IL CASO / Lettura teologica del cardinale Biffi

 

 

Pinocchio, un burattino per il regno dei cieli

 di Paolo Francia

Pinocchio e il cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna. Un tète a tète che dura da 66 anni, da quel lontano 7 dicembre 1935 in cui il padre, portandolo a Sant’Ambrogio (a Milano) decise di regalargli una copia del libro di Collodi. E se per un bel po’, forse fino al liceo, quel libro tornava al bambino e poi ragazzo Giacomo noioso, melenso, quasi fastidioso, tale comunque da non creargli alcun senso di interesse, ecco che all’improvviso, lo racconta Biffi, «mi apparve la luce». Al punto di farlo diventare il più acuto esegeta del burattino di legno e di renderlo autore di uno studio tradotto in molte lingue e considerato fra i trattati teologici più profondi degli ultimi trent’anni. L’opera di Collodi è nella letteratura universale un ‘caso’, che nasce dalla sproporzione fra la modestia esteriore dell’opera e il suo successo, che è senza confini e senza eclissi. In questi tempi sta vivendo una nuova giovinezza, l’ennesima; e così ritorna alla ribalta il Commento teologico alle avventure di Pinocchio che il cardinale assembla quasi un quarto di secolo fa e che rimane fresco e vivido di luce propria, soprattutto quand’è arricchito —come l’altra sera al Circolo della Caccia di Bologna davanti a un pubblico compito e attento — dalla narrazione e dalla spiegazione di Biffi in persona. Un caso, o forse addirittura un ‘enigma’. Perché di Collodi, negli oltre 120 anni di vita di Pinocchio, si è detto tutto e il contrario di tutto. Giovanni Spadolini lo vedeva convintamente mazziniano e riteneva dunque che il libro cm,tasse l’autoredenzione dell’uomo e proponesse la religione laica del dovere e del lavoro. E’ vero che in quegli anni i rivolgimenti politici ispirati a ideologie estranee ai sentimenti del nostro popolo avevano mortificato l’ortodossia cattolica (dl solo elemento, oltre alle paste alimentari — ricorda l’arcivescovo di Bologna con garbata ironia — che in qualche modo accomunasse gli italiani») e Collodi aveva finto di adeguarvisi. Ma per prendersi beffe di quelle ideologie e, senza farsi scoprire, spazzare via gli sbarramenti censori della dittatura culturale dell’epoca, dando vita a un’opera contrassegnata da una profonda religiosità e da una lunga serie, sette per l’esattezza, di ammaestramenti che addirittura «sostanziano l’autentica antropologia cristiana». Biffi, demolisce l’asserito «mazzinianesimo» di Collodi e gli apre la porta di una sorta di grandezza escatologica. Con quale chiave? Ce la mostra il cardinale. Lo scrittore toscano coglie, capisce e rappresenta i ragazzi com’erano nella realtà, senta Im-posizioni e senza manipolazioni ideologiche. Non erano conservatori o progressisti, clericali o anticlericali, monarchici o mazziniani, liberali o socialisti. Nessuna ideologia li aveva ancora raggiunti. Non erano però neppure dei barattoli vuoti ma possedevano una precisa gerarchia di valori. E Collodi, che era a sua volta diventato scettico nei confronti di tutte le ideologie, riesce con Pinocchio a porsi in comunicazione con i bambini e con la ricchezza della Verità che custodivano in cuore. Ai ragazzi del 1881 non erano ancora arrivate le ideologie, ma era già arrivata la verità, quella che aveva dato a sua madre (dal quale non si era mai staccato, al punto da non sposarsi) la forza di vivere, quella che «ogni cuore umano non prevenuto percepisce d’istinto come la sola luce che salva». Ecco, postilla il cardinale Biffi, che si avvera la parola profetica di Gesù: «Se non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli» e «Chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli». E la stessa storia dell’uomo, com’è narrata in Pinocchio. non ha un lieto fine immancabile: se l’ex-burattino si sublima grazie alla Fata e si salva, Lucignolo (che non è raggiunto da nessuna potenza redentrice) si danna. A significare che la nostra vicenda umana puà avere due opposte conclusioni: o la salvezza o la perdizione.