Il Giornale sabato 25 agosto 2001
di Antonio Socci
Giampaolo Pansa è un omone schietto e ancora vigoroso
seppure canuto (forse con qualche intima malinconia). E’ uno di quelli che le
prende senza farne un dramma perché ama
darle. Sbaglia come tutti, ma sa anche riconoscerlo. Cucina sull’Espresso – di cui è condirettore – la
sua prosa saporita: in anni lontani raccontò con quadretti strepitosi i
congressi dei partiti della prima Repubblica. La sua pittoresca penna di solito
è feroce con il centrodestra ed è
dichiaratamente schierata sotto l’Ulivo e la Quercia.
Tutto questo rende ancora più credibile e lodevole il fuoco
di artiglieria che da due mesi, quasi solitario, Pansa ha scatenato contro la
dissennata deriva piazzaiola della sinistra. Altre «firme storiche» del
giornalismo schierato a sinistra, come Giorgio Bocca, non hanno avuto il suo
coraggio.
Sull’ultimo numero dell’Espresso
– quello uscito ieri - Pansa ha
sghignazzato sull’antiglobal don Vitaliano Della Sala, prete molto ben
pettinato che dice di volere la pace «ma non senza coglioni». Può star
tranquillo, l’unica cosa che non manca, di questi tempi, sono i coglioni.
Ma nelle settimane precedenti Pansa aveva fustigato
personaggi ben più rilevanti. Alla vigilia del G8 di Genova, fulminò come
«grottesca» la decisione (poi rimangiata) dei Ds di «scendere in piazza contro
l’Impero del male chiamato G8», dopo che proprio i governi diessini l’avevano
voluto e organizzato.
Pansa ha ripetutamente denunciato l’irresponsabile deriva verbale
di certi Capitan Fracassa come Luca Casarini («l’illegalità di massa è
fondamentale per cambiare le cose, fin dai tempi della gente che assaltava i
forni») e Fausto Bertinotti che fa da apprendista stregone della piazza perché
«il suo partito è uscito con le ossa rotte dal voto del 13 maggio» essendo
precipitato dall’8,6 al 5 per cento.
La sua penna al curaro ha demolito Vittorio Agnoletto,
quell’«omino asciutto» le cui «doti primarie» sono: «un fondamentalismo senza
argini, un assoluto cinismo tattico e una formidabile abilità mediatica di
spacciare il falso come se fosse il vero», come quando ha diffuso una «bugia
irresponsabile» secondo la quale a Genova c’erano «400 giovani dispersi di cui
non si sa più nulla».
Il fustigatore Pansa, a questo proposito, ha saputo porre le
domande più scomode: «Perché Giuliani stava in quella piazza con il volto
celato da un passamontagna. Perché insieme
a una marea di giovani come lui, che non erano del blocco nero, è andato
all’assalto furibondo della Land Rover dei caramba. Perché stava per scagliare
un estintore dentro la camionetta ormai semidistrutta e con tre ragazzi in
divisa a rischio evidente di morire linciati».
Bordata finale contro i Ds: «I Ds sembrano alla frutta.
Quello che fu il partito della fermezza contro la piazza violenta, adesso si fa
sfottere dal rifondista Nichi Vendola. I giorni di Genova hanno visto la
Quercia segare da sola il proprio tronco. Siamo in tanti ad assistere con
angoscia a questo suicidio accelerato».
In seguito ha bocciato la posizione assunta dalla sinistra
in Parlamento: «All’accertamento della verità non giova il parallelo assurdo
fra i fatti più cruenti di Genova e il
Cile golpista di Pinochet». Parallelo coniato da Agnoletto a cui si è accodata l’Unità e poi addirittura D’Alema che
«ha accusato il governo di “violenze di tipo fascista” e di “rappresaglie di
tipo cileno”». Così – per Pansa – i Ds sono «la caricatura di Rifondazione»;
sarebbe una tragedia se la Quercia si abbandonasse alla deriva del movimentismo
e della politica di piazza. Andare al traino della ditta Agnoletto&Casarini
condurrà la Quercia al definitivo disastro elettorale».
Sull’autunno caldo che si prospetta Pansa spera almeno nel
leader della Cgil: «C’è da augurarsi che sia Cofferati il baluardo vero contro una
balorda piazza continua». Ma il 16 agosto, tratteggiando il ritratto di un
altro Capitan Fracassa, quel Caruso che «ha dichiarato guerra all’incontro
della Nato a Napoli», ha denunciato l’atteggiamento del centrosinistra in vista
di settembre: «L’Ulivo, o quel che ne resta, si attesta su una linea volpina.
Afferma: se la veda il Berlusca, l’ordine pubblico tocca a lui. Sotto le parole
si gonfia una speranza: se la piazza farà cadere il governo, viva la piazza!».
Poi Pansa ha pizzicato «l’ingenuo Walter Veltroni» e «lo svagato Francesco
Rutelli» e ha concluso mettendo in guardia dall’impasto di «ribellismo e
tartufismo». Perché in questa rivolta annunciata «possono insediarsi demoni
terrificanti. Temo sia questo il rischio che attende al varco l’Italia».
La doverosa antologia del Pansa-pensiero dimodstra che
nell’impazzimento generale anche a sinistra c’è chi ha conservato la testa
sulle spalle. Il suo caso, oltre a documentare la realtà intellettuale di un
grande giornalista, dimostra che non bisogna essere di un partito «di destra»
per capire il pericolo, basta solo non militare nel partito preso.
Dietro l’allarme lanciato da Pansa si sente, tangibilmente,
l’angoscia di un déja vu che non si
vorrebbe rivivere. Di una sinistra, anche intellettuale e giornalistica, che
già negli anni Settanta tardò tragicamente a capire dove portava la violenza diffusa.
Su quella stagione proprio Pansa scrisse un libro notevole,
«Carte false», in cui (senza chiamarsi fuori) denunciò tutti gli errori e gli
orrori del giornalismo, soprattutto di sinistra che era la gran parte.
Il capitolo sugli anni del terrorismo rosso era intitolato
«I chiechi» e conteneva questi eloquenti paragrafi: «Quei fascisti delle Br»,
«Mai credere ai poliziotti». Nel capitolo «I reticenti» c’erano fra gli altri
paragrafi: «Un fetore di bugie» e Pol Pot mon amour».
Vi si raccontava come i grandi giornalisti progressisti non
riferirono la verità sul Vietnam comunista e la Cambogia di Pol Pot e che solo
in seguito lo riconobbero. Pansa riportava anche la memorabile lettera a Repubblica di una giovane lettrice che reagiva
proprio a una di queste confessioni postume: «Quella che vuol sembrare
una onesta autoaccusa è in realtà un facile lavaggio di coscienza. Chi
risarcisce tutta quella generazione che credette ai rapporti giornalistici di
chi era in prima fila sul posto, che ascoltò i resoconti di guerra degli osservatori? Ora scopro che
impunemente si può dire “Ho sbagliato, ero lì a vedere ma ho sbagliato a giudicare:
ero un giornalista, un professionista, andato a vedere come si stesse facendo
la storia e ho dato giudizi distorti; ho visto eccidi di civili compiuti dai
Kmer rossi e li ho giudicati strumentalmente camuffati dalla Cia perché le
ideologie dovevano essere sostenute
anche a dispetto dell’accaduto”».
Concludeva la lettrice: «I giovani degli anni Settanta
avrebbero preferito sapere la verità allora».
Pansa deve ricordare bene, oggi, queste dolorose parole che
ripubblicò nel suo libro. E la sua lealtà merita una forte stretta di mano.