Il Tirreno
giovedì 12
luglio 2001
L’opinione
di Marco Tangheroni
A proposito
del Duomo di Pisa, delle nuove sculture inserite (altare ed ambone) e delle
vecchie eliminate, è bene che la discussione non sia presentata o percepita
secondo categorie false. Occorre perciò sgombrare il campo da possibili
equivoci che le dichiarazioni di alcuni protagonisti potrebbero alimentare. Non
si tratta affatto di essere aperti al nuovo in quanto nuovo o difensori del vecchio:
ciò significa che sono inaccettabili sia posizioni del tipo «non toccare!», sia
pretesti del tipo «chi si oppone è un nemico del nuovo». Non si tratta neppure
di una ripresa, astratta e teorica, della vecchia questione sulla possibilità e
sull'opportunità di inserire opere d'arte moderne in contesti antichi; siamo
invece di fronte ad un caso concreto, generato non da una qualsiasi aggiunta,
che so un altare in una cappella laterale o un quadro sulle pareti di una
navata, bensì da un intervento pesante per innovazioni e radicale per
eliminazioni. Ancora: non si tratta di una disputa tra laici preoccupati
soltanto di una grande opera d'arte e di cattolici motivati del desiderio di
privilegiare il culto divino. Perché il Duomo di Pisa non è solo un insigne
monumento, la cui finalità possa essere considerata priva d'importanza. Ma non
è neppure una chiesa qualsiasi, priva di storia, di tradizione, di identità
culturale; e la liturgia non è un pacchetto preconfezionato da applicare in
tutti i suoi dettagli indipendentemente dal luogo di celebrazione: la
costituzione del concilio Vaticano il sulla liturgia parla del «tesoro
artistico» accumulatosi nei secoli «da conservarsi con ogni cura» e della
«reverenza» e dell'«onore» dovuti agli edifici sacri. Non è, non ha da essere,
una «guerra di religione», non è la legittima difesa dell'autonomia della
Chiesa di fronte ad una persecuzione amministrativa o politica o intellettuale.
Né è, ovviamente, questione dell'apprezzamento o meno del lavoro di uno
scultore di sicuro valore come Vargi, bensì del rapporto del «suo» ambone con
la Cattedrale cui sono stati destinati. Su un altro concetto mi pare necessario
insistere: il Duomo di Pisa non è (sostanzialmente, dico, non formalmente»
proprietà della Deputazione dell'opera della Primaziale, di questa Deputazione,
o dell'arcivescovo. Non si tratta di «avere i permessi in regola» come se fosse
questione di modificare l'assetto interno di un qualsiasi edificio privato.
Ogni intervento sul Duomo di una qualche portata deve (dovrebbe) porsi in
rispettoso e prudente dialogo con il passato, con la storia, con gli sforzi
enormi che, nelle buone e cattive sorti della città (e del Duomo stesso), i
pisani del passato seppero fare per la loro cattedrale: pensando fin
dall'inizio non soltanto ad un edificio a gloria di Dio, ma anche ad una
costruzione «meravigliosa», come esplicitamente dichiarato in una epigrafe
della facciata. Così come dovrebbe compiersi in aperto e approfondito dialogo
con la comunità pisana di oggi, pur senza dimenticare i diversi ruoli di tutte
le sue articolazioni, ecclesiali e culturali. E con la consapevolezza che, in
senso più lato, la cattedrale è patrimonio preziosissimo di tutta la
cristianità e, più latamente ancora, di tutta l'umanità. Anche per la ricomposizione
e la ricollocazione del pergamo di Giovanni ci fu una lunga ed ampia
discussione, poi infelicemente troncata per il decisionismo dell'allora nuovo
regime fascista (a proposito: perché non si è considerata la possibilità di
riportare nella originaria collocazione questo pergamo?). Certo, alla fine
qualcuno deve decidere. Ma, appunto, alla fine. In questo caso pare invece che
il processo decisionale sia avvenuto in ambiti molto ristretti, senza il parere
(anzi: contro il parere) dei maggiori studiosi della cattedrale e della piazza.
Ripensare ad una decisione così criticabile nel metodo oltre che nella sostanza
sarebbe, da parte dei responsabili, un atto dì coraggiosa, lucida, esemplare
saggezza.