Il Giornale 5 luglio 2001
IL DOCUMENTO DEI VESCOVI
di don Gianni Baget Bozzo
Il documento dei vescovi italiani sul mondo che cambia
sembra indicare l’appartenenza strutturata alla Chiesa come la risposta alla
crisi religiosa dell’uomo del nostro
tempo. Essere cristiani sembra ridursi a partecipare a qualche attività
ecclesiastica. Questa indicazione colpisce perché quella che diminuisce sempre
più è la frequenza dei cattolici alle funzioni ecclesiali. E inoltre le funzioni
ecclesiali hanno perso sempre più in bellezza, in spectaculum. Sono sempre più simili ad assemblee: da quelle di
condominio a quelle di partito. La Chiesa ha pensato di sostituire quel grande
spettacolo che era la messa tradizionale con una riunione che consiste in un
ritmato compiere di gesti, di parole, ascoltando cose che sono sempre più
simili a quelle che si leggono sui giornali o si sentono in televisione.
Insomma, l’ennui, la noia di Sartre.
I vescovi hanno lasciato distruggere la messa cattolica come spettacolo e
pretendono che i fedeli divengano spettacolo se stessi.
La socializzazione della religione è la distruzione della
religiosità. Ed è questo che è in crisi oggi nella Chiesa: la religiosità. La
religiosità è un fatto soggettivo, consiste nel parlare con Dio e ritenere di
essere ascoltati, percepirne la presenza perché Dio è generoso con chi lo
prega. La preghiera è la dimensione dell’esperienza divina, la via in cui tutto
il popolo cristiano è chiamato alla mistica.
Ora se vi è una parola che manca nel documento ecclesiastico
è proprio la parola di Dio in quanto
termine della religiosità, infine
l’unico Dio accessibile al credente. E in realtà questa preghiera del cuore è
solitaria: il cuore parla al cuore, come volle scritto nel suo motto cardinalizio
il cardinale Newman.
Di tutto questo non vie è traccia nel documento dei vescovi , scritto nel più puro
ecclesiastichese. Ci sembra un errore fondamentale; questo è un tempo di intensa religiosità individuale, in cui
la ricerca del senso della vita è divenuto
il principale bisogno sociale, la disperazione, l’angoscia, la violenza
gratuita, persino il suicidio, sono testimonianza di un’angoscia diffusa.
Questo è il tempo dell’angoscia, quella che Kierkegaard aveva scoperto nel
cuore della modernità. Oggi nella postmodernità, la solitudine del cuore e la
perdita del senso sono divenute il primo problema sociale: sociale in senso
stretto, l’angoscia spirituale che fa dell’Italia il Paese dei tranquillanti è un fenomeno di rilevanza politica
primaria. Pensare che ascoltare il sermone sociale del parroco o ripetere le
formule del libretto domenicale, partecipare a opere sociali risponda alla
mancanza di senso non ha senso: l’attivismo sociale è una risorsa di breve
termine contro l’angoscia di vivere.
Oggi il dolore di vivere è un fatto nuovo che la mia generazione, quella che ha fatto la guerra e quella dopo non hanno conosciuto. Forse è un fatto che comincia con il ’68. E spingere i preti all’attivismo sociale è spingerli verso l’alienazione dalla dimensione della loro soggettività religiosa. Socializzare il prete è distruggere l’uomo nel prete, il cristiano mistico che è nel prete. Ma quel che sorprende in questo linguaggio è la perdita totale del linguaggio cattolico tradizionale. Rimane la Scrittura, ma di santi vedo citati solo San Bernardo e San Giovanni della Croce. Non vi è continuità con il linguaggio tradizionale, la memoria del linguaggio cattolico non c’è più. E poi colpisce il silenzio sull’anima, sulla morte, sulla vita dopo la morte. Come se questi temi non fossero al centro delle ragioni per cui un uomo e una donna sono cristiani. Il documento vive al di qua della morte come se non vi fosse la morte né il di là della morte. E’ questo il linguaggio per l’uomo del 2000: la socializzazione? Ma il comunismo, eccellentissimi vescovi, è finito da tempo e con esso il paradigma della socializzazione dell’uomo come liberazione dell’uomo. E’ morto il «grosso animale sociale» descritto da Simone Weil ed è ben curioso che la Chiesa voglia resuscitarlo in se stessa.