi alle Chiese Sud-mediterranee del IV e V secolo: Alessandria, Cartagine, Tegeste, Ippona ecc. Che cosa rimane? Ruderi. Mi illudo che una certa nostalgia sia almeno segno di un mesto addio».

La sua è una diagnosi un po’ troppo pessimista…

Vorrei che lasciassimo a lato la questione del pessimismo. Più di qualche devoto mi ha scritto che prega perché io conservi almeno la fede, avendo – a suo giudizio – io già perso la speranza. Ovvio, sono gradite le preghiere. E tuttavia mi domando se la speranza debba per forza far inforcare gli occhiali rosa per analizzare la situazione in cui si trova».

Qualcuno l’ha accusata di paura.

«Certo, esiste la paura di chi annota la gravità di un quadro culturale e religioso. Una paura forse più acuta, tuttavia, esiste quando non si trova il coraggio di leggere un contesto umano e religioso in modo spregiudicato: con la spregiudicatezza che proprio la fede permette».

Ritorniamo al problema della nuova cristianità.

«Il cristianesimo, proprio perché religione del Verbo di Dio incarnato e redentore, lungo tutta la sua vicenda storica si è sforzato di rendersi concreto, umano, immediato, palpabile. Senza pretendere di esaurire il mistero in nessuna di queste incarnazioni. E ancora: può darsi che delle persone particolarmente scaltre e robuste, da un punto di vista intellettuale e globalmente umano, riescano a mantenere e ad accrescere la fede dentro una ostilità o una indifferenza nei confronti della rivelazione divina. La Chiesa, però, deve pensare anche ai semplici: ai poveri, alla gente comune che lavora otto ore al giorno  e non ha una biblioteca fornitissima a disposizione. La Chiesa è un popolo con tutto ciò che di esaltante e di deludente ha questa denominazione: un popolo che include anche me, perfino me. Occorre proteggere e non soltanto stimolare la fede. Non ne provo vergogna, pur prestandomi al confronto con persone di altra estrazione di pensiero e di vita».

Un simile intento non sa di integrismo?

«Il rischio dell’integrismo esiste, quando ci si impegna evangelicamente. Non quando ci si limita a discettare. Ma occorre pure che le comunità cristiane del futuro si collochino e rispettino dentro il quadro di – e promuovano – una sana laicità di rapporti: laicità che riconosca la persona umana e permetta – quasi susciti – un autentico pluralismo. Pluralismo di originalità culturali che si misurano tra loro».

Lei non sembra condividere il giudizio positivo di gran parte dei suoi confratelli sull’influsso «mediatico» del magistero di Giovanni Paolo II. Perché?

«Io pure apprezzo la presenza del Papa nell’informazione, soprattutto in tv. Il sospetto che mi viene è che la realtà e l’attività quotidiana delle nostre Chiese non corrisponda alle illusioni che può provocare l’esposizione di Giovanni Paolo II nei mass-media».

Non è eccessiva la preoccupazione per il dopo-Wojtyla manifestata nel libro («che Dio ce la mandi buona»)?

La mia analisi non prende nemmeno lontanamente in esame il Successore di Giovanni Paolo II, in una sorta di toto-Papa. Rilevo soltanto che la figura del Pontefice sul piccolo schermo può essere oscurata semplicemente azionando un interruttore. E comunque, da valutare è il lavoro faticoso e lieto che si compie nella Chiesa della ferialità. Nella prassi normale ho l’impressione di qualcosa di convulso, di sfibrato, di non esattamente centrato. Centrato su Gesù Cristo, mentre si discute a non finire di strutture e di istituzioni ecclesiali, e ci si logora e ci si sfianca nell’organizzare manifestazioni straordinarie (“manifestazioni”, quale brutta parola per un rapporto religioso di amore)»

Lei confessa di aver provato disagio per il «mea culpa» giubilare. Perché?

«La questione è complessa. Mi chiedo perché mai, nel senso precisato dal Papa, una tale pratica non si sia mai data nel tempo della Chiesa: 2000 anni, non sono un batter d’occhio. Mi chiedo ancora se abbia molto senso – teologicamente parlando – immaginare una responsabilità diffusa di colpe che non possono se non essere personali. Vi è poi il dogma della santità della Chiesa, la quale Chiesa include anche peccatori: noi pure. Alla fine, per chi crede, il soggetto più vero della Chiesa è Gesù Cristo. Qui mi si confondono le idee. Alla fine, però, riconosco un certo messaggio di umiltà da parte del Papa. farà certamente del bene soprattutto agli estranei o agli ostili alla fede. Se questi non saranno maggiormente indotti ad equivocare sul mistero della presenza del Signore  Gesù tra noi. Ed è ciò che temo».

I documenti papali ed episcopali oggi sono troppi?

«Un dilagamento. Una colluvie. Una metastasi che, tranne eccezioni, non viene nemmeno registrata dai fedeli. Ho paura che vada a grandi passi verso una sorta di paradosso. E ci si illude di aver risolto i problemi perché si stendono dei testi. Ci vuol altro. Soprattutto non si intravvede una sintesi ordinata e robusta negli innumerevoli interventi magisteriali. Ai diversi livelli».

Lei ha partecipato ai lavori per la stesura del Catechismo della Chiesa cattolica. Eppure nel libro sembra non disdegnare i vecchi formulari che oggi gli esperti di catechesi vedono come fumo negli occhi. Perché?

«Perché proprio il Catechismo della Chiesa cattolica ha le sue brave sintesi. E poi perché occorrerebbe una esposizione assai semplice ed essenziale non solo peri bambini o per i ragazzi, ma anche per la gente comune. Non riesco ad accettare che si imponga il mal di testa o l’esaurimento nervoso per accogliere la buona Notizia della Salvezza. Entro certi limiti, difendo anche la memoria, sissignori. Ciò che non si capisce al momento, lo si capirà, lo si gusterà, più avanti. Sogno un Concilio che metta in otto/dieci cartelle ciò che è diluito in innumerevoli pagine: ciò che si deve credere e fare».

Valutando l’applicazione della riforma liturgica post conciliare, non le pare di assumere qualche venatura lefebvriana?

«Manco per sogno. Mi si lasci esprimere la mia delusione e la mia irritazione per certe liturgie che sembrano recite a soggetto, dove non si sa quando si inizia e – ancor meno –quando si termina, e si coglie d’istinto l’umore nero o allegro del celebrante, e si è alla mercé di eccentricità che devono essere subìte e nelle quali non si può metter mano. Per non parlare di gestualità stravaganti, di canzoni desolanti,  di chiacchiericcio continuo anche da parte del celebrante. Urge eleganza anche per i poveri. Si impone una calma ieratica. Si desidera musica che aiuti a pregare. Si invoca qualche tappa di silenzio. E poi: al centro dell’assemblea sta il celebrante come talk show o Gesù Cristo nell’Eucaristia? Ci si decida se si crede ancora, o no, alla Presenza reale».

Davvero teme  che, fra poco, anche noi italiani saremo come «negretti» o «indios» da catechizzare?

«Lo credo davvero. Negretti coltivati e disinvolti. Indios eruditi e manierosi. Ma quanto a conoscenza del cristianesimo, spesso anche intellettuali di professione ignorano il catechismetto. Abbiamo rovesciato addosso alla gente una predicazione sempre più forbita e vacua. Adesso gli stessi frequentanti della Chiesa non sanno, talvolta, dove guardare per dialogare con Cristo. Penso davvero che una nuova evangelizzazione debba prendere l’avvìo dai concetti più fondamentali ed elementari del cristianesimo. Quanto poi ad attuare nella vita il Vangelo, si sa che siam tutti dei poveri diavoli. Ma è già gran cosa il sapere di aver bisogno di misericordia, mentre spesso trionfa tra noi il mito dell’innocenza o del determinismo».

Nel libro lei non sembra fare molto affidamento sul dialogo ecumenico e sul dialogo interreligioso. Perché?

«Conto moltissimo sul dialogo. Purché questo non si riduca a buone maniere e stiracchiamenti di termini per cui si arriva a comunicato congiunti che ciascun firmatario interpreta come vuole. Non riesco a nascondere, per esempio, il disagio che molti semplici fedeli hanno provato di fronte al raduno interreligioso di Assisi del 1986, al biglietto infilato dal Papa nelle crepe del muro del pianto, alla visita di Giovanni Paolo II alla moschea e cose simili. Ho troppo rispetto per l’originalità degli altri. E la fede cattolica non si combina eccessivamente con il “pensiero debole”. Preferisco scintille nel pieno riconoscimento della dignità dell’altro. La verità si impone da se stessa con forza e soavemente. Non ho qui spazio per esprimere un’altra mia perplessità. La frase secondo la quale bisogna guardare più a ciò che unisce che a ciò che divide, mi semplicemente equivoca. Può esprimere il bon-ton, o trarre con sé nientemeno che delle insensatezze».

Parlando dei temi della morale sessuale lei scrive che quella del Papa in materia «dà l’impressione di una fissazione». La Chiesa a suo avviso, interviene troppo su questo argomento?

«No. Dico che il Papa “dà l’impressione”, mentre in realtà la morale sessuale è un crocevia della impostazione etica a cui sempre ci si rifà. Senza assolutizzare la morale che così diverrebbe ostica, insopportabile. Ha bisogno di premesse, di un  contesti dialogico e religioso per essere colta come modo di amare: MI pare che proprio la cultura di oggi sia monocorde e quasi monomaniaca riguardo a una sessualità svigorita, se non proprio depravata. Magari perché subdole agenzie di consenso illudono  di far raggiungere una libertà totale in questo campo, per asservire il consenso in altri settori. E si ammetta pure che le colpe in questo campo sono tra le più frequenti. Lo annotava già San Tommaso, senza neppure soverchia fantasia».

I cattolici si trovano di fronte a un contesto sempre più secolarizzato, anche dal punto di vista delle norme e delle leggi. Che cosa intende dire quando nel libro scrive che la «santità non può essere imposta per legge civile»?

«Intendo distinguere tra morale personale e comunitaria, da una parte,  e legge positiva civile, dall’altra. Quest’ultima deve valere per la normalità dei cittadini. A condizione che non ne vìoli i diritti fondamentali. Si pensi alla legalizzazione dell’aborto, che non può essere considerata come un vulnus alla democrazia».

Esprima con poche frasi sintetiche e sincere il suo giudizio sullo stato della fede e della Chiesa in Italia.

«O si ha un sussulto di conversione, o si verrà travolti dal “non senso”. I credenti si rendano conto: in ginocchio e alla stanga. Anche per non tradire le attese che i miscredenti, i non credenti, gli atei dichiarati ecc. hanno diritto di presentare. Chi decide di andarsene dalla Chiesa  dovrebbe sbattere la porta in un impeto di ribellione, non trovarsi fuori per noia, sbadigliando. Che dire, poi, quando sono i cattolici a bramare per omologarsi al mondo? Per che cosa invocheremo la misericordia di Dio? Il rischio è di sostituirci a Cristo, il quale, poveretto, non sarebbe stato erudito come noi. Potremmo non meritare nemmeno il martirio: una scrollata di spalle basterebbe a liquidarci. L’irrisione al posto della persecuzione. E la beatitudine dove la troveremmo? Senza bramare le difficoltà, si capisce».